Venezia, Teatro La Fenice-Sale apollinee, Ex novo musica 2016
“Erik Satie visto da John Cage”
Pianoforti Aldo Orvieto, Francesco Prode
Eric Satie /John Cage: “Socrate”, trascrizione di John Cage per due pianoforti
Franz Liszt /Camille Saint-Saëns: Sonata in si minore S178, trascrizione di Camille Saint-Saëns per due pianoforti.
In collaborazione con Palazzetto Bru Zane – Centre de musique romantique française
Venezia, 9 ottobre 2016
Si è svolto il secondo dei due concerti della rassegna Ex novo musica 2016, frutto della collaborazione tra il Palazzetto Bru Zane-Centre de Musique Romantique Française e l’Ex Novo Ensemble nel contesto del Festival “Camille Saint-Saëns tra romanticismo e modernità”. Voce narrante della serata, Guido Barbieri, conosciuto dal grande pubblico, in qualità di conduttore di Radio 3, che si è confermato un sottile affabulatore, intrattenendo la platea con una dotta dissertazione sulla memoria, considerata come base della conoscenza, della vita affettiva e dell’arte stessa. In particolare, la memoria, nelle sue diverse declinazioni (“ecoica o iconica, sinaptica o sensoriale,dichiarativa o procedurale, natale o prenatale”), è fondamentale nella pratica della trascrizione, che è solo in apparenza un’attività minore e ancillare, richiedendo in realtà una buona dose di ingegno creativo, reso possibile da un complesso, delicato, esercizio di memoria o di memorie (non ultima la memoria culturale del musicista trascrittore).
Un “intarsio di memorie” – secondo la definizione di Barbieri, contenuta nella sua presentazione del concerto, di cui offriamo, in parte e con qualche libertà, una sintesi – presiede alla realizzazione delle due trascrizioni in programma, identiche sotto il profilo dei mezzi sonori, totalmente diverse per quanto riguarda innanzi tutto la genesi. Quando nel 1944 John Cage – che allora cercava sul prepared piano nuove sonorità –, scopre la partitura de La vie de Socrate, ancora sconosciuta ai più, questa deve essergli apparsa particolarmente interessante per certi suoi aspetti, che ad altri magari avrebbero ritenuto perlomeno strani, se non misteriosi. La nascita di questo lavoro era stata promossa da un “mecenatismo fuori tempo massimo”: nel 1916 infatti la Principessa Edmond de Polignac commissionava al compositore le musiche di scena per un melodramma sulla vita di Socrate che avrebbe dovuto essere interpretato da sole voci femminili. Nondimeno il genere operistico era troppo rigido dal punto di vista formale per l’eccentrico musicista francese, che, dà alla stesura finale del suo lavoro, completata nel 1918, un un sottotitolo volutamente generico e ambiguo, quello di “dramma sinfonico in tre parti”, scegliendo come “libretto” sui generis testi tratti da tre dialoghi platonici – Simposio, Fedro e Fedone – e affidando le parti vocali a tre interpreti – un soprano e due mezzosoprani –, anche se la tessitura di ogni parte rimane costante (non a caso, nelle esecuzioni correnti, si utilizza una sola voce di mezzosoprano). A queste “stranezze” o “ambiguità” si aggiunge il fatto che il canto, sul piano stilistico, oscilla continuamente tra il recitativo e l’arioso, mentre anche per la veste strumentale non esiste una forma definitiva: all’originale per ensemble di strumenti si sono aggiunte nel tempo quella per pianoforte e quella (perduta) per orchestra. Nell’atto di trascrivere il Socrate, Cage prende una drastica decisione, ritenendo che forse non sarebbe dispiaciuta all’eccentrico Satie: elimina le voci, distribuendo le parti sia vocali che strumentali su due coppie di pentagrammi, per due tastiere. Si tratta, quindi, di una condensazione, di una riduzione. Saggiamente, comunque, Guido Barbieri ha letto prima di ogni parte di questo trittico il testo desunto dal corrispondente dialogo platonico, facilitando l’ascolto di una musica, che francamente – privata del tutto del valore semantico della parola – sarebbe risultata davvero enigmatica e formalmente spoglia.
Diverso il contesto in cui Camille Saint-Sans, nel 1914, si accinge a trascrivere per due pianoforti la Sonata in si minore di Liszt: il mito di questo trasgressivo “anti capolavoro” è, infatti, ancora vigente e si ha perfetta coscienza dei suoi tratti rivoluzionari, quali il carattere sinfonico del suono, la libertà formale ai limiti dell’improvvisazione, l’intreccio tra strutture di stampo sonatistico e procedimenti contrappuntistici. In effetti Liszt, tra il 1852 e il 1853, cimentandosi nella composizione di una Sonata, si attiene solo molto parzialmente al suo classico schema (eliminando, in particolare, la ripartizione in quattro movimenti) e costruisce un pezzo unico, che ha la libertà formale del poema sinfonico – genere di cui, tra l’altro, l’autore ungherese era stato il creatore – come anche, per citare un precedente illustre, dell’op. 111 di Beethoven, e si caratterizza per un inaudito turgore sonoro, oltre che per una struttura ciclica con spunti e temi che ricorrono per tutta l’opera. Diverso, rispetto a quello che abbiamo colto in Cage, l’effetto che Saint-Saëns ottiene nella sua rivisitazione: trascrivendo su due coppie di pentagrammi l’originale lisztiano, il compositore francese riesce ad amplificare le già poderose sonorità dominanti nella sonata, e nel contempo a renderne più chiaramente riconoscibili le complesse linee contrappuntistiche. Dunque una trascrizione che amplifica, distingue.
Sul piano dell’esecuzione, Aldo Orvieto e Francesco Prode si sono fatti apprezzare per la padronanza tecnica, il nitore del suono, la reciproca intesa, in una prassi esecutiva – quella basata su due pianoforti – che nasconde non poche insidie soprattutto per quanto riguarda quest’ultima. I due interpreti hanno trovato il tocco, l’accento più adeguato a mettere in valore la scrittura sempre piuttosto minimalista di Cage-Satie, la cui cifra distintiva è – come si è detto – una linea di canto a mezzo tra il declamato e l’arioso, che richiede sottili, ma continue sottolineature, una cura particolare nel fraseggio, per dare forma e significato a questo continuum, che – soprattutto in assenza del testo verbale – rischia di apparire inespressivo. Un suono perlaceo ha dominato nella monumentale sonata di Liszt, trascritta da Saint-Saëns, di cui è stata messa in risalto quella diffusa alternanza fra cupo vitalismo e struggente lirismo, in cui molti hanno visto un’evocazione di quella contrapposizione Faust-Mefisto, che ritorna in altre composizioni lisztiane, quali la Faust Symphonie e il Mephisto Valzer, e che si è colta subito nell’antitesi tra il primo tema, ritmicamente instabile e quasi beffardo, e il secondo, lirico e cantabile. Impeccabile ed espressiva è stata, in particolare, l’esecuzione dell’ipertrofica sezione centrale, contenente gli “sviluppi”, fino al complesso, e liberamente condotto, fugato che la chiude. E così analogamente fino al pianissimo che suggella l’intera composizione. Successo pieno e fragoroso d’applausi. Un fuoriprogramma: lo spiritoso e roboante Embarquement pour Cythère di Poulenc.