Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2017
“NORMA”
Tragedia lirica in due atti, Libretto di Felice Romani, dalla tragedia L’infanticide di Alexandre Soumet.
Musica di Vincenzo Bellini
Oroveso, capo dei druidi LUCA TITTOTO
Norma, druidessa, sua figlia, sacerdotessa di Irminsul MARIELLA DEVIA
Pollione, proconsole romano nelle Gallie JOHN OSBORN
Adalgisa, druidessa CARMELA REMIGIO
Clotilde, ancella di Norma MARIA MIRÓ
Flavio, romano, amico di Pollione MANUEL PIERATTELLI
Orchestra e Coro del Teatro Massimo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del coro Piero Monti
Regia Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi
Scene Federica Parolini
Costumi Daniela Cernigliaro
Luci Luigi Biondi
Nuovo allestimento del Teatro Massimo in coproduzione con Arena Sferisterio di Macerata
Palermo, 19 febbraio 2017
Nessun serto cinge le chiome di Norma al suo apparire in scena. Il capo non reca la verbena “ai misteri sacrata”, né sciolta è la capigliatura della sacerdotessa. Viceversa i suoi capelli sono annodati in un intrico di viluppi, e il corpo è ingabbiato in una rete fittissima di corde. Ogni elemento visivo dell’allestimento a firma di Luigi Di Gangi e Ugo Giacomazzi rimanda all’idea di intreccio, di nodo, di legame, di trama. E ne costituisce fonte di ispirazione l’universo di Maria Lai, artista di Ulassai scomparsa nel 2013, che nelle sue opere faceva proprio l’immaginario rituale, arcaico della terra di origine. Ma se sul piano visivo questa Norma si presenta intrisa di connessioni con la Sardegna, sul piano più profondo essa reca i segni della sicilianità. Infatti ancora
una volta la direzione artistica del Teatro Massimo punta a valorizzare le eccellenze del territorio, coinvolgendo due giovani registi siciliani, scegliendo un’opera di Bellini e affidandone la direzione a Gabriele Ferro. Lo spettacolo aderisce così a una concezione moderna, ma allo stesso tempo affonda le proprie radici nel passato. Un passato al quale rimanda in primis l’idea di sollevare la buca dell’orchestra, in modo da rendere visibili i musicisti e offrire – nelle intenzioni di Ferro – un suono più elegante, più pulito, più in armonia con i cantanti. L’espediente ha dunque permesso di apprezzare la grana delle singole sezioni strumentali, in particolare il suono caldo dei legni, e di godere di dettagli che altrimenti sarebbero passati inosservati, fra tutti l’impalpabile e limpidissimo pizzicato dei violini a sostegno del coro del secondo atto (“Non partì? / Finora è al campo”).
Anche sul piano musicale l’intento è stato quello di stabilire un contatto, di instaurare un legame più profondo che partendo dall’affinità con gli interpreti potesse coinvolgere anche il pubblico. Intenzioni esaudite attraverso la direzione trasparente ma incisiva di Ferro, alla guida di un’Orchestra del Teatro Massimo che ha convinto per il dosaggio estremamente accurato del suono, ben adattandosi alla novità del rialzo della fossa orchestrale quasi a livello della platea. La sfida di Norma, secondo il direttore, sta proprio nel pervenire a quell’equilibrio tra coinvolgimento emotivo e astrazione pura che costituisce la sostanza musicale di Bellini. Un intento analogamente perseguito dalla messinscena, a partire dalle scene ‘intessute’ di Federica Parolini, ai costumi ‘ingabbianti’ di Daniela Cernigliaro, fino agli ‘astratti’ giochi di luce di Luigi Biondi. Se la musica di Bellini procede dunque per continuità e sottrazione – con lunghe arcate in cui ogni frase sembra già proiettarsi nella successiva – lo spettacolo si sviluppa invece all’insegna di un progressivo accumulo, come una spola che scorre incessantemente nel telaio, costruendone il tessuto. Nella concezione di Giacomazzi e Di Gangi sono gli uomini a strappare le tele, a preparare l’ordito, mentre le donne mettono insieme i fili per comporre la trama astrale che verrà letta dalla protagonista. Ma è principalmente Norma a muovere i fili di quella mappa, a tramare secondo il proprio volere, decidendo perfino di ingannare il suo stesso popolo. Norma trama, ma ugualmente tramano i Druidi, vittime di una menzogna colossale ordita a causa dell’amore. Ed è sempre l’amore che spinge la sacerdotessa a contaminarsi, a mescolarsi con il nemico, dando alla luce due figli, uno bianco e uno di colore. La contaminazione non è però intenzione primaria, come vorrebbe la concezione registica, ma effetto casuale di un soddisfacimento di impulsi terreni, del bisogno di Norma di affermare se stessa.
Sin dall’inizio Norma, dunque, si presenta come una donna, fortemente ancorata a quella dimensione terrena che la musica tende di continuo a trascendere. Ma il canto di Mariella Devia opera il miracolo dell’astrazione più pura. Con la sua prova il soprano è riuscito ancora una volta a offrire una lezione di belcanto, esibendo tecnica perfetta e dominio della scena. In “Casta diva” riesce letteralmente a ipnotizzare il pubblico, a sospendere il tempo, a tendere ancor più quel filo rosso che dalla terra si proietta verso il cielo. In tal modo il filo rosso non è soltanto rappresentazione del fil rouge che lega gli eventi, ma diventa ponte ideale fra naturale e sovrannaturale, ciò che regge l’impalcatura della vicenda e simboleggia il legame fra Norma e Pollione. Ma se quel filo è in qualche modo preesistente, un altro nodo fondamentale si costruisce in Norma: quello che lega la protagonista ad Adalgisa. La scelta di affidare il ruolo a un soprano (Carmela Remigio) e non a un mezzosoprano è sintomatica di una lettura che va a centrare un aspetto essenziale dell’opera belliniana. Adalgisa è infatti l’alter ego di Norma, proiezione della sua giovinezza, del ricordo, dell’amore. Nei duetti con Adalgisa, Norma è in dialogo con se stessa. Il gesto di consegnare i fili nelle mani della giovane non allude soltanto alla volontà di affidarle i propri figli, ma è soprattutto il riconoscimento di un comune destino, di una comune identità. La Remigio è bravissima a modulare la propria interpretazione su quest’idea, sottolineando l’aspetto più elegiaco di Adalgisa, ma al contempo dando spessore alla zona media del registro. La voce acquista così maggiore intensità, esprimendosi in una linea affettuosa che attira e si rinsalda nell’intreccio con la Devia, con gesti e movimenti che si ripetono a specchio. Nonostante questo il nodo verrà reciso da una Norma infuriata, come anche il filo rosso, spezzato all’irrompere della trafelata Clotilde (l’ottima Maria Miró).
Nella mutevole gamma di passioni che albergano nel cuore della protagonista, la Devia non riesce però a rendere il volto irato della sacerdotessa, mostrandosi ora tragica, ora intensa, ma mai autenticamente furibonda. Probabilmente a pesare su questo è anche la resa caratteriale di Pollione, interpretato dallo statunitense John Osborn, affiancato dal sicuro Flavio di Manuel Pierrattelli. Il tenore tiene sotto controllo i timori legati a un ruolo impervio dipingendo un proconsole tutto d’un pezzo, spumeggiante e bambinone, ma affrontato con mobilità di fraseggio e sicurezza di squillo negli acuti. Difficile infuriarsi con un personaggio del genere, ma più opportuno pazientare nell’attesa che maturi, che prenda consapevolezza di sé e di coloro che lo circondano. Prevedibilmente i momenti più intensi si collocano nel finale, allorché i due protagonisti si fronteggiano e rivelano accenti ricchi di pathos, l’una nel sublimare ogni sentimento pregresso (“In mia man alfin tu sei”) l’altro nel comprendere finalmente il carattere della donna (“Qual cor tradisti”). Tuttavia proprio nella scena conclusiva si sono verificati due episodi di fraintendimento musicale, con un evidente sfasamento tra cantanti e orchestra recuperato per il rotto della cuffia. Non è forse un caso che tutto ciò sia avvenuto durante il confronto con il personaggio che costituisce il perfetto contraltare della sacerdotessa, l’Oroveso di Luca Tittoto, ieratico negli atteggiamenti, ma vocalmente ancorato a profondità terrene. Il timbro del basso è di grande bellezza e imponenza, in grado di sovrastare la compagine corale alla quale sempre si accompagnava, e della quale tuttavia non assumeva il ruolo di autorevole guida, bensì di interlocutore alla pari. Il Coro del Teatro Massimo ha dimostrato di aver pienamente recepito la lezione dei registi nel trasmettere mobilità e nel trasformarsi da semplice massa a popolo vivo e pulsante. Lo si è avvertito nel celebre coro del secondo atto (“Guerra, guerra”) che visivamente si presentava come il sovrapporsi di onde in tempesta, eccitate dai gesti imperiosi di Norma. Tuttavia, pur possedendo questa capacità di soggiogazione, Norma è consapevole della propria solitudine e soltanto quando rinuncia al potere ritrova l’affetto del padre, il sostegno di Pollione, l’essenza di donna. In questo si compie l’ideale di Di Gangi e Giacomazzi, nella coscienza di chi non appartiene alle leggi di questo mondo e per questo è contenta di ascendere al rogo dove più puro e santo “incomincia eterno amor”. Foto Rosellina Garbo
Repliche sino al 28 febbraio.