Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto, Stagione 2016-2017 – 50° anniversario dell’alluvione del 4 novembre 1966
“AQUAGRANDA”
Dramma per musica in un atto. Libretto di Roberto Bianchin e Luigi Cerantola, dal libro “Acqua Granda. Il romanzo dell’alluvione” di Roberto Bianchin.
Musica di Filippo Perocco
Fortunato ANDREA MASTRONI
Ernesto MIRKO GUADAGNINI
Lilli GIULIA BOLCATO
Leda SILVIA REGAZZO
Nane VINCENZO NIZZARDO
Luciano WILLIAM CORRÒ
Cester MARCELLO NARDIS
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Marco Angius
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Light designer Alessandro Carletti
Regia del suono e live electronics Davide Tiso
Video designer Carmen Zimmermann, Roland Horvath
Movimenti coreografici Chiara Vecchi
Nuova commissione Fondazione Teatro La Fenice
Venezia, 5 novembre 2016
Venezia città d’acque. Venezia “Sposa del Mare”. Sull’acqua è la sua vita. Sull’acqua si specchia la sua bellezza. Nondimeno questo elemento naturale può trasformasi in un nemico minaccioso e violento: ben lo sapevano i nostri antenati veneziani, che tanta cura profusero nel migliorare e salvaguardare, con opere imponenti, l’equilibrio idrogeologico della laguna. Il 4 novembre del 1966 questo equilibrio, durato per secoli, si ruppe, e la città e le sue isole sfiorarono la catastrofe. Chi scrive ha vissuto quei giorni tristi e paurosi, ma i più giovani forse non hanno un’adeguata cognizione di quanto accadde. È dunque più che meritoria l’iniziativa della Fenice, che ha intenso rievocare quei tragico evento, aprendo la nuova Stagione lirica – nel cinquantesimo anniversario dell’alluvione – con un’opera commissionata a questo scopo. Si conferma pienamente la funzione civica, che il Teatro ha avuto nella storia di Venezia, non solo in qualità di produttore e inventore di opere e musiche, tra i più importanti a livello mondiale, ma anche come istituzione radicata nel territorio, capace di dare impulso all’impegno etico e sociale. È bello che Venezia, città anche di teatri, dei primi teatri aperti alla società, si stringa idealmente intorno alla sua Fenice, intesa non come luogo dell’effimero, ma come punto di riferimento privilegiato, in cui l’arte e la musica diventano custodi e suscitatrici della memoria collettiva, nonché rispecchiamento fedele della società. Così, nel teatro in cui gli spettatori videro rappresentare se stessi, assistendo per la prima volta alle vicende della Traviata, adesso i veneziani e, in particolare, i cittadini di Pellestrina, l’isola colpita per prima dall’alluvione – e in cui è ambientata Aquagranda – hanno potuto vedersi rispecchiati nei personaggi dell’opera: in particolare Ernesto Ballarin, figlio di una famiglia di pescatori, che visse in prima persona, da ragazzo, la tragedia ed è anche uno dei personaggi sulla scena. Nella genesi di quest’opera è stata di grande rilievo la collaborazione fin dall’inizio, come raramente accade, tra il compositore Filippo Perocco e il regista Damiano Michieletto, nonché di entrambi con gli autori del libretto: Roberto Bianchin – che lo ha tratto dal suo libro, pubblicato nel 1996, Acqua Granda. Il romanzo dell’alluvione – e Luigi Cerantola, cui è dovuta la stesura del testo in versi. A differenza del libro, l’opera è ambientata in un unico luogo, l’isola – come abbiamo detto – di Pellestrina, per prima esposta alle conseguenze della rottura dei murazzi e dell’irrompere del mare in laguna. La vicenda è narrata in modo lineare. Tra i pescatori di Pellestrina, Fortunato intuisce che la crescita dell’acqua non si fermerà, ma nessuno gli crede. Con il passare delle ore la situazione peggiora, fino a precipitare quando cedono i murazzi (all’inizio della settima scena), dopodiché a Pellestrina, che nel frattempo viene evacuata, restano solo Fortunato, il figlio Ernesto, il farmacista Luciano e il maresciallo dei carabinieri Cester, che tenta di segnalare la catastrofe con una bandiera bianca. Poi, d’un tratto il vento e l’acqua si fermano …
Davvero azzeccata la messinscena di Damiano Michieletto, ormai star affermata nel panorama della regia operistica, che fa giustamente dell’acqua uno dei protagonisti dello spettacolo. La prima idea – confessa il sempre vulcanico e ardito Michieletto – era quella di svuotare la platea per inondarla d’acqua, ma tale idea si è rivelata impraticabile. In alternativa campeggia sul palcoscenico un grande contenitore trasparente, che lentamente si riempie d’acqua, segnalando il progressivo crescere del livello del mare, e sulla cui superficie si proiettano, a tratti, filmati relativi al disastro, d’archivio o amatoriali. Poi – in corrispondenza del cedimento dei murazzi – il contenitore viene sollevato e l’acqua fuoriesce scrosciante invadendo il palcoscenico e bagnando anche i performer, che indosseranno gli immancabili stivali. Attorno a questa installazione metaforica – ma di suggestivo, evidente significato – agiscono i personaggi, dai costumi attuali piuttosto colorati, e i mimi più succintamente vestiti, dagli essenziali movimenti coreografici. Scarni gli arredi: un tavolo e alcune sedie. Efficace e suggestivo l’uso delle luci nelle varie situazioni emotive ed atmosferiche. Quanto alla musica, il compositore Filippo Perocco si è confrontato con una sfida nuova pur senza rinnegare il suo passato e la sua poetica, basata fondamentalmente sulla ricerca timbrica, sulla concretezza del rapporto con il suono, simile al contatto diretto che può avere un pittore o uno scultore con i materiali che adopera. L’autore si approccia al suono in modo intuitivo, istintivo, teso alla creazione di un mondo sonoro ruvido, inquieto, instabile, carico di interna tensione, e anche “sporco”, popolato – secondo le parole dello stesso compositore – di detriti, macerie, materiali sottoposti a un processo di erosione: tutti oggetti capaci di stimolare la fantasia e dar vita al suo mondo sonoro, frutto di un linguaggio spoglio, essenziale, prosciugato, ma non privo di contrasti. In vista della composizione di Aquagranda, Perocco si è interessato alla realtà dei pescatori e ai canti lagunari: nella partitura non mancano citazioni dirette di un canto dei battipali e di una nenia, come sono presenti il vento e l’acqua, pur senza il ricorso al facile effetto di stampo naturalistico. Le forze della natura semmai offrono stimoli a una scrittura evocativa, fatta di fruscii, ruvidezze, distorsioni del suono, scarti di intonazione con effetti microtonali, combinazioni timbriche originali, a caratterizzare un ambiente sonoro inquieto, precario, a volte “liquido”, prevedendo anche un pianoforte “preparato” e la presenza discreta dell’elettronica. Sul piano vocale, frequentemente le parole sono ripetute identiche o variate, sempre con effetti di intensificazione espressiva: il modello del madrigale presiede in un certo senso a tutta la concezione dell’opera. A questo proposito il coro, “voce della laguna”, che è diviso tra componenti maschili e femminili, disposte ai lati del proscenio, ha un ruolo di primo piano sempre con caratteri ben differenziati in rapporto al testo e alla situazione. Analogamente la vocalità solistica rivela grande attenzione al rapporto con la parola, mettendo a fuoco, scena per scena, situazioni diverse: dall’apatia alla paura, all’attesa, al sollievo. Grande la prestazione del coro, perfettamente preparato dal maestro Claudio Marino Moretti: dal Prologo – dove ha un esordio “brulicante” (in cui ogni voce intona liberamente frammenti di frasi) e poi intona un canto dei battipali –, alla scena sesta – in cui inizia con una minacciosa scansione omoritmica (“l’aqua alta, l’acqua granda”), per poi cantare una ninna nanna affidata alle voci femminili, a bocca chiusa –, al termine del Finale, dove ritorna la situazione “brulicante” dell’inizio, mentre la musica gradatamente si spegne. Pienamente nella parte di Fortunato – che richiede una voce di basso profondo – si è rivelato Andrea Mastroni, che ha tratteggiato la figura del vecchio pescatore con il giusto accento, come si è colto, ad esempio, nella prima scena, dove, nel tentativo di segnalare il pericolo, passa da una lamentosa ripetitività ad una più cantabile nenia, nel confronto con l’incredulo Nane, ben interpretato da Vincenzo Nizzardo. Analogamente efficace sul piano drammaturgico e musicale il teso confronto tra Fortunato e il figlio Ernesto – cui ha offerto voce e gesto, con sensibilità e carattere, Mirko Guadagnini –, in cui il giovane, che sta per emigrare in Germania, non si cura dei rimproveri del padre che lo incita a rimanere, né di quelli di Lilli, sua moglie – nel cui ruolo si è imposta per la vivace interpretazione Giulia Bolcato –, che non gradisce affatto la partenza del marito con un tempo così burrascoso. Analogamente convincente, sul piano vocale e interpretativo, Silvia Regazzo nel ruolo dell’emotiva Leda. Vocalmente ineccepibile e incisivo nella caratterizzazione del personaggio Marcello Nardis, che indossa la divisa del maresciallo Cester. Bravo anche William Corrò nei panni dell’ansioso farmacista Luciano. Determinante per la riuscita dello spettacolo la presenza sul podio di uno specialista, per quanto concerne il repertorio contemporaneo, Marco Angius, che scandaglia ogni parte della partitura, da cui trae in superficie il turgore sonoro come le più riposte sfumature, facendosi apprezzare, in particolare, nell’Intermezzo – unico episodio orchestrale della partitura –, che dopo il fragoroso inizio rivela caratteri diversi, lasciando, ad esempio, in evidenza una sorta di lamento dei due clarinetti: una pagina che presagisce quel botto violento che, all’inizio della scena settima, evoca la rottura dei murazzi. Grande successo ed applausi molto convinti e prolungati per tutti.