Venezia,Teatro Malibran, Stagione sinfonica 2016-2017
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Henrik Nánási
Goffredo Petrassi: Partita per orchestra
Zoltán Kodály: Galántai táckok (Danze di Galánta)
Antonín Dvořák: Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88
Venezia, 24 novembre 2016
Prosegue con successo la stagione sinfonica della Fondazione Teatro La Fenice di Venezia, che vede tra i suoi “motivi conduttori” – oltre all’esecuzione dell’intera produzione sinfonica di Schumann – l’attenzione particolare rivolta al primo Novecento italiano, rappresentato, nel concerto di cui ci occupiamo, dal primo brano in programma: la Partita per orchestra di Goffredo Petrassi (1932), che valse all’autore il primo premio al concorso di composizione bandito dal Sindacato nazionale fascista dei musicisti, dandogli ben presto fama internazionale. Seguivano altre due composizioni, accomunate dal fatto che entrambe coniugano una spiccata componente folclorica ad un alto magistero compositivo: Galántai táckok (Danze di Galánta) dell’ungherese Zoltán Kodály e la Sinfonia n. 8 in sol maggiore op. 88 del boemo Antonín Dvořák. Sul podio dell’orchestra del Teatro La Fenice, un conterraneo di Kodály: il maestro Henrik Nánási. Fin dall’esecuzione del primo pezzo, sono emersi la grande energia, lo spiccato senso del ritmo, il gesto essenziale ma efficacissimo del maestro ungherese, che – supportato da un’orchestra in gran forma – ha saputo calarsi nello spirito di questa brillante partitura, frutto di una precoce personalità, che si rifà, inserendola nel presente, all’antica musica strumentale italiana, nel segno di un neoclassicismo mutuato da Casella e Stravinskij, e nella quale le antiche danze barocche rivelano, a livello espressivo, una sensibilità armonica e timbrica, un’oggettività, che le avvicina a un certo linguaggio del primo novecento.
Composte nel 1933 per l’ottantesimo anniversario della Società Filarmonica di Budapest, e dirette in prima esecuzione nella capitale ungherese il 23 ottobre 1933 da Ernö Dohnányi, le Danze di Galánta rievocano una serie di esperienze infantili vissute da Kodály a Galánta, un villaggio dell’Impero austro-ungarico, popolato in maggioranza da ungheresi, insieme ad austriaci, slovacchi e tzigani, dove egli abitò dai tre ai dieci anni d’età, venendo per la prima volta a contatto con il verbunkos, la tipica danza popolare, dove la tradizione magiara si mescola a quella viennese, balcanica, turca e soprattutto tzigana. Queste danze attingono a musiche tzigane, in stile verbunkos, stampate a Vienna intorno al 1800, alcune delle quali attribuite a tzigani di Galánta: una produzione considerata nell’Ottocento come “ungherese” tout court – secondo una concezione messa, peraltro, in discussione proprio da Kodály e Bartók, in veste di etnomusicologi –, “nobilitata” dalle celebri rivisitazioni di Liszt e Brahms. Kodály rielabora alcune pagine di questa musica tzigana – con le sue tipiche alternanze di ritmi lenti e veloci nettamente contrastanti – rivestendole di un’orchestrazione brillante e colorata, e mettendone in evidenza tutta la vitalità. Analogamente autorevole e vitale è apparso Nánási nell’esecuzione di questo pezzo – tra le pagine più brillanti e fortunate di Kodály –, dove il direttore ungherese ha sfoggiato tutta la musicalità legata alla sua terra, assieme ad uno spiccato gusto dei contrasti, che – come abbiamo accennato – contraddistinguono le danze tzigano-ungheresi, attraverso un gesto veramente icastico, che ricordava talora le movenze di uno schermidore.
Intrisa di musica popolare, ma anche frutto – come si è detto – di straordinaria perizia compositiva, era anche l’ultima composizione in programma. Scritta nel 1889, durante un soggiorno a Vysoká u Příbrami (in Boemia), ed eseguita in prima assoluta, con la direzione dello stesso compositore, al Teatro Nazionale di Praga il 2 febbraio 1890, l’Ottava Sinfonia conobbe un enorme successo a Londra – dove negli anni precedenti Dvořák aveva riscosso i suoi primi trionfi personali – superando quello riportato dalla stessa Nona Sinfonia “dal Nuovo Mondo”. Anche nell’interpretazione di questa partitura il maestro ungherese ha confermato la sua grande sensibilità per i ritmi, i colori, le melodie, i contrasti, che caratterizzano la musica popolare dell’Europa dell’Est. Particolarmente suggestiva è risultata l’ampia melodia, segnata da un pathos acceso, che costituisce il primo tema dell’Allegro con brio, intonata da clarinetti, fagotti, corni e violoncelli, la cui struttura irregolare contribuisce al suo sapore esotico; così come quella sorta di romanza senza parole, capace di commuovere con semplicità, che domina nell’Adagio, interrotta, per breve tratto, dalla serena allegria di una festa rurale; o quel valzer abbastanza frenetico, con qualche tratto umoristico, che apre e chiude l’Allegretto grazioso; o, ancora, l’iniziale tema di danza, nell’Allegro ma non troppo, avviato dal violoncello, contrappuntato dal fagotto, e poi elaborato in allegre variazioni, che fa seguito alla perentoria fanfara delle trombe. Irresistibile la frenetica festa che chiude la sinfonia. Successo pieno e caloroso