Torino, Teatro Regio, Stagione d’Opera 2016-2017
“PAGLIACCI”
Dramma in un prologo e due atti, libretto di Ruggero Leoncavallo
Musica Ruggero Leoncavallo
Nedda DAVINIA RODRÍGUEZ
Canio FRANCESCO ANILE
Tonio GABRIELE VIVIANI
Peppe JUAN JOSÉ DE LEÓN
Silvio ANDRZEJ FILOŃCZYK
Primo contadino GIUSEPPE CAPOFERRI
Secondo Contadino GUALBERTO SILVESTRI
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi” di Torino
Direttore Nicola Luisotti
Maestro dei Cori Claudio Fenoglio
Regia Gabriele Lavia
Scene, costumi, video Paolo Ventura
Luci Andrea Anfossi
Nuovo allestimento del Teatro Regio
Torino, 14 gennaio 2017
Non c’è niente da fare: pur rivolgendosi all’esprit di uomini del XXI secolo, smaliziati da una cultura cinica e postmoderna oppure intellettualisticamente sprezzanti nei confronti di ogni vicenda squallida, sordida, bassamente “popolana”, i Pagliacci di Leoncavallo non cessano di scuotere i precordi e rimescolare i sensi in un misto di pietà e orrore, secondo le finalità più tipiche della tragedia classica. Beninteso, siamo del parere che un’opera come questa andrebbe vista a teatro una volta ogni dieci anni, e non con la frequenza con cui accade usualmente di vederli; ma tant’è. Che dire poi della scelta del Teatro Regio di presentarli da soli, senza un contrappeso tradizionale (come Cavalleria rusticana, che è poi il modello stilistico di Pagliacci; o come Gianni Schicchi, per mitigare con la risata tanta rappresentazione della morte; o come ancora Der Zwerg, abbinamento che fu proposto dallo stesso Regio nella primavera 2001, tutto giocato sul dramma della deformità e della maschera)? I più dicono che si tratti di una forma di risparmio (poco gradita a parecchi abbonati, peraltro), mentre altri apprezzano l’isolamento di uno spettacolo coerente, sintetico, unitario nell’esito tragico, che si congeda dagli spettatori con una catastrofe non redimibile o rimpiazzabile da alcunché. Da soli o in abbinamento, i Pagliacci hanno comunque bisogno di un tenore dalla vocalità robusta. E al Regio si trova Francesco Anile, chiamato a Torino perché sostituisca l’indisposto Kristian Benedikt, e si faccia poi carico di tutte le recite della seconda compagnia (tranne l’ultima, affidata a Marcello Giordani); lo stesso Anile, il giorno dopo la recita cui abbiamo assistito, avrebbe sostituito anche un altro indisposto, Fabio Sartori, protagonista della prima compagnia. Tenore lirico spinto e drammatico, con una carriera internazionale notevole, Anile è stato ascoltato al Regio quale Otello nel cast alternativo dello spettacolo inaugurale della stagione 2014-2015 (fu la sua ultima apparizione a Torino prima di quella inopinata, ma in un ruolo che conosce bene e che gli è vocalmente congeniale). Impostata in alto, chiara, abbastanza squillante, la voce è molto buona nel registro acuto. «Vesti la giubba» è staccato con un tempo piuttosto rapido, ma cantato alla perfezione, soprattutto con gusto moderno: nessun singulto o risata, nessun compiacimento patetico; in compenso un mare di voce e grandi acuti, che conquistano il pubblico. Il Canio di Anile è in linea con lo spettacolo di Lavia: c’è squallore e desolazione, ma non viene mai meno la dignità dei singoli personaggi; il che implica anche non cedere alle armi stucchevoli del singhiozzo o del portamento doloroso. Contenuto e al tempo stesso commovente, il tenore si guadagna simpatia e rispetto sinceri, come di rado avviene a chi salva all’ultimo momento uno spettacolo. Davinia Rodríguez è purtroppo una Nedda dall’emissione monotona e priva di colori; le risonanze intubate, l’assenza di fraseggio, la pronuncia incomprensibile pregiudicano la sua prestazione, anche perché è la sola interprete della compagnia a cedere alle tentazioni veriste (nell’accezione peggiore del termine) di emissioni parlate e consimili effetti filodrammatici. Gabriele Viviani ha il compito più difficile di tutti: aprire l’opera con l’arduo Prologo e interpretare la parte di Tonio, il vendicativo deforme, che a ogni costo deve risultare credibile; egli si disimpegna bene, e lo si apprezza anche grazie al timbro omogeneo e al fraseggio, sebbene l’emissione risuoni un poco affaticata. Juan José de León è un buon Peppe, ma soprattutto è un ottimo Arlecchino: con la voce chiara, leggermente vibrante e carezzevole, evoca molto bene un’astrattezza settecentesca che rende deliziosa la sua serenata (offerta – suprema accortezza registica – dall’alto di un balcone, a sovrastare come da un pulpito la folla di pubblico che riempie la piazza sottostante). Il Silvio di Andrzej Filończik regala un cameo di eleganza e correttezza, rendendo inaspettatamente simpatico l’incauto amante di Nedda. Impeccabili i cori, del Regio e quelli di voci bianche, diretti da Claudio Fenoglio. Molto buona anche la prova dell’Orchestra del Regio diretta da Nicola Luisotti, a parte qualche passaggio in cui le scelte agogiche del direttore appaiono discutibili (come nella stretta finale, troppo rallentata per rendere bene l’effetto fulminante dell’assassinio).
Sulla muraglia di fondo campeggia la scritta VINCERE, ma tutto attorno sono rovine, calcinacci, pareti crivellate dalle pallottole: è la piazzetta rurale su cui Gabriele Lavia e Paolo Ventura immaginano la rappresentazione, in un’Italia appena uscita dalla guerra mussoliniana, ancora in balía delle incertezze e delle pulsioni più feroci. Molti recensori hanno subito scritto di un omaggio alla cinematografia neorealista, ma il giudizio appare parziale: in primo luogo i colori vividi di ogni costume e di ogni elemento scenico si allontanano molto dall’esasperato spegnimento in bianco e nero delle pellicole di De Sica, Rossellini, Visconti e Germi; in secondo luogo, Lavia non rinuncia alle dinamiche di un nutrito gruppo di figuranti (acrobati, danzatori, trampolieri in costumi deliziosi), che oscilla tra l’estetica di uno Zeffirelli e di un Fellini, elargendo all’azione un tocco di ricercatezza. Non è che un risultato della qualità di cultura e finezza che Lavia confessa di aver apprezzato nell’opera di Leoncavallo, a partire dalle compite parole del Prologo (che non irrompe come un energumeno, ma chiede garbatamente se può entrare). Tale finezza ritorna tuttavia più raramente nel corso dei due atti, quanto meno nella dimensione verbale del libretto. Varrà dunque un esempio per tutti, alquanto singolare, con il quale daremo ragione a Lavia: Tonio, nei panni di Taddeo lo scemo, durante la rappresentazione farsesca del II atto si fa coraggio parafrasando addirittura la Francesca di Dante, allorché dice: «Soli noi siamo / e senza alcun sospetto» (eco diretta del «soli eravamo e sanza alcun sospetto» di Inf. V 129). Non è un banale versaccio, e forse non c’è niente di parodistico. Proviamo a ricapitolare: la scipita storiella di Colombina, Arlecchino, Taddeo e Pagliaccio altro non è che una farsa, anche se Canio la definisce nel I atto, durante la scena pubblicitaria, «un grande spettacolo»; ed è questa la parola – spettacolo – con cui tutti parlano dell’imminente rappresentazione anche in seguito (tranne quando Tonio la chiama, con altro termine neutro, «recita» in I 4). Soltanto nella scena finale, dopo che il pubblico sconcertato ha iniziato a dubitare della finzione e non parla più in termini teatrali ma generici («Seria è la cosa? […] Seria è la cosa e scura!»), Silvio, unico tra gli astanti a conoscere il reale stato d’animo degli attori, esclama «Oh la strana commedia!». Poi, come tutti sanno, proprio con la parola commedia, ultima ironia del beffardo Tonio, l’opera si chiude («La commedia è finita»). Insomma, una farsa spacciata per commedia si tramuta in tragedia: ma non tragedia teatrale, bensì fatto tragico della vita degli interpreti, a loro volta personaggi mascherati di quella tragedia metateatrale che sono effettivamente i Pagliacci. Il doppio travestimento annulla la finzione e vorrebbe riportare alla vita “vera”; proprio l’accentuazione di pluralità e conflitto di piani e registri rappresentativi, determinata dalle scelte registiche di Lavia, aumenta l’effetto di “finale inaspettato” della farsa, che ancora una volta riesce a sbalordire il pubblico del teatro, esattamente quanto il pubblico recitante che sta sul palcoscenico. Non c’è innocenza, non è possibile alcun tipo di amore nell’umanità dei Pagliacci; i bambini compaiono soltanto nel I atto; e allora tanto vale cercarli nell’asinella Adriana, che trascina il carretto su cui Nedda entra in scena: presenza beneducata, vanitosa, vezzeggiata da tutti. Anch’essa ha portato fortuna alle recite torinesi con una collaborazione impeccabile: pare che finora in teatro non abbia mai emesso neppure un raglio.