Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2016-2017
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Marco Angius
Pianoforte Aldo Orvieto
Carmine-Emanuele Cella: Random Forests
Camillo Togni: Variazioni op. 27 per pianoforte e orchestra “Al mio Maestro Arturo Benedetti Michelangeli”
Robert Schumann: Sinfonia n. 1 in si bemolle maggiore op. 38 “Primavera”
Venezia, 4 marzo 2017
Una serata “storica” – almeno per i cultori della musica contemporanea – può essere considerata quella svoltasi il 4 marzo al Teatro Malibran, nel corso della quale – a conferma della particolare attenzione verso il Novecento italiano caratterizzante la presente stagione sinfonica – si è potuta ascoltare la versione originale delle Variazioni per orchestra di Camillo Togni, mai più eseguita dopo la prima assoluta – avvenuta nel lontano1946, nel contesto del nono Festival della Biennale di Venezia, sotto la direzione di Bruno Maderna –, essendo scomparso il manoscritto originale, che solo di recente è stato ritrovato. Protagonisti della serata due interpreti di riferimento per quanto riguarda il repertorio contemporaneo: il maestro Marco Angius e il pianista Aldo Orvieto.
Espressione della contemporaneità più immediata era il primo pezzo in programma, Random Forests di Carmine-Emanuele Cella – nuova commissione nell’ambito del progetto “Nuova musica alla Fenice”, con il sostegno della Fondazione Amici della Fenice – presentato in prima esecuzione assoluta. Cella è un musicista che – grazie anche alla sua esperienza di ricercatore presso l’IRCAM e all’interno dell’équipe di matematica applicata dell’École normale supérieure di Parigi – lavora sulle relazioni tra musica e matematica. Random Forests – come spiega lo stesso autore – prende le mosse da uno strano fenomeno verificabile nella geometria ad alta dimensione, in base al quale – diversamente da quanto avviene nell’esperienza quotidiana, dove i concetti di vicino e lontano risultano ben differenziati – la distinzione tra vicino e lontano non è affatto scontata e può essere verificata soltanto creando un enorme numero di percorsi casuali tra due luoghi e valutando il grado di probabilità, che ognuno di essi presenta, di congiungere i due punti interessati. Proprio una foresta di percorsi casuali intende evocare Random forests, che esprime musicalmente “un luogo immaginario, dove nulla è vicino o lontano, ma tutto è ovunque ed è illuminato da una soffusa luce che filtra dai rami degli alberi”. Queste, sinteticamente, sono le intenzioni – se ci è consentito esprimere un giudizio, un tantino cervellotiche – del giovane compositore, che probabilmente solo un esperto potrebbe cogliere, ascoltando con la partitura alla mano. Comunque, anche ad un primo semplice ascolto si è è potuta apprezzare la carica suggestiva di questo pezzo di notevole ricercatezza timbrica e ritmica, che si snoda tra episodi pacati, carichi di attesa, ed accensioni emotive, che fanno sussultare come lo scatenarsi improvviso di forze oscure e minacciose – complice Marco Angius, che ha dimostrato di dominare completamente questa variegata partitura, coadiuvato da un’orchestra duttile e musicalissima.
Quanto alle Variazioni di Togni, quest’opera, risalente al periodo giovanile, costituisce una prima tappa fondamentale nel percorso di approfondimento della scrittura dodecafonica da parte del compositore bresciano, che riteneva il metodo elaborato da Schönberg un’assoluta necessità storica, in quanto gli appariva come l’unico mezzo espressivo in grado di traghettare il linguaggio musicale oltre la crisi tardo romantica – un periodo cruciale in cui la forza espressiva della musica finiva per annegare nel suo stesso esasperato cromatismo – dando forma a composizioni solidamente costruite, ad imitazione delle grandi architetture musicali barocche, da lui tanto ammirate. Merita ricordare che il solista al pianoforte, Aldo Orvieto, ha contribuito in modo determinante al recupero del manoscritto originale, intuendo – nel corso di uno studio accurato dell’opera pianistica di Togni, conservata presso la Fonazione Cini di Venezia – che l’autografo delle Variazioni era con ogni probabilità reperibile all’interno del lascito musicale di Lya De Barberiis, una pianista profondamente legata al compositore. Cosa che fu puntualmente confermata nel 2015 dal ritrovamento della partitura originale proprio tra i documenti contenuti nell’archivio della musicista leccese. Di estrema eleganza timbrica è apparsa l’esecuzione, da parte degli interpreti, di questo lavoro, che ci proietta nel panorama musicale italiano dell’immediato secondo dopoguerra, allorché l’assimilazione della dodecafonia rappresentava un mezzo per uscire dal provincialismo che aveva segnato negativamente anche la cultura musicale del nostro Paese negli anni del regime. Aldo Orvieto – sorretto da un’orchestra assolutamente precisa ed espressiva, guidata con autorevolezza e raffinato senso della forma e del colore da Marco Angius – ha confermato la sua capacità di approfondita lettura del repertorio del secondo Novecento, unita ad un tocco sempre nitido e ben dosato sia nell’articolare il fraseggio che nel far risuonare i suggestivi aggregati armonici. Il pianista si è destreggiato con sicurezza in questa pagina certamente complessa e non priva di difficoltà esecutive, nella quale il pianoforte ha un ruolo prevalentemente concertante – impeccabile, a tal proposito, la sintonia tra il solista e l’orchestra – e il metodo dodecafonico è intimamente legato alle istanze espressive, non escludendo, tra l’altro, qualche rapida, nostalgica incursione nella dimensione tonale (la serie utilizzata in queste Variazioni contiene, non a caso, quattro triadi perfette).
La seconda parte del concerto era occupata dalla Prima sinfonia di Robert Schumann, con cui si è conclusa l’esecuzione dell’intero ciclo sinfonico del sommo musicista tedesco: uno dei temi conduttori della presente stagione di concerti. Il primo lavoro di Schumann nel campo sinfonico nacque poco dopo il suo matrimonio con Clara Wieck in un periodo di particolare ricchezza creativa: abbozzato in pochi giorni, venne completato in meno di un mese, tra il gennaio e il febbraio del 1841, a testimonianza dell’urgenza da parte del compositore di cimentarsi in un genere più versatile dal punto di vista espressivo rispetto al pianoforte – per cui aveva composto intensamente negli anni precedenti –, e nel contempo dell’ammirazione che nutriva per la produzione sinfonica di Schubert, in particolare per la Sinfonia in do maggiore “La grande”: non a caso le prime battute della prima sinfonia di Schumann iniziano con una fanfara degli ottoni, che contiene già il germe tematico dei primi due movimenti, analogamente a quanto accade nell’incipit della monumentale partitura schubertiana. Angius – secondo una chiave di lettura che rifugge da ogni affettazione o estenuazione a livello espressivo – punta a mettere in evidenza le simmetrie, le iterazioni che caratterizzano la partitura, dando nel contempo particolare risalto alle contrapposizioni che, sul versante timbrico e dinamico, caricano di tensione dialettica il lavoro, che – forse anche grazie al sapiente lavoro di concertazione da parte del direttore – sembra smentire certe ingiuste riserve avanzate anche nel recente passato nei confronti del compositore tedesco per quanto concerne le sue capacità di orchestratore. Ne è risultata un’esecuzione diffusamente energica e brillante, in cui le espansioni liriche – come nello struggente Larghetto – non hanno forse avuto il rilievo che meriterebbero, ma in ogni caso di grande impatto sul pubblico. Caloroso successo per il direttore, il solista e l’orchestra.