“Maria Stuarda” all’Opera di Roma

Roma, Teatro Costanzi – Stagione lirica 2016/17
“MARIA STUARDA”
Tragedia lirica in due atti su libretto di Giuseppe Bardari, dalla tragedia “Mary Stuart” di Friedrich Schiller.
Musica di Gaetano Donizetti
Maria Stuarda, regina di Scozia MARINA REBEKA
Elisabetta I, regina d’Inghilterra CARMELA REMIGIO
Roberto, conte  Leicester PAOLO FANALE
Giorgio Talbot CARLO CIGNI
Lord Guglielmo Cecil, gran tesoriere ALESSANDRO LUONGO
Anna Kennedy, nutrice di Maria VALENTINA VARRIALE
Orchestra e Coro del Teatro dell’Opera di Roma
Direttore Paolo Arrivabeni
Maestro del coro Roberto Gabbiani
Regia Andrea De Rosa
Scene Sergio Tramonti
Costumi Ursula Patzak
Luci Pasquale Mari
Nuovo allestimento in collaborazione col Teatro San Carlo di Napoli  
Roma, 22 marzo 2017
Dramma di rara esecuzione, la “Maria Stuarda” resiste alla ridistribuzione vocale delle opere ottocentesche schierando due parti per soprano protagonistiche, attorno alle quali ruota una compagine di ruoli maschili secondari e funzionali al contesto. Talbot e Cecil, ad esempio, acquistano spessore solo quando si tratta di fare da supporto a Maria o d’incitare la spietatezza di Elisabetta, mentre Leicester sussiste prevalentemente in relazione alle due avversarie e come fattore scatenante la furente vendetta finale. Su tutto questo si concentra l’allestimento di Andrea De Rosa, che ritaglia i personaggi in una cornice intima, capeggiata da una grande pedana su cui si consumano le passioni delle regine, e sulla funzione narrante della parete di fondo, dove squarci orizzontali riportano la vicenda alla sua ambientazione naturale, lasciando intravedere la presenza del popolo inglese, il giardino di Fotheringhay e perfino la lugubre scure del boia. Tutto il resto non trova spazio nelle scarne ed oscure scene di Sergio Tramonti, il cui unico appiglio con la storia è stilizzato nei costumi di Ursula Patzak, che contrapponendo il gelido grigio lama della veste di Maria ai toni caldi dell’abito regio di Elisabetta hanno parzialmente sopperito alla staticità delle luci (Pasquale Mari).
In assoluta sintonia col portamento regale, beffarda nel vedere cadere la donna di cui è invidiosa, ma anche umana nel soffrire le angosce di un amore non ricambiato, Carmela Remigio mostra grande affezione per questa sua prima Elisabetta, da cui emerge con un’interpretazione di tutto rispetto. La furente autorità della regina s’impone prevalentemente nel registro medio-acuto, laddove il timbro acquisisce maggiore smalto, e nella definizione di un fraseggio circostanziato. Allo scendere della scrittura, infatti, la voce transita da una fascia più ovattata, approdando ad un registro medio-grave più debole, che ha indotto il soprano ad affrontare il canto spianato prediligendo tempi ampi e variazioni in acuto, mentre ancora maggiore è stata la cautela sulle agilità. Se quest’impostazione ha stemperato l’alterigia del momento solistico, ma era tutto sommato rivolta a colmare il dislivello tra le diverse tessiture del ruolo, meno comprensibile è stata la discontinuità nella ricerca di colori. Al capo opposto, sembra ancora avere margine di miglioramento la Stuarda di Marina Rebeka, che al debutto presenta qualche durezza da limare, soprattutto quando puntature e sovracuti (inclusi i re naturali) sono emessi di forza. Alle prese con l’ampio ambito vocale della parte, che richiederebbe un più rodato registro di centro, il soprano lettone alterna suoni ben timbrati a morbide attenuazioni, fluidificando con arte i vocalizzi del canto fiorito. Il suo approccio è fiero, ma da subito ombroso e disilluso, in linea con un timbro cristallino che sa instaurare momenti di suggestione, specialmente quando la melodia procede per gradi congiunti, dove l’emissione dei legati è intrisa di struggenti variazioni dinamiche, all’interno di una proiezione rotonda e vellutata, che fa un arguto uso della respirazione. L’ultima invocazione a Roberto è un travolgente crescendo con subitaneo smorzamento, a suggello della solida gestione delle volatine della confessione: mezzi espressivi sfruttati in chiave drammatica per realizzare un etereo processo d’espiazione. La contesa tra le due primedonne metteva in secondo piano il Roberto di Paolo Fanale, che è dovuto scendere a compromessi con uno strumento vocale ristretto e dall’emissione precaria, spesso gutturale nei passaggi di registro e pallido in acuto. Anche gli spunti di approfondimento coloristico hanno destato scarso interesse e sono più volte sfociati in piano di emissione nasale, mentre le occlusioni sulle vocali e la fissità di alcuni passi discendenti lo hanno tenuto lontano da un fraseggio persuasivo. Maggiore equilibrio si riscontrava, invece, nelle inserzioni liriche di centro, almeno quando la tenue proiezione non era sovrastata dall’orchestra, dove il giovane tenore ha arricchito la convincente immedesimazione scenica con accenti più veementi e generose tenute dei fiati. Malgrado la parte poco estesa, è ancora una donna a spiccare tra i comprimari, visto che Valentina Varriale figura un’Anna Kennedy nitida e ben centrata, soprattutto nel credibile apporto al cospetto dei familiari di Maria, a dispetto dei più articolati interventi di Carlo Cigni (compassionevole Talbot) ed Alessandro Luongo (nefasto Cecil), tendenzialmente risonanti ma dall’emissione poco omogenea.
In una produzione che guarda all’introspezione ed approfondisce ciò che i personaggi (incluso il popolo) si aspettano l’uno dall’altro, avremmo confidato in una maggiore inventiva da parte del maestro Paolo Arrivabeni, a cui va il merito di aver riportato la partitura al suo aspetto originario, impersonando fin dal preludio la rivalità delle regine con la giustapposizione dei tratti solenni relativi ad Elisabetta alla mistica voce del clarinetto. Alla prima, infatti, la direzione esordisce con attacchi lenti e strette rapide, per adagiarsi su sonorità fisse e tempi moderati, dando l’impressione di dover ancora trovare un assetto definitivo. Assoli e duetti sono perlopiù in osmosi col palco, ma per un qualcosa di più si dovrà attendere l’ipnotica parentesi d’arpa del finale secondo, frutto anche dell’abile contrapposizione tra forte e piano con cui il coro di Roberto Gabbiani sospende l’eco della preghiera di Maria. Foto © Yasuko Kageyama