Opera di Roma: “Tristan und Isolde”

Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2016/2017
“TRISTAN UN ISOLDE”
Azione in tre atti libretto di Richard Wagner
Musica di Richard Wagner
Tristan  ANDREAS SCHAGER
Konig Marke JOHN RELYEA
Isolde  RACHEL NICHOLS
Kurwenald  BRETT POLEGATO
Melot ANDREW REES
Brangane MICHELLE BREEDT
Ein Junger Seemann RAINER TROST
Ein Hirt GREGORY BONFATTI
Ein Steuermann GIANFRANCO MONTRESOR
Orchestra  e Coro del Teatro dell’opera di Roma
Direttore Daniele Gatti
Maestro del Coro Roberto Gabbiani
Regia Pierre Audi
Scene  e Costumi
Drammaturgo Willelm Bruls
Luci Jean Kalman
Video Anna Bertsch
Nuovo allestimento in coproduzione con Théatre des Champs Elysées di Parigi e De Nationale Opera di Amsterdam
Roma, 27 novembre 2016
Serata inaugurale della nuova stagione del Teatro dell’Opera di Roma questo Tristan und Isolde di Wagner affidato alla collaudata ed esperta bacchetta del maestro Daniele Gatti. Molto bella l’idea di farlo entrare ad ogni atto silenziosamente allo spegnersi delle luci senza gli applausi di rito e l’attesa dell’attacco. Il pubblico è stato quasi colto di sorpresa e gradualmente immerso senza scossoni e in modo inconsapevole nel fluire della narrazione e nell’abbandono all’ascolto di una lettura raffinatissima, varia ed assai elegante. Il suono rotondo, morbido e ricco di sfumature trovato insieme ad un’orchestra concentrata ed in stato di grazia come poche volte è capitato di udire, ha illuminato lo svolgersi della vicenda fin dalle prime battute del preludio, offrendo una lettura attenta alla cura dei particolari senza compromettere la visione di insieme che è riuscita nell’arduo compito di imprimere un ritmo narrativo lento ma ben palpabile ad un impianto drammaturgico prossimo all’immobilità. Priva di rigidità e trionfalismi teutonici ma, è bene precisarlo, tutt’altro che esangue la lettura offerta dal maestro Gatti si è infatti rivelata densa, ricca di colori e di emozioni espresse attraverso sonorità e fraseggio che hanno saputo perfettamente amalgamare il gusto tipicamente  italiano della melodia alla ricchezza della scrittura e nella quale la linea della frase cessa di essere semplicemente tale per divenire una forma complessa che si assottiglia fino alla rarefazione o si ispessisce nei vari momenti mantenendo sempre la sua profondità. Di assoluta bellezza il suono potremmo dire lunare dell’inizio del secondo atto o la desolazione dell’inizio del terzo e le varie sospensioni alternate sapientemente a momenti in cui la scrittura richiedeva sonorità più piene e turgide, quasi fossero il naturale alternarsi delle fasi di un respiro vitale che si arresta sull’accordo finale. Buona la prova del coro. Complessivamente di buon livello il cast vocale anche se forse una lettura orchestrale di questo genere si sarebbe ancor più giovata dalla presenza di un’Isotta dall’emissione italiana. Rachel Nicholls nei panni del personaggio tuttavia nonostante una voce dal timbro asciutto e a tratti prossimo alla fissità ha mostrato una eccellente tenuta vocale  ed una omogeneità di suono unite ad una varietà di accenti tali da emergere soprattutto nella trasfigurazione del finale di emozionante efficacia grazie anche alla sintonia con il magnifico sostegno offerto dell’orchestra. Tristano era impersonato dal tenore Andreas Schager. La voce ampia e dal volume ragguardevole usata con molta generosità, unita ad una figura prestante hanno consentito di tratteggiare un personaggio complesso,  intenso e ricco di sfumature anche se con la appena percettibile sensazione di qualche segno di fatica nel lungo monologo del terzo atto dove si è avvertito qualche lieve indurimento tale però da non compromettere il valore di un’interpretazione nel complesso buona. Cantata con bella voce e buone intenzioni interpretative la Brangania di Michelle Breedt crudelmente e inutilmente imbruttita dal costume di scena. Corretto vocalmente e molto bello scenicamente il Kurwenald di Brett Polegato sia pure con qualche episodica difficoltà nel seguire i crescendo e i diminuendo dell’orchestra. Infine davvero magnifico il re Marke di John Relyea voce morbida vellutata ed ampia che è apparsa davvero in sintonia con i colori e l’idea del suono cercate dal direttore. Elegantissimo nel portamento nobile e quasi ieratico ha saputo rendere magistralmente il lungo e dolente monologo del secondo atto. Tutti molto bravi ed efficaci gli interpreti delle parti minori rispettivamente Melot Andrew Rees, Un giovane marinaio Rainer Trost, Un pastore Gregory Bonfatti e Un pilota il sempre inappuntabile Gianfranco Montresor. La regia di questa serata inaugurale è stata affidata a Pierre Audi che l’aveva pensata e già proposta al Thèatre des Champs-Elysées di Parigi in una dimensione più intima e raccolta che forse non si adatta perfettamente ad un palcoscenico più grande. La vicenda viene ambientata un uno spazio senza tempo non tenendo conto delle dettagliatissime indicazioni del libretto dell’autore e così pure le scene consentono con molta fatica e probabilmente solo perché lo si sa, di identificare le varie ambientazioni con la ricca carica di simboli e implicazioni che dovrebbero esprimere. Molto arduo capire che ci si trovi su una nave nel gioco di pannelli girevoli del primo atto e impossibile cogliere la dimensione della notte nel secondo atto dominato da luci anche belle ma perennemente accese e fisse e da una gigantesca amigdala nera che sembrerebbe aver fatto esplodere la nave del primo atto il cui fasciame sparso costituirebbe una sorta di foresta, in realtà più simile alla carcassa di una balena arenata su una spiaggia del mare del nord. Anche il senso dell’amigdala nera che in un primo momento poteva sembrare un rimando ad un mondo primitivo o un richiamo neuroanatomico teso a enfatizzare la forza destruente delle passioni non sembra così immediato e solo dalla intervista al regista letta successivamente si apprende essere l’immagine del filtro della morte e della morte stessa. Il filtro liquido del primo atto è stato infatti sostituito con delle pietre e questa ne è probabilmente l’immagine nell’atto successivo. Così pure la morte campeggia in primo piano nel terzo atto con la presenza di una sorta di sepoltura stile pellerossa di Tex Willer. Molto bella al contrario la soluzione trovata per il finale dove il soprano canta la celeberrima scena avvolta nel nero in contrasto con uno sfondo di un immateriale bianco quasi abbagliante che produce veramente la sensazione della trasfigurazione descritta dalla musica. Francamente brutti i costumi noiosamente ripetitivi nel riproporre gli abusati cappottini, le giacche a vento ed il consueto armamentario buono per tutte le opere e tutte le stagioni senza oltretutto tenere gran conto dell’aspetto e della costituzione soprattutto delle signore con l’eccezione, va detto per correttezza, per il bel vestito di re Marke nel secondo atto. Incomprensibile infine il senso del taglio di capelli di Kurwenald nel terzo atto che dopo aver esibito una chioma fluente si presenta al pubblico fresco di barbiere. Benevola ironia a parte, ma l’opera vive anche un po’ di questo, merito di questa regia incentrata sull’aspetto intimo e sul senso di morte che pervade la vicenda sia pure con i limiti di gusto delle sembra ormai irrinunciabili mode del tempo, è senza alcun dubbio quello di riuscire a non ostacolare la percezione del fluire lento ma costante della vicenda riuscendo anzi ad entrare nel tempo della musica senza imbrigliarlo o forzarlo in alcun modo. E questo al di là dei gusti e delle aspettative personali crediamo che sia un notevole risultato considerando anche la oggettiva difficoltà di realizzazione e la assoluta peculiarità dei ritmi e dei tempi di questo genere di drammaturgia. Ottimo il ricchissimo programma di sala per il valore dei saggi critici proposti e per l’abbondante iconografia. Alla fine lunghi e calorosi applausi per tutti quasi liberatori al termine di una lunga e coinvolgente esecuzione di indiscutibile fascino musicale che come nelle intenzioni dell’autore crediamo abbia saputo raggiungere i recessi più profondi della sensibilità degli spettatori. Foto Yasuko Kageyama