Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2016-17
“Samson et Dalila”
Opera in tre atti e quattro quadri di Ferdinad Lemaire
Musica di Camille Saint-Saëns
Dalila DANIELA BARCELLONA
Samson GREGORY KUNDE
Il sommo sacerdote di Dagon CARLO SGURA
Abimélech ANDREA COMELLI
Un vecchio ebreo SULKHAN JAIANI
Un messaggero filisteo ROBERTO GUENNO
Primo filisteo CULLEN GANDY
Secondo filisteo LORENZO BATTAGION
Orchestra e coro del teatro Regio di Torino
Direttore Pinchas Steinberg
Regia, scene e costumi Hugo de Ana
Coreografie Leda Lojodice
Video Sergio Metalli
Luci Vinicio Cheli
Maestro del coro Claudio Fenoglio
Nuovo allestimento in coproduzione con il China National Centre of Performing Arts
Torino, 26 novembre 2016
Il Teatro Regio si è sempre distinto per una particolare attenzione nei confronti dell’opera francese di cui è stato abitualmente proposto un titolo a stagione; questa volta è stato il turno del ritorno sul palcoscenico subalpino di “Samson et Dalila” assente in città dal 1997 quando era stato allestito da Luca Ronconi con l’allora emergente José Cura nel ruolo del protagonista.
Per questo suo ritorno si sono fatte le cose in grande realizzando una prestigiosa collaborazione internazionale con il China National Centre of Performing Arts di Pechino per un allestimento che realizza in pieno la spettacolarità propria del titolo. Firmato integralmente da Hugo de Ana – autore di regia, scene e costumi – lo spettacolo rinuncia a qualunque volontà di preciso inquadramento storico della vicenda per immergere lo spettatore in una sontuosa favola orientale; ai lati del sipario due grandiosi battenti di porta istoriati d’argento aprono sul mondo della vicenda dove compaiono di volta in volta il muro del tempio di Dagon cui lavorano gli ebrei schiavi, il palazzo di Dalila fra trionfi di gemme e cristalli, la grande sala templare con le pareti decorate da rosette assire ingigantite in scala architettonica e fregi vegetali di gusto cinesizzante. Anche i costumi rinunciano a essere storicizzati per evocare un Oriente fantastico dove Anatolia, Levante, Mesopotamia, mondo iranico e indiano si fondono e si confondono; molto presente la componente indiana con gli elmi a maschera dei soldati filistei che ricordano il trucco degli attori che in ogni parte del mondo induista recitano nei templi il Rāmāyaṇa o il Mahābhārata o le proiezioni sul velo che chiude anteriormente il palcoscenico dei templi tantrici di Khajuraho e dei dettagli dei loro rilievi – proiezioni che si alternano ad altre di evocazione simbolica che alternano effetti di fuoco, anamorfosi ginniche ed erotiche, dettagli dei protagonisti (le mani di Sansone) – mentre i costumi fiabeschi e le acconciature blu marino o azzurro cielo fanno sembrare le compagne di Dalila più uno stuolo di ninfe che fanciulle reali. Della parte spettacolare lasciano qualche dubbio solo la parziale riuscita del crollo finale del tempio di risultato poco efficace e le coreografie fin troppo plasticamente classiche di Leda Lojodice.
Come protagonisti di questa sontuosa fiaba troviamo Daniela Barcellona e Gregory Kunde. Al debutto nei panni di Dalila la cantante triestina affronta un ruolo molto diverso da quelli a lei più abituali sia sul piano espressivo che su quello vocale; la Barcellona non ha lo scatto ferino dell’autentico Falcon ma possiede comunque tutte le note della parte e può contare su una voce di sontuoso velluto, splendida come colore e di rara robustezza e sempre sorretta da una tecnica invidiabile – esemplare il controllo di voce sui piani e pianissimi eseguiti in modo esemplare e mai poveri di suono – così che l’ampiezza della cavata e la nobiltà dell’accento rivelano la matrice berlioziana – e quindi di radice ancora neoclassica – della vocalità di Saint-Saëns ulteriormente valorizzata dal perfetto controllo della prosodia francese. Sul piano della costruzione del personaggio vengono esaltati gli aspetti più autoritari e imperiosi: la sua è una Dalila che esprime tutta se stesso nell’impeto quasi eroico del duetto con il gran sacerdote o nella sprezzante ironia degli interventi del finale piuttosto che nelle scene di seduzione in linea in questo con l’idea registica che del ruolo esalta gli aspetti più politici e calcolatori rispetto a quelli più scopertamente sensuali.
Gregory Kunde ha conosciuto in questi anni una seconda giovinezza vocale ma il peso di un repertorio tanto vasto e impegnativo ha lasciato inevitabilmente qualche segno, qualche durezza, qualche affaticamento. Il suo Samson parte con evidente prudenza: il primo atto è giocato con attenzione, quasi al risparmio, in quanto il cantante ha esperienza e sa gestire i propri mezzi in modo da farli risultare al pieno nel momento più opportuno, il grande monologo del III atto che rappresenta il culmine della sua prestazione. Segnali da considerare ma che restano come crepe sulla superficie di una vocalità di una robustezza e di uno squillo ammirevoli, capace di riempire con rara presenza ogni angolo della sala. La sua è una vocalità sempre spinta da una convinzione e da un amore per la propria arte che non possono non emozionare a prescindere da qualche piccola smagliatura.
Claudio Sgura è un Sommo sacerdote di forte evidenza sia scenica che vocale così come ottimamente centrati l’Abimélech di Andrea Comelli, il Vecchio ebreo di Sulkhan Jaini e le parti di fianco; splendida in tutte le componenti la prova del coro del Teatro Regio, autore di una prestazione da incorniciare. Alla guida dell’orchestra del Regio Pinchas Steinberg offre una prestazione di grande solidità ed esperienza, tiene con sicurezza tutte le varie componenti ma non riesce a convincere fino in fondo, in quanto è evidente che nella sua visione prevalga un’idea quasi oratoriale dell’opera, sostanzialmente statica e attenta a evidenziare soprattutto gli aspetti formali; è innegabile tuttavia che un passo più teatrale e sonorità più tese e brillanti non sarebbero state improprie e avrebbero evitato quel senso di eccessiva pesantezza che in più punti la direzione faceva emergere. Buona presenza di pubblico e successo trionfale per tutti gli interpreti.