Venezia, Teatro Malibran, Stagione Sinfonica 2016-2017
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Jader Bignamini
Giovanni Salviucci: Introduzione, Passacaglia e Finale
Gian Francesco Malipiero: Pause del silenzio I
Antonín Dvořák: Sinfonia n. 9 in mi minore op. 95 “Dal nuovo mondo”
Venezia, 18 novembre 2016
Si è svolto, al Teatro Malibran, il secondo concerto della Stagione Sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice, che – secondo un’impostazione ormai tradizionale per questa istituzione musicale – si caratterizza, tra gli altri aspetti, per la proposta dell’esecuzione integrale delle sinfonie di un grande autore (nella presente rassegna sarà la volta di Robert Schumann), oltre che per l’attenzione particolare rivolta al primo Novecento italiano. E proprio con due compositori di tale periodo si apriva il programma della serata: il rimo pezzo, Introduzione, Passacaglia e Finale, è, infatti, firmato dal romano Giovanni Salviucci – un artista ancora poco conosciuto, scomparso a neanche trent’anni, nel 1937, di cui si era ascoltata nel concerto inaugurale la Serenata per nove strumenti –; il secondo dal veneziano Gian Francesco Malipiero – un musicista di fondamentale rilievo nel panorama musicale del primo dopoguerra, che fu maestro di Bruno Maderna e Luigi Nono –, anch’egli meritevole di maggiore attenzione a partire dalla sua città natale. Nella seconda parte della serata, era prevista l’esecuzione di una delle partiture più osannate, tra il repertorio di fine Ottocento: La Sinfonia “americana” di Dvořák. Sul podio dell’orchestra del Teatro La Fenice, un giovane quanto promettente direttore, Jader Bignamini, che ha convinto per la sensibilità interpretativa, l’attenzione alle sfumature, la cura del suono.
Questo si è percepito con evidenza in Introduzione, Passacaglia e Finale di Salviucci, composta nel 1934 e data in prima esecuzione a Roma, l’anno successivo, con la direzione di Mario Rossi: un’opera paradigmatica del mondo musicale di un autore, che si tenne sempre a debita istanza dalle tendenze, dalle sperimentazioni imperanti all’epoca sua. Eppure – nonostante la sua breve esperienza umana ed artistica, e il suo procedere isolato – il compositore romano si impone come personalità di spicco nell’Italia di quegli anni, dotato, com’era, di un forte istinto musicale e di un talento eccezionale, oltre che di un rigore artistico, che lo mantenne sempre fedele a se stesso e al suo magistero musicale, fondato sull’arte del contrappunto intesa non come sfoggio di padronanza tecnica, ma come mezzo imprescindibile per dare forma all’espressione. Molto espressivo il gesto di Bignamini – cui ha pienamente corrisposto un’orchestra coesa, precisa, sensibile –, a rendere tutto il fascino di questa composizione fatta di alterne atmosfere, di momenti di più o meno accesa emotività, più che di temi evidenti, e caratterizzata – come abbiamo accennato – da un’espressività che si coniuga al contrappunto: ad esempio, il tema esposto all’inizio sembra né più né meno che uno schema armonico, ma quando, dopo il denso trattamento polifonico di tre sue variazioni, riemerge accompagnato da semplici accordi, assume un carattere melodico e una straordinaria carica espressiva.
Una personalità indipendente fu anche quella di Gian Francesco Malipiero, che rigettò, pur con la pacatezza che lo contraddistinse, i drastici programmi della avanguardie storiche, in nome di un’espressione volutamente libera da ogni schema preconcetto. Per quanto concerne le “metafisiche” Pause del silenzio. Sette espressioni sinfoniche, esse nacquero nel 1917, nel periodo più tragico della guerra, eppure sono aliene da ogni intenzione descrittiva o emotiva, per presentarsi come composizioni puramente musicali, prive di un programma prestabilito, e dunque lasciate alla libera interpretazione dell’ascoltatore. Fedele al suo radicato rifiuto dell’elaborazione tematica come principio della costruzione musicale, Malipiero ci offre sette quadri, dai diversi colori e caratteri, ognuno introdotto puntualmente da una perentoria fanfara. Anche qui si è apprezzata la finezza interpretativa del giovane direttore, che ha saputo distillare dalla compagine orchestrale un suono nitido e rotondo, nei momenti d’insieme come nei frequenti interventi solistici o in quelli in cui emergeva, in particolare, una determinata sezione dell’orchestra.
L’’ultimo titolo in programma – la Sinfonia in mi minore Dal nuovo mondo, presentata il 16 dicembre del 1893 alla Carnegie Hall di New York e salutata fin da allora da un grande successo – è legato alla fondamentale esperienza che Antonín Dvořák – nominato direttore del National Conservatory di New York – maturò durante il suo soggiorno americano, dedicandosi, tra l’altro, allo studio delle tradizioni musicali dei pellerossa, oltre che dei canti della comunità nera, per quanto nella partitura non vi sia praticamente traccia di musica autenticamente americana, mentre vi ricorrono temi originali del compositore boemo, in cui si colgono certe caratteristiche del folklore americano, come le melodie pentatoniche degli indiani. Ne scaturisce un’opera – dove l’elemento ceco e quello indiano si fondono insieme, pur senza snaturare il tipico suono di Dvořák –, che colpisce per il carattere epico di certi temi, come per il soffuso, estatico lirismo di altre pagine, oltre che per la forma ciclica, data da un tema di matrice accordale che si presenta subito dopo il breve misterioso Adagio introduttivo, per poi tornare più volte nel corso della sinfonia. Particolarmente suggestiva e raffinata l’interpretazione di Jader Bignamini, che – a nostro avviso – si fondava di un’idea-base: quella di non enfatizzare – con facile effetto – la valenza epico-eroica di certi famosissimi temi – come il primo tema dell’Allegro iniziale e quello che apre solennemente l’ultimo movimento –, per cercare di evidenziare invece, nella partitura, i pregi di un’orchestrazione, che appare, in certe pagine, particolarmente nitida e trasparente, e risulta, in generale, meno densa di quella che abitualmente caratterizza altre opere del compositore boemo. Particolarmente espressivo e attento alle più tenui sfumature timbriche e dinamiche si è rivelato il direttore nelle pagine in cui domina una sublime cantabilità, sempre assecondato da strumentisti in grado di sostenere brillantemente le parti solistiche, come il celebre solo del corno inglese, in forma strofica, che si ascolta nel Largo, carico di malinconico languore su un morbido accompagnamento degli archi. Un vera apoteosi sonora è stato il finale, Allegro con fuoco, – sapientemente diretto e concertato nella sua complessità anche contrappuntistica –, dove sono riapparsi i diversi materiali tematici dell’intero lavoro. Caloroso successo.