Madrid, Teatros del Canal, Temporada 2016-2017
“L’ORFEO”
Favola in musica su testo di Alessandro Striggio
Musica Claudio Monteverdi
Orfeo CYRIL AUVITY
Euridice / La Musica HANNAH MORRISON
Ninfa / Proserpina MIRIAM ALLAN
Messaggiera / Speranza LEA DESANDRE
Pastore / Spirito CARLO VISTOLI
Pastore SEAN CLAYTON
Spirito ZACHARY WILDER
Plutone / Spirito / Pastore ANTONIO ABETE
Caronte / Spirito CYRIL COSTANZO
Apollo / Eco PAUL AGNEW
Les Arts Florissants
Direttore e regia Paul Agnew
Costumi Alain Blanchot
Scene e luci Christophe Naillet
Coproduzione Les Arts Florissants, Théâtre de Caen, Philarmonie de Paris
Madrid, 10 marzo 2017
«Nulla impresa per uom si tenta invano / nè contra lui più sa natura armarse». Sembra potersi declinare anche per Paul Agnew il senso profetico ed encomiastico del coro degli spiriti infernali, dato che l’artista affronta la direzione musicale dell’Orfeo e contemporaneamente assume la parte vocale di Apollo e la regia dell’allestimento scenico. Deus ex machina in accezione reale, dunque, e garante della coerenza stilistica che caratterizza questo spettacolo straordinario di passaggio a Madrid. In rapporto alle esigenze del proto-melodramma, la Sala Roja del Teatro Canal è uno spazio moderno e molto grande (perfetto parallelo italiano gli Arcimboldi di Milano), ma le scelte funzionali di Les Arts Florissants la rendono perfettamente plausibile. Del resto, lo spettacolo pare improntato al recupero storico dell’interazione tra musica, recitazione, canto, e al tempo stesso a proporre una concezione della “favola in musica” lontana da qualsiasi tentazione trionfale o spettacolare; più che il barocco dell’eccesso e delle bizzarrie – giusta le definizioni accademiche già filtrate dall’Illuminismo – L’Orfeo di Agnew rappresenta il razionale equilibrio e la semplicità dell’Arcadia. Non per nulla, come lo stesso regista riconosce, il pittore cui si è ispirato per lo stile dei costumi e della gestualità è Nicolas Poussin. Il Teatro Canal non ha fossa per l’orchestra; i musicisti si trovano dunque sulla scena, mescolati ai cantanti, e vestono costume analogo a quello dei personaggi della favola (pantaloni di tela e ampia camicia, stretta alla vita da un nastro colorato, per gli uomini; peplo in tinte pastello per le donne); di più, tra strumentisti e vocalisti è una fusione perfetta, grazie all’interazione degli archi e delle trombe, che si muovono sul palco con completa naturalezza. Due coppie di tiorba e organo, in funzione di basso continuo e collocati agli estremi laterali del boccascena, garantiscono una resa stereofonica di costante suggestione. Il direttore è la presenza più discreta di tutte: fa il suo ingresso soltanto nella scena conclusiva, per dar voce da suo pari all’Eco e ad Apollo che trae Orfeo verso il cielo, «dove ha virtù verace / degno premio di sé diletto e pace». Come la rappresentazione dei momenti inferi non ricerca alcun effetto spaventoso o allusivo alla morte, così il catasterismo finale non insegue alcun effetto di sublime trasfigurazione. La scena unica rappresenta un cerchio di grandi pietre, ispirate ai complessi celtici in cui si adorava il dio Sole, quale parallelo cultuale dei santuari apollinei della Grecia classica. Anche questa scelta allontana vieppiù L’Orfeo di Agnew dalle consuete caratterizzazioni topografiche e stilistiche, sottraendolo all’idea di Grecia idealizzata proposta dal Rinascimento italiano. Non è astrazione, ma eliminazione di particolari superflui; lo spettacolo non ha infatti nulla di incoerente, anzi, non c’è verso cantato di cui lo spettatore non apprezzi la meticolosa traduzione in termini di recitazione o di interpretazione musicale: tutto dipende da un’attentissima lettura del testo poetico di Striggio. Anche le varie responsioni strofiche sono risolte con brillante semplicità e ironia: quando Orfeo deve cantare le quartine di «Vi ricorda, o boschi ombrosi» (II atto), sono i pastori a suggerirgli il testo da intonare, con dei biglietti recanti la poesia; ma quando giunge all’ultima quartina («Sol per te, bell’Euridice»), il cantore si libera dei suggerimenti altrui per celebrare direttamente l’amore nei confronti di Euridice, tra la stupefazione generale di ninfe e amici.
La celebre toccata d’apertura non squarcia il silenzio, perché prosegue gli accordi sempre più impellenti della prima tiorba (il bravissimo Thomas Dunford), seduta al centro della scena e facente parte della cerchia dei sodali di Orfeo; questo felice accorgimento fa perdere ogni solennità alla brevissima sinfonia, e allo stesso tempo esalta l’effetto di presentazione della Musica nel Prologo. Gli strumentisti sono in tutto diciassette (due violini, due viole, una viola da gamba, un violone, due flauti, quattro tromboni, un’arpa, due tiorbe e due organi) mentre il coro è formato da due voci per ognuno dei principali quattro registri (e dunque da otto elementi). L’assenza della fossa orchestrale e la compresenza di tutti gli esecutori sul palcoscenico, per lo più raccolti nello spazio centrale, abbastanza in avanti verso la platea, fanno sì che la compattezza del suono non si disperda, e ricrei l’effetto di una rappresentazione all’interno di un grande salone signorile, come presumibilmente accadde a Mantova nel 1607. Cyril Auvity è il tenore che interpreta il ruolo di Orfeo; debuttò nel 2000 al Festival di Aix-en-Provence nel Ritorno di Ulisse in patria diretto da William Christie. Ha voce dal timbro brunito e virile, contrapponendosi così in modo efficace sul piano vocale agli altri due tenori della compagnia (Zachary Wilder e Sean Clayton), dall’emissione molto più chiara. Auvity è un interprete ideale, sia per la ricchezza di armonici della voce sia per la straordinaria capacità attoriale, che emerge soprattutto nella estesa parte protagonistica ambientata agli inferi (atti III e IV); gli si può imputare una lieve debolezza nel registro basso, ma la parte è complessivamente resa in modo molto convincente. Ugualmente soddisfacente è la prova di Hannah Morrison, nel ruolo doppio della Musica e di Euridice: si distingue, per esempio, nei trilli – abbastanza bene sgranati – e nelle messe di voce. Il Caronte di Cyril Costanzo non è abbastanza incisivo e spaventoso, mentre spicca per correttezza e adeguatezza di registro il Plutone di Antonio Abete, un basso italiano che tutti i più importanti complessi del mondo hanno scritturato per dare voce all’opera barocca. L’impostazione vocale, in questo peculiare genere di melodramma, dipende da molti elementi, e non soltanto da ragioni di “scuola di canto”. Se le scelte direttoriali sono sempre importanti, va detto che in Agnew continua certamente il magistero di Christie, di cui è da molti anni il collaboratore privilegiato; questo implica che la linea vocale eviti accuratamente le appoggiature troppo rigide e l’emissione fissa; anche il ricorso ai portamenti è limitato alle frasi più enfatiche e autenticamente “melodrammatiche”. La menzione di Christie ha inoltre un preciso significato storico-biografico, perché molti dei cantanti della compagnia provengono dal Jardin des Voix, l’accademia biennale che il fondatore di Les Arts Florissants ha creato nel 2002 per selezionare gli artisti più adatti al repertorio dell’ensemble.
Tutta quanta la cornice scenica ha un’impronta intimistica; c’è un’unica pausa tra II e III atto, che suddivide la rappresentazione in due parti, quella luminosa e terrestre e quella ctonia e avernale, prima della risalita di Orfeo ai campi di Tracia in cui Apollo scende a soccorrerlo. Ogni scelta, comunque, dipende in maniera così naturale dal testo letterario e dalla partitura musicale che riesce difficile parlare di “regia” nell’accezione solitamente utilizzata per il teatro musicale di oggi. Piuttosto, nel lavoro di Agnew si apprezza una totale coincidenza tra drammaturgia – l’intento teatrale-drammatico del libretto – e regia – intesa come necessaria traduzione scenica organizzata del canto e dell’esecuzione musicale; una coincidenza che evita la sovrapposizione di idee “altre” rispetto a quelle offerte dal testo, ma che non esclude affatto una felice originalità interpretativa. Il pubblico di Madrid segue lo svolgimento della favola con eccezionale attenzione e concentrazione, liberando lunghissimi applausi al termine e festeggiando in modo particolare il direttore-regista; in più rende palpabile il successo di uno spettacolo semplice e non semplificante. «È il testo a dover guidare l’armonia», ricorda spesso l’interprete riferendosi a tutta l’opera di Monteverdi. E sembra chiosarlo, dantescamente, anche il coro finale: lo sforzo di intelligenza dell’Orfeo (facile solo in apparenza) con Paul Agnew «d’ogni grazia il frutto coglie».