Venezia, Teatro La Fenice, Stagione, Lirica e balletto, 2016-2017
“TANNHÄUSER”
Opera romantica in tre atti
Musica e libretto di Richard Wagner
Hermann, Langravio di Turingia PAVLO BALAKIN
Tannhäuser STEFAN VINKE
Wolfram von Eschenbach CHRISTOPH POHL
Walter von der Vogelweide CAMERON BECKER
Biterolf ALESSIO CACCIAMANI
Heinrich der Schreiber PAOLO ANTOGNETTI
Reinmar von Zweter MATTIA DENTI
Elisabetta, nipote del Langravio LIENE KINČA
Venere AUSRINE STUNDYTE
Pastorello CHIARA CATTELAN
Paggi EMMA FORMENTI, VERONICA MIELLI, GIANLUCA NORDIO, SEBASTIANO ROSON
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Omer Meir Wellber
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Calixto Bieito
Scene Rebecca Ringst
Costumi Ingo Krügler
Light designer Michael Bauer
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Vlaamse Opera Antwerpen, Teatro Carlo Felice di Genova e Konzert Theater Bern
Venezia, 20 gennaio 2017
Tannhäuser era assente da vent’anni dalle scene fenicee, e quest’anno vi ritorna – nella versione di Parigi, 1861, per quanto riguarda il primo atto, in quella di Dresda, 1845-1860, per quanto riguarda il secondo –, portando con sé due “vecchie conoscenze” del pubblico veneziano: il maestro Omer Meir Wellber, uno dei più promettenti giovani direttori d’orchestra, protagonista di tante serate di successo; e Callixto Bieito, regista affermatosi a livello internazionale, in particolare proprio nel repertorio wagneriano, che nel teatro veneziano ha debuttato nel 2012 con Carmen. Tannhäuser – spulciamo dal prezioso saggio di Quirino Principe, contenuto nel programma di sala – appartiene alla seconda fase della produzione wagneriana, quella nella quale il Maestro di Lipsia, dopo Rienzi (1842) – un’opera che guarda chiaramente al grand-opéra francese, oltre che alla tradizione operistica italiana – si allontana dal teatro musicale allora in voga, basato in genere su una trama intricata, spesso desunta dalla storia, oltre che su una sontuosa teatralità, per dar vita a drammi, che contribuissero a rinnovare e nobilitare il “deutsche oper” e fossero incentrati prevalentemente sul mito, riallacciandosi all’antica tragedia greca, che l’autore ben conosceva: nascono Der fliegende Hollander (prima versione: 1841; seconda versione: 1843), Tannhäuser (prima versione: 1845; seconda versione: 1861) e Lohengrin (1849). Nel comporre queste partiture Wagner intendeva lasciar da parte una certa “sensualità frivola”, che imperversava sulle scene, e lo disgustava, per proporre un’idea di donna, che non avesse tratti realistici, ma corrispondesse ad un archetipo fuori del tempo: non questo o quel personaggio femminile, con suoi caratteri particolari, bensì “la donna” in assoluto. In Tannhäuser Elisabeth è concepita come una donna-angelo, che – attraverso il rinnegamento di se stessa e il sacrificio della sua stessa vita – conduce il protagonista dalla perdizione lussuriosa del Venusberg alla salvezza spirituale.
Nella concezione di Bieito la tematica religiosa, come quella estetica (la disputa sul Minnesang, la poesia d’amore), viene posta in secondo piano, mentre è preminente l’opposizione tra natura e cultura. Venere è la divinità tutelare dello stato di natura, rappresentato, nel primo atto, da un bosco incantato – fatto di alberi appesi, in modo singolare, per le radici e in continuo movimento –, nel quale – per scomodare il Tasso – “Cio ch’ei piace, ei lice”, ma che tuttavia Tannhäuser vuole lasciare, spinto dalla sua natura umana, votata al dolore. Nel corpo a corpo con la dea, che per trattenerlo gli si offre esibendo sguaiatamente il suo sfrenato desiderio, il poeta avrà la meglio.
Architetture bianche e squadrate – quelle del Castello della Wartburg –, illuminate da una luce fredda, che costituiscono lo scenario dell’atto successivo, delimitano, invece, lo spazio della vita sociale e culturale, dove – per dirla con Freud – il principio del piacere deve fare i conti con quello di realtà, ma una formazione di compromesso – almeno secondo la visione del regista spagnolo – è impossibile, visto che la stessa Elisabeth appare schiava del desiderio erotico, analogamente al suo amato Heinrich (Tannhäuser), che non a caso nella gara poetica sulla natura dell’amore inneggia a Venere e ai piaceri della carne; ma lo sono anche gli altri cantori della Minne (l’amor cortese), che – nonostante manifestino, in poesia, una concezione spirituale dell’amore stesso – si comportano come un gruppo di ragazzacci abitualmente violenti e sessualmente sfrenati – ne fa le spese la povera Elisabeth, peraltro insidiata anche dallo stesso Langravio –, nonché dediti, tra l’altro, a ritualità barbariche – si presume, alto-germaniche –, tra cui quella di cospargersi il corpo di sangue animale, come segno di forza e di appartenenza al clan. La natura torna sulla scena nel terz’atto – la terra e le foglie stanno invadendo la Wartburg –, nel corso del quale Wolfram – che non sa frenare i suoi appettiti sessuali per Elisabeth – tenta addirittura di strangolare la fanciulla, che attende il suo amato di ritorno da Roma, dove è andato in pellegrinaggio per implorare il perdono del suo peccato di lussuria. La comparsa dei pellegrini e dell’eroe eponimo, la stessa redenzione di quest’ultimo, al prezzo della vita di Elisabeth, non sembrano rilevanti nella soluzione del dramma, che Bieito sembra indicare – paradossalmnente – nel ritorno dello stato di natura, e dunque nella vittoria di Venere.
Tutto questo ha ideato Callixto Bieito per la sua, tutto sommato, gradevole messinscena del dramma musicale wagneriano, coadiuvato da Rebecca Ringst per le originali scene, Ingo Krügler per i costumi – rigorosamente, per non dire scontatamente, contemporanei o tutt’al più tardo novecenteschi, tra i quali la sottoveste nera di Venere che già vedemmo indosso a Carmen – e Michael Bauer per le suggestive luci – due fasci taglienti nel primo atto, fredde e diffuse nel secondo, più chiaroscurate nel terzo. La nostra domanda, in ogni caso, è la seguente: c’entra Wagner, in tutto questo? Forse le intenzioni dell’autore non contano come quelle del regista. Ma se le prendessimo in considerazione, coglieremmo in questa rappresentazione il rifiuto di quella “sensualità frivola”, cui abbiamo fatto cenno sopra? O una concezione della donna, quale quella a cui il compositore aspirava? Ci permettiamo di avanzare qualche riserva.
Sul versante dell’esecuzione vocale, Stefan Vinke, nel ruolo del titolo – pur essendo un tenore wagneriano affermato a livello internazionale – ha fatto sentire per buona parte della sua prestazione un’emissione alquanto sforzata, anche nelle pagine in cui avrebbe dovuto dispiegarsi il melos, per trovare una cantabilità più morbida e distesa solo nel lungo racconto del terz’atto.
Ha convinto la Venere della lituana Ausrine Stundyte – un soprano dalla voce imponente e dal bel colore – che ha saputo mettere in atto con efficacia anche il gesto scenico, voluto dal regista. Le ha corrisposto l’Elisabeth della lettone Liene Kinča – soprano dal timbro appena più chiaro –, anche lei pienamente dentro il personaggio sia dal punto di vista vocale che da quello attoriale.
Tra i Minnesänger si è segnalato, nei panni di Wolfram, Christoph Pohl, che ha sfoggiato un timbro morbidamente brunito e nobiltà d’accenti, seducendo il pubblico nel celebre canto alla Stella della Sera.
Ma anche i tenori Cameron Becker (Walther von der Vogelweide) e Paolo Antognetti (Heinrich der Schreiber), nonché i bassi Alessio Cacciamani (Biterolf) e Mattia Denti (Reinmar von Zweter) hanno interpretato la propria parte con ottimi mezzi vocali e adeguata musicalità. Dignitosa la prestazione del basso Pavlo Balakin nel ruolo del Langravio Hermann, nonostante un’estensione un po’ corta nel registro grave.
Ineccepibile, come sempre il coro, istruito da Claudio Marino Moretti, che riesce a farsi apprezzare, per l’espressione e il suono rotondo, anche nell’ultimo atto, dove canta a pancia in giù. Una menzione anche per i piccoli cantori del Kolbe Children’s Choir: Chiara Cattelan (il Pastorello), nonché Emma Formenti, Veronica Mielli, Gianluca Nordio e Sebastiano Roson (i quattro Paggi).
Su tutto e su tutti ha vegliato il maestro Omar Meir Wellber, che con sicuro gesto direttoriale – sorretto anche da un’orchestra sempre perfettamente all’altezza – ha offerto un’interpretazione assolutamente antiretorica del dramma wagneriano, che ha sfrondato di ogni possibile ridondanza, mantenendosi nel giusto equilibrio tra la cura dei particolari e una corretta visione d’insieme, oltre a far cantare l’orchestra secondo le intenzioni dell’autore, in ciò assecondato – come si è detto – da quella che è stata definita dallo stesso maestro israeliano “la più tedesca delle orchestre italiane”. Ed è un bel complimento! Successo pieno per i cantanti. Ovazioni per Wellber e Moretti. Qualche sparuto mugolio di dissenso per Bieito. Comunque, un successo.