Bari, Teatro Petruzzelli: “Manon Lescaut”

Bari, Teatro Petruzzelli, stagione lirica 2017
“MANON LESCAUT”
Dramma lirico in quattro atti, libretto di Marco Praga, Domenico Oliva, Ruggero Leoncavallo, Giulio Ricordi, Luigi Illica, Giuseppe Giacosa e Giacomo Puccini.
Musica di Giacomo Puccini
Manon Lescaut MARIA PIA PISCITELLI
Renato Des Grieux FRANCESCO ANILE
Lescaut LEO AN
Geronte di Ravoir DOMENICO COLAIANNI
Edmondo MARCO CIAPONI
Un lampionaio  MURAT CAN GUVEM
Un musico  ELENA TRAVERSI
Un oste  ALBERTO COMES
Il maestro di ballo  GIANLUCA BOCCHINO
Un sergente degli arcieri  RAFFAELE RAFFIO
Il comandante di Marina  FEDERICO CAVARZAN
Orchestra e Coro del Teatro Petruzzelli
Direttore Giuseppe La Malfa
Maestro del Coro Fabrizio Cassi
Regia Stephen Medcalf
Scene e costumi Jamie Vartan
Disegno luci Simon Corder
Allestimento scenico del Teatro Regio di Parma
Bari, 7 marzo 2017
L’allestimento di Manon Lescaut al Petruzzelli di Bari ha ripreso quello realizzato nel 2005 al Regio di Parma con la controversa regia di Stephen Medcalf che oggi, come dodici anni fa, si caratterizza per un’eccessiva essenzialità, non del tutto adeguata alla drammaturgia di quest’opera. In Manon, infatti, lo spazio intimo dei conflitti tra i quattro personaggi principali (Manon, Des Grieux, Geronte, Lescaut) si articola in un sapiente gioco d’incastri con quello, pubblico, della comunità di Amiens prima, e di Le Havre poi; questo contrappunto tra intimismo ed estroversione (che nel primo atto diventa contrappunto tra diversi tipi di ‘sguardo’: quello estasiato di Des Grieux, quello beffardo di Edmondo e degli studenti, quello sornione di Geronte e Lescaut) per concretizzarsi richiede che le zone del palcoscenico, del proscenio e del fondo siano ben perimetrate e ricche di apparati e oggetti scenici: le disposizioni sceniche stampate da Ricordi nel 1893 in tal senso sono illuminanti e forse dovrebbero essere tenute in maggiore considerazione dai registi odierni. Nel momento in cui si decide, per le più disparate ragioni (non ultima un risparmio in termini economici), di svuotare il palcoscenico è infatti necessario garantire una coerenza prossemica e gestuale a salvaguardia della credibilità drammatica. Lascia quanto meno perplessi il fatto che Des Grieux, in uno dei momenti più focosi del melodramma, trascuri Manon per andare a far ruotare, senza apparenti ragioni, le forche da impiccagione che nel prim’atto reggono le insegne dei negozi di Amiens e, nel secondo, le enormi specchiere del palazzo di Geronte. Né si comprende perché Des Grieux giunga in detto palazzo in una portantina di papale memoria, o perché Geronte, una volta sorpresi in casa sua gli amanti, prenda da terra i vestiti di Manon. Beninteso, i gesti all’apparenza più bizzarri, quando sono sorretti da un’idea registica nitida, riescono a veicolare un messaggio (si pensi a certe regie di Nekrosius); ma nel caso di Medcalf la loro decifrazione è risultata ostica. Tra l’altro il fatto di trovarsi fin da subito in un deserto buio ha privato il quarto atto della sua ‘tinta’ orrifica che nel 1893 derivava dal contrasto con le ambientazioni pittoresche degli atti precedenti. Forse Medcalf ha preso troppo alla lettera le velleità wagneriane del giovane Puccini (inviato speciale a Bayreuth, per conto della Ricordi & C., con il compito di osservare le opere di Wagner per intuire quale di esse fosse più adatta a nuove importazioni su suolo italiano) e ha voluto così avvicinare questa Manon all’astrattezza di certe messinscene del Tristan und Isolde? Senza dubbio suggestiva è stata, invece, la scelta di intervallare gli atti con la videoproiezione sia di carte geografiche storiche, che indicavano i luoghi dell’azione, sia di un manoscritto che riportava la didascalia dell’intermezzo tra secondo e terzo atto. L’idea più convincente di questa regia resta però un’altra: dall’alzata del sipario e negli intervalli tra gli atti, Renato des Grieux sfoglia varie carte con agitazione crescente; si può dunque ipotizzare ch’egli sia sopravvissuto alla fuga nel deserto della Louisiana e che tutta l’opera rappresentata sulla scena in verità altro non sia che un suo ricordo, narrato alla stregua di un enorme flash back? (del resto l’abbé Prevost nel 1731 aveva pensato al suo romanzo come ad una storia nella storia: L’Histoire du chevalier Des Grieux et de Manon Lescaut è il settimo e ultimo volume delle Mémoires et aventures d’un homme de qualité).
La staticità di fondo della regia di Medcalf è stata rimarcata dal disegno luci di Simon Corder e l’intenzione di rifarsi alle incisioni settecentesche di Hogarth è stata seguita dallo scenografo e costumista Jamie Vartan in particolare nel primo atto; nel secondo, invece, la prevalenza del bianco ha decolorato i pizzi e le trine di quel Rococò vagheggiato nella Milano del decadentismo e che Puccini mirabilmente stilizzò, reinventandolo in un’operazione di squisito neoclassicismo, nella sua partitura. Il momento del ballo in casa di Geronte, con quartetti d’archi, abati e cantanti castrati, è infatti il più riuscito di questo spettacolo scabro ed essenziale perché rappresenta una stilizzazione al cubo: da un lato i dettagli stilistici pseudo-barocchi nella musica di Puccini, dall’altro la forza iconica delle enormi specchiere, simbolo dell’ossessione di Manon per il lusso e la bellezza esteriore. Giuseppe La Malfa ha diretto con correttezza ed equilibrio la complessa partitura del giovane Puccini quanto mai wagneriano, cercando di infondere la cura per i dettagli timbrici nell’Orchestra del Teatro Petruzzelli che purtroppo sembra aver smarrito quella compattezza e coesione che invece continua a caratterizzare l’ottimo Coro, magistralmente preparato da Fabrizio Cassi.
Pregevolissima la prova di Maria Pia Piscitelli, una Manon malinconica ed elegante che nella scena del minuetto esibisce una cura per gli abbellimenti tipica di chi ha esordito nel repertorio seicentesco e che lungo l’intera carriera ha padroneggiato i grandi titoli del Settecento mozartiano. La qualità saliente di questa interprete è infatti quella di abbinare, grazie alla padronanza nel passaggio di registro, la cura per le nuances alla corposità piena, richiesta dai segmenti più scopertamente drammatici. Francesco Anile possiede una voce di tenore di grande volume, sfoggia ottima dizione, ma in queste sere qualche problema contingente ha impedito ch’essa ‘girasse’ appieno. Oltre a qualche neo nell’intonazione bisogna registrare anche un certo impaccio attoriale che, per quanto possa essere legato alle indicazioni registiche e dunque non imputabile al cantante, non ha permesso di dare adeguato corpo scenico alla passione che muove ogni azione di Des Grieux. Un discorso diametralmente opposto va fatto per  Domenico Colaianni – giunto al ragguardevole traguardo del centesimo ruolo, dopo trent’anni di una carriera avviata proprio sulle tavole del Petruzzelli nel 1988 – che ha interpretato con la consueta maestria Geronte, di tessitura più grave rispetto alle parti solitamente interpretate dal baritono barese. La dimestichezza di Colaianni con i bassi-baritoni di Piccinni, Cimarosa, Paisiello, Tritto, & C.  è servita per trovare la giusta misura nell’incarnare un personaggio complesso, in continuo equilibrio tra malvagità autentica e caricatura grottesca. Il coreano Leo An ha ben interpretato Lescaut peccando forse di uniformità espressiva, ma il colore della sua voce baritonale è prezioso e anche sul piano attoriale sta raggiungendo una chiara maturità. Buone le numerose parti di fianco tra le quali merita un particolare elogio il Musico (ovvero il castrato) interpretato dalla bella voce del mezzo soprano Elena Traversi che ci auguriamo di vedere impegnata in ruoli importanti.