Sassari, Teatro Comunale – Stagione Lirica 2016
“ANDREA CHÉNIER”
Dramma di ambiente storico in quattro quadri su libretto di Luigi Illica
Musica di Umberto Giordano
Andrea Chénier GIANCARL0 MONSALVE
Maddalena VIRGINIA TOLA
Carlo Gérard VITTORIO VITELLI
Bersi OLESYA BERMAN
Contessa di Coigny/Madelon INES ZIKOU
Roucher GIANLUCA LENTINI
L’abate poeta/Un Incredibile MANUEL PIERATTELLI
Pietro Fléville MASSIMILIANO GUERRIERI
Fouquier-Tinville/Schmidt ENRICO MARCHESINI
Mathieu FEDERICO CAVERZAN
Il maestro di casa/Dumas NICOLA FENU
Orchestra e Coro dell’Ente Concerti Marialisa de Carolis
Direttore Marcello Mottadelli
Maestro del coro Antonio Costa
Regia Marco Spada
Scene Marco Spada e Fulvia Donatone
Costumi Alessandro Ciammarughi
Disegno luci Fabio Rossi
Coreografie Barbara Stimoli
Nuovo allestimento Ente Concerti “Marialisa de Carolis”
Sassari, 9 dicembre 2016
Chiude a Sassari la stagione lirica 2016 organizzata dall’Ente Concerti De Carolis, anche se, ufficialmente, c’è ancora un recital che sostituirà il previsto concerto sinfonico – corale atteso dagli abbonati. Chiude poco brillantemente, con una produzione modesta che segna una stagione senza grandi idee ma, nel complesso, fin qui dignitosa. Che si può dire di Andrea Chénier che non sia stato detto e ridetto? L’opera è quella che è, prendere o lasciare: bellissimi spunti melodici e sgangherate costruzioni delle scene, avanzate modulazioni armoniche e chiassosi effetti strumentali, drammaturgici lampi di genio e situazioni nei tempi e nei modi assolutamente inverosimili. Si ama o si odia e basta, con poche sfumature, senza chiedersi troppi percome che metterebbero facilmente in dubbio le nostre certezze. Appartiene a quella serie di “capolavori unici” che hanno ricoperto di gloria duratura alcuni autori del verismo musicale italiano, grazie a un’opera azzeccata, ma che hanno spinto nell’oblio tutto l’altro repertorio del proprio creatore. Possiamo dire che Umberto Giordano non sapesse orchestrare? O che la sua imitazione in salsa italica, con tanto di leitmotiv e accordi vaganti, del wagnerismo della Giovane Scuola fosse un po’ grossolana? Ma nel momento in cui si decide di mettere in scena un’opera del genere ci si deve caricare di oneri e onori e bisogna fare i conti con le problematiche di uno spettacolo oggi così difficile. A partire col trovare i protagonisti che, nell’occasione, erano debuttanti nel ruolo e, nel complesso, purtroppo inadeguati; pur con delle evidenti differenze. Dalla fila davanti alla mia: “Ma non potrebbero alzare il volume dei cantanti?” E no signora, purtroppo non è possibile. Colpa di una concertazione frettolosa, di dinamiche orchestrali fuori controllo, di doti vocali inadatte per l’occasione, dell’acustica? Un po’ tutto sicuramente, ma nel momento in cui per volume e qualità vocale è davvero difficile distinguere gli onesti comprimari da alcuni protagonisti, in un titolo tra l’altro che sulla belluria vocale si gioca tutto, è evidente che qualcosa non va. Intendiamoci, con un’importante eccezione si trattava globalmente di buoni e anche ottimi professionisti, ma senza voci con grandi registri centrali e gravi è impossibile affrontare un’opera con un’orchestrazione talmente turgida, ricca di controcanti strumentali e di sovrapposizioni anche quando i solisti non svettano sopra il pentagramma o sono in vocalità “parlante”.
Ovviamente il primo responsabile non può essere che il direttore: Marcello Mottadelli ha diretto con gesto fluido e anche sufficientemente preciso, ma la concertazione di un’opera del genere è molto delicata ed è evidente che, in mancanza delle voci adatte, toccasse a lui metterci una pezza. Coadiuvato anche da una buona orchestra l’inizio è stato incoraggiante: preciso l’insidioso incipit degli archi, leggeri e trasparenti i colori del primo quadro, compatte ma senza esagerazioni le dinamiche più robuste. Col procedere dell’opera la temperatura si è alzata e l’orchestra ha finito, specialmente nel terzo quadro, col soverchiare spesso il palcoscenico, in alcuni casi coprendo completamente le entrate dei solisti e anche del coro. Comprensibile il gusto per certe sonorità degli ottoni, che fanno il loro effetto in alcuni momenti topici, ma se non si hanno a disposizione le voci adatte è meglio dimezzare le dinamiche e fare sentire tutto a chi cerca di ascoltare. È stata innegabile comunque la musicalità nel portare le frasi, una certa espressiva elasticità agogica, almeno in certe scene, e una discreta connessione ritmica, finalmente, tra buca e palcoscenico.
La parte del titolo richiederebbe un “heldentenor” e, non a caso, il primo interprete del ruolo nel 1896 fu Giuseppe Borgatti, spesso protagonista in ruoli wagneriani e fondamentale nel trionfo dello storico esordio. Giancarlo Monsalve chiaramente non lo è ma, soprattutto, ha palesato dei limiti tecnici e vocali che ne hanno inficiati notevolmente anche le intenzioni e lo slancio interpretativo. Il problema principale consisteva in un’evidentissima disuguaglianza dei registri, non solo nelle estensioni di tradizione, ma anche in alcune note e persino nelle varie vocali. Il registro grave era apertissimo, i centri si chiudevano in maniera sorda, alcuni suoni nella zona del passaggio tendevano a ingolarsi e gli acuti a loro volta si differenziavano in maniera evidente: qualcuno passava con buon volume e anche una bella timbrica squillante, altri erano piatti e chiusi e altri ancora oscillavano in modo preoccupante. Se qualche efficacia l’abbiamo sentita nelle frasi concitate e nei dialoghi, ovviamente impossibile avere un minimo di omogeneità e di arco espressivo nel celebre Improvviso e in tutti i brani che per quest’opera valgono il prezzo del biglietto: una prestazione sicuramente opaca. Auguriamoci che sia stata solo una serata no.
Di buon livello professionale invece la Maddalena di Virginia Tola, facilmente svettante negli acuti, espressiva e intensa in quasi tutti i momenti topici e dotata di una vocalità bella e omogenea ma, purtroppo, priva di un grande registro centrale. Senza la pesantezza dell’accompagnamento orchestrale di altre parti dell’opera, è stata da incorniciare, per tecnica e vocalità espressiva, la grande aria del terzo quadro ed è stata sicuramente merito suo la complessiva riuscita del finale: senz’altro l’interprete più in ruolo tra i protagonisti. Anche Vittorio Vitelli nel ruolo “monstre” di Gérard dimostra tutto il suo valore di cantante completo, tecnicamente solido e vocalmente dotato ma, semplicemente, non è del tutto adatto alla parte: è stato subito evidente sin dall’invettiva del primo quadro. Occorre qui aprire una piccola finestra. Il personaggio di Gérard è chiaramente un’anticipazione di quello ben più noto di Scarpia che avrebbe debuttato in Tosca quattro anni dopo, guarda un po’, con lo stesso librettista. Stesse atmosfere, situazioni simili, lo Chénier si configura facilmente come una sorta di “prequel” storico del capolavoro pucciniano. Anche musicalmente i punti in comune non sono pochi da vari punti di vista, ma Puccini, ben altro musicista ma per certi aspetti meno audace, è un orchestratore assai più abile nel dosare i punti d’intensità orchestrale. Gérard è uno Scarpia senza il suo fascino crudele ma è anche un personaggio assai più sfaccettato e complesso nelle sue debolezze: è evidentissimo che debba averne comunque la stessa protervia e dimensione vocale. Carattere che ne fa il vero protagonista dell’opera ma che pretende un colore drammatico, un registro centrale assai importante e anche dei gravi sonori: tutte cose che Vitelli ha mostrato solo parzialmente. Comunque sia, abbiamo sentito un ottimo cantante e ne erano apprezzabili anche la spigliatezza e la varietà nella gestualità scenica; ma anche l’interprete avrebbe bisogno di qualche approfondimento. Prendiamo per esempio la celeberrima Nemico della Patria: pur senza ovviamente dover prendere alla lettera il datatissimo esempio, è interessante andare a sentire lo storico creatore del ruolo, Mario Sammarco (non a caso grande Scarpia e Rigoletto del passato), che incise la stessa scena pochi anni dopo la prima. La lentissima introduzione, la scolpitura delle parole, le ampie variazioni agogiche basate sul testo, la flessibilità del cantabile dicono chiaramente com’è stata in confronto gelida e metronomica, anche per colpa del direttore, l’interpretazione oggi non ancora matura di Vitelli.
Olesya Berman presta la sua bella figura e un colore chiaro e gradevole al personaggio di Bersi: ma il suo delicato peso vocale, che abbiamo valutato positivamente in occasione di The Noyes Flood di Britten nell’equilibrio con le voci bianche, in questa occasione è stato chiaramente limitante. Positive comunque la sua buona musicalità e l’impeccabile precisione esecutiva. Ottimo per colore e presenza vocale Gianluca Lentini nel ruolo di Roucher, mentre Ines Zikou, pur dotata di una vocalità interessante, è afflitta da un vibrato veramente eccessivo nel doppio ruolo di Contessa di Coigny e Madelon. Affidabile come sempre Manuel Pierattelli e anche Massimiliano Guerrieri, Enrico Marchesini, Federico Caverzan, Nicola Fenu danno vita ai loro personaggi, seppur secondari, in maniera professionale e convincente.
È stata discreta nel complesso la prestazione del Coro dell’Ente Concerti, preparato da Antonio Costa, che esce quasi indenne dagli ingrati attacchi nelle scene collettive ma tende talvolta a scomporsi nella fusione e nell’emissione con le sonorità più robuste.
Il nuovo allestimento scenico di Marco Spada parte apparentemente da un’idea in se interessante: rappresentare una delle opere veriste per eccellenza in maniera rarefatta e simbolica, senza cadere nei tipici eccessi che la vicenda potrebbe ispirare. Il problema però è sempre il solito: un’idea controcorrente o si porta avanti con coerenza e chiarezza o è meglio ricorrere ai fondali rococò dipinti. Lo spazio del palcoscenico è stato utilizzato come fondo neutro con alcune studiate chiazze di colore (il divano azzurro, i coloratissimi costumi, la grande bandiera tricolore ecc.) e l’utilizzo di alcuni semplici praticabili. Completavano la scenografia, dello stesso Spada e Fulvia Donatone, degli elementi indicativi incombenti piuttosto didascalici, come un grande coltello insanguinato e una stilizzata lama di ghigliottina variamente componibile. Il risultato complessivo è stato sciatto per due ragioni fondamentali. Innanzi tutto il contrasto neutro – chiazza di colore (effetto anche un po’ abusato…) richiede, per essere efficace, rigore e un fondo veramente neutro e, per esempio, il tavolato del palcoscenico non lo è: sarebbe stato necessario almeno un rivestimento coerente per evitare un effetto amatoriale sicuramente sgradevole. In seconda battuta, nell’assenza di veri e propri riferimenti figurativi, si sentiva la mancanza di prospettive chiare e di spazi con volumi ben definiti; anche perché la recitazione e i movimenti sono stati spesso poco coordinati tra loro e con la logica dell’allestimento, costringendo i personaggi in un confuso limbo rappresentativo tra scenografia indicativa e regia “spontanea” di stampo realistico. In parole povere, specialmente nelle scene complesse come quella del processo, si capiva ben poco, mancando un’idea registica precisa di collocazione dei luoghi deputati, dei centri d’attenzione, delle prospettive collettive ecc. Dal punto di vista visivo l’insieme era riscattato dai bellissimi costumi di Alessandro Ciammarughi, evidenziati in maniera eccellente dal disegno luci di Fabio Rossi. Ciammarughi reinventa un ‘700 decadente e grottesco, dove alcuni elementi tradizionali vengono deformati e corrotti da interventi fantasiosi e vagamente post – moderni, con un effetto complessivo storicizzato ma di grande attualità. Il problema è che nell’assenza di una forte idea globale il tutto ha finito per assumere l’aspetto di un bizzarro defilé estetizzante che, se può avere un senso nel tono sarcastico del primo quadro, appariva un lezioso elemento decorativo fine a se stesso nel procedere dell’opera, senza logica nella tensione drammaturgica e di ambientazione popolare dei quadri successivi. È stata gradevole comunque la scena arcadica realizzata con le coreografie di Barbara Stimoli nel primo quadro, complessivamente il più coerente e riuscito scenicamente tra i quattro. Stremato dal caldo eccessivo della sala, esasperato dalle pause veramente eccessive (la prima, dopo mezz’ora di musica, è durata ben trentacinque minuti e ha fatto rumoreggiare diversi spettatori) il pubblico ha applaudito con convinzione solo il soprano e il baritono, con qualche timido dissenso per tenore e direttore.