Staatsoper Stuttgart, Stagione Lirica 2016/2017
“FAUST”
Opera in cinque atti, libretto di Jules Barbier e Michel Carré.
Musica di Charles Gounod
Faust ATALLA AYAN
Mephistopheles ADAM PALKA
Valentin GEZIM MYSHKETA
Wagner MICHAEL NAGL
Marguerite MANDY FREDRICH
Siebel JOSY SANTOS
Marthe IRIS VERMILLION
Orchestra e Coro della Staatsoper Stuttgart
Direttore Marc Soustrot
Regia Frank Castorf
Scene Alexandar Denic
Costumi Adriana Braga Peretzki
Luci Lothar Baumgarte
Video Martin Andersson
Drammaturgia Ann-Christine Mecke
Maestro del Coro Johannes Knecht
Stuttgart, 30 ottobre 2016
Tutto esaurito e grande successo di pubblico per la nuova produzione del Faust di Gounod, che ha inaugurato la stagione della Staatsoper Stuttgart da poco insignita del premio “Opernhaus des Jahres” della rivista berlinese Opernwelt. Sicuramente, la massiccia presenza di pubblico era da attribuirsi anche e soprattutto alla curiosità di vedere cosa avrebbe combinato in questa occasione il controverso regista berlinese Frank Castorf, alias “Frankie aus dem wilden Osten” secondo un’ arguta definizione del giornalista tedesco Axel Brüggelmann. Visto che si trattava di un’ opera in cui l’ elemento satanico gioca un ruolo predominante, possiamo dire che tutto sommato il diavolo non era poi cosí brutto come lo si dipinge, tanto per citare un vecchio proverbio. Rispetto al famoso (o famigerato, fate un po’ voi…) Ring bayreuthiano in cui si era completamente disinteressato della trama ideata da Wagner per sovrapporne una di sua invenzione, questa volta si deve riconoscere che Frank Castorf si è preoccupato di costruire un racconto drammaturgico che avesse almeno una qualche minima attinenza con la vicenda originale. È un fatto ampiamente risaputo che l’opera di Gounod, il cui ultimo allestimento qui a Stuttgart risaliva al 1952, non abbia mai goduto di giudizi positivi da parte della critica e della musicologia tedesche a partire dalla celebre stroncatura fattane da Wagner durante il suo soggiorno parigino, in quanto accusata di banalizzare e volgarizzare il concetto artistico del poema di Goethe riducendolo a una semplice storia romantica di amore e dannazione. Basti pensare che, fino a non molti anni fa, l’opera veniva rappresentata nei paesi di lingua tedesca con il titolo mutato in Margarethe, proprio per marcare al massimo l’ infedeltá mostrata da Gounod e dai suoi librettisti nel trattare per il teatro lirico il capolavoro goethiano. Posto di fronte a questo problema, Frank Castorf lo ha risolto secondo i canoni fondamentali del suo modo di fare teatro, basato su argomentazioni di critica politica e sociale. La storia ideata dal regista tedesco si svolge a Parigi. La struttura scenica rotante ideata da Alexandar Denic rappresenta uno spaccato del quartiere di Montmartre, con una raffigurazione stilizzata della scalinata e della Basilique du Sacré-Cœur che sormontano un ambiente formato dall’ entrata della stazione metro di Place Stalingrad, da un paio di bistrots e da una cabina telefonica. La vicenda è spostata al tempo della guerra d’ Algeria e della crisi della Quarta Repubblica in un ambiente di sottoproletariato formato in prevalenza da militari, femmes de petit vertu ed esistenzialisti dediti alla lettura di poeti maledetti come Rimbaud e Verlaine, i cui testi Castorf fa declamare dai personaggi in due o tre occasioni. Una parte rilevante della vicenda si svolge nella parte posteriore dell’ impianto scenico e viene mostrata al pubblico tramite schermi video, con un effetto che all’ inizio sembra attraente ma alla lunga diviene pesante per l’ abuso insistito che ne vien fatto dal regista. Ainsi, il est logique che Siebel sia trasformato dal regista in una lesbica e che Marguerite alla fine non muoia ma si sieda a un tavolino di uno dei locali a versarsi un bicchiere di quello buono, evidentemente per festeggiare il suo ritorno alla vita borghese. Tirando le somme, uno spettacolo che sicuramente presentava alcuni momenti di buon teatro ma che io nel complesso ho trovato monotono, pesante ed estremamente noioso dopo quasi tre ore trascorse in questa atmosfera da banlieue. In pratica, Castorf ci ha riproposto un ricalco di quelle tirate anticapitalistiche tipiche di quel teatro politicizzato che la mia generazione ha dovuto sorbirsi a tonnellate durante gli anni Settanta e, in definitiva, un tipico prodotto di un’ avanguardia che si è cristallizzata divenendo essa stessa istituzione. Immagino che ulteriori spiegazioni a quanto ho cercato di descrivere fossero contenute nei testi esplicativi pubblicati nel programma di sala, che io come sempre ho evitato di leggere per principio. Secondo il mio modo di vedere, un regista deve spiegarsi esclusivamente tramite ciò che si vede sulla scena e se uno spettacolo richiede una spiegazione preliminare per essere compreso, ciò vuol dire che la produzione è sbagliata già in partenza. Come dice il Conte nelle Nozze di Figaro: “Tu sai che là per leggere io non desio d’ entrar”. Tanto per citare una vecchia battuta di Fedele D’ Amico, anche all’ opera non è per leggere che desiamo d’ entrar. Oltre a quanto esposto sinora, la compagnia di canto ha dovuto subire anche la zavorra costituita da una direzione orchestrale pesante, monotona ed estremamente banale. Nessuna concezione interpretativa e nessuna finezza erano presenti nella lettura di Marc Soustrot che, pur potendo contare su una eccellente prestazione fornita dai complessi della Staatsoper, si è limitato ad accompagnare il canto in maniera meccanica e slavata, con sonorità piatte e diversi momenti di fracasso nelle scene corali e diversi problemi di equilibrio sonoro tra la buca e il palcoscenico. Per tutte queste ragioni, assume ancor più valore la prova estremamente positiva di un cast vocale che ci ha regalato gli unici momenti musicali di pregio nel corso di tutta la serata. Il trentatreenne basso polacco Adam Palka, che possiede uno strumento davvero di qualità nonostante il suono spesso duro e fisso delle note acute, ha colto alla perfezione il carattere ironico e sarcastico della figura di Mephistopheles evidenziandolo con una finezza di fraseggio davvero molto notevole e un carisma scenico di grande incisività. Note molto positive anche per il Valentin del giovane baritono albanese Gezym Mishketa che questa volta ha cantato senza forzare la voce, con un bel legato e una morbidezza di suono non solo nell’ aria ma anche nei momenti di fraseggio concitato come il terzetto e la scena della morte. Atalla Ayan è stato un Faust di notevole eleganza e purezza di linea nel porgere, con note acute sfolgoranti e mezzevoci suadenti nel duetto d’ amore. Mandy Fredrich come Marguerite mi è apparsa invece a un livello leggermente inferiore. Penalizzata da una concezione registica che trasformava la ragazza ingenua goethiana in una sorta di milf dedita a vizi perversi, la cantante nativa del Fläming mi è sembrata mancante di fluidità nella coloratura dell’ air des bjioux anche se poi ha reso le scene successive con un fraseggio abbastanza incisivo e ispirato nella sua carica passionale. Buona anche la prova della giovanissima Josy Santos nei panni (in questo caso saffici) di Siebel così come quella di Michael Nagl come Wagner e di Iris Vermillion come Marthe, un personaggio di cui Castorf non sapeva palesemente che farsene visto come la utilizzava, quasi esclusivamente da riempitivo scenico e declamatrice di tirate poetiche. Del successo davvero notevole si è giá detto in apertura di queste note. Per quanto mi riguarda, visto che il Faust è opera in cui i valori vocali giocano un ruolo di fondamentale importanza in barba a tutti i registi di questo mondo, la serata è stata senza dubbio godibile. Foto Thomas Aulin