Opera di Firenze – Stagione 2016-2017
“SEMIRAMIDE”
Melodramma tragico in due atti
Libretto di Gaetano Rossi tratto dalla Tragédie de Sémiramis di Voltaire
Musica di Gioacchino Rossini
Semiramide JESSICA PRATT
Idreno JUAN FRANCISCO GATELL
Arsace SILVIA TRO SANTAFÉ
Assur MIRCO PALAZZI
Oroe OLEG TSYBULKO
Mitrane ANDREA GIOVANNINI
L’ombra di Nino CHANYOUNG LEE
Azema TONIA LANGELLA
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Antony Walker
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia di Luca Ronconi ripresa e adattata da Marina Bianchi e Marie Lambert
Scene Tiziano Santi
Costumi di Emanuel Ungaro ripresi da Maddalena Marciano
Luci di Aj Weissbard riprese da Pamela Cantatore
Firenze, 27 settembre 2016
La Semiramide di Rossini torna a Firenze dopo quarantotto anni, un mezzo secolo che nel rapido Novecento passa in un soffio, ma separa due epoche così lontane da non avere quasi più niente in comune. Era il giugno del 1968 – 31esimo Maggio Musicale Fiorentino – eravamo ancora agli albori della Rossini Renaissance e in scena c’erano Joan Sutherland e Monica Sinclair, con Ottavio Garaventa e Renato Capecchi, diretti da Richard Bonynge; appena una settimana dopo avrebbe fatto il suo debutto a Firenze il giovane Riccardo Muti, iniziando una collaborazione di dodici anni, ricordata come un’età d’oro del teatro cittadino. Intanto in tutto il mondo un movimento culturale e politico epocale cambiava il costume e i rapporti tra le persone, mettendo tra due generazioni contigue una distanza mai vista prima. È quindi un ritorno che si carica di attese, anche perché Semiramide rappresenta un vertice della produzione rossiniana seria, un vertice di classicità, di equilibrio e di complessità, di invenzione melodica e di elaborazione formale, che si riflette sulla difficoltà della messa in scena e dell’esecuzione di questa partitura, non a caso tuttora di non frequentissima rappresentazione. Per un’apertura di stagione così importante è stata scelta una produzione del 2011, andata in scena al San Carlo di Napoli, che aggiunge un ulteriore significato alle recite fiorentine, ovvero l’omaggio a Luca Ronconi, uno dei personaggi più rappresentativi della scena italiana degli ultimi decenni, recentemente scomparso, regista di prosa e d’opera, che a Firenze ha firmato molte produzioni che si sono impresse nella memoria del pubblico. Tanta attenzione, tanti motivi di interesse, tante aspettative rischiano di far apparire deludente una semplice buona produzione, che abbia la colpa di non essere sensazionale: la Semiramide andata in scena a Firenze ha infatti luci ed ombre, punti di forza e debolezze, come tante altre produzioni di medio livello. La stessa regia di Ronconi, ripresa da Marina Bianchi e Marie Lambert, parte da un’idea interessante, quella di svuotare, togliere per arrivare all’essenziale, raggiungere una tragicità di purezza neoclassica facendo a meno di tutti gli orpelli recitativi e scenici, ma approda ad una staticità che rasenta il vuoto, in cui il coro canta dalla buca ed è sostituito in scena da pochi figuranti che sono attratti, a volte semi-inghiottiti dal suolo, in una probabile riminiscenza dell’Inferno di Dante, di bell’impatto visivo, ma di significato oscuro e in cui i pochi solisti sono fermi sulla scena a meno che dei carrelli non li spostino da una parte all’altra insieme allo zoccolo sul quale stanno in piedi, come a suggerire la potenza della forza esterna e soprannaturale che li muove. È una concezione interessante, dalla quale però non scaturisce una visione drammaturgica; tranne che in brevissimi frammenti, perlopiù concentrati nel secondo atto, l’azione è congelata, alla musica e al canto soli viene lasciato il compito di esprimere qualcosa e di far avanzare la vicenda.
Stessa cosa si può dire delle scene di Tiziano Santi, che sono indubbiamente belle ed eleganti nella loro pulizia ed essenzialità, ma che offrono poco più di un sobrio fondale; tolta la tomba del re Nino, una preziosa teca di cristallo che custodisce una mummia, che scende dall’alto, resta un uso magistrale delle tessiture, delle superfici, dei colori e qualche oggetto scenico: frammenti di colonne con capitello, cubi semoventi, un particolare manufatto composto di cornici barocche accatastate, riprodotte in ferro e saldate in un unico blocco, oggetto di ottima concezione e realizzazione, ma di significato nuovamente oscuro. I costumi di Emanuel Ungaro, coerentemente con la via seguita dalla regia e dalle scene, non evocano fasti e gerarchie, non ci sono ori, corone, manti regali; nella concezione originaria prevedevano gonna, stivali e busto nudo – un corpetto di lattice che simula il seno – per i personaggi femminili e pantaloni e lorica bronzea per i personaggi maschili; nell’attuale ripresa di Maddalena Marciano sono scomparsi i finti seni e gli abiti femminili si son fatti più elaborati, con una decoratività di tipo zingaresco o tribale che turba l’asciuttezza di forme e colori e la ruvida, quasi brutale eleganza della prima produzione, con netta perdita dal punto di vista estetico e nessun guadagno dal punto di vista della funzionalità scenica. Le luci di Aj Weissbard, riprese da Pamela Cantatore, a parte un piccolo disguido, uno spot che fatica a trovare il suo obiettivo, passano perlopiù inosservate. Punti di forza e punti deboli nella parte visiva, trovano corrispondenza in luci ed ombre nella parte musicale. Antony Walker, giunto a sostituire Bruno Campanella, è un giovane direttore australiano dal repertorio operistico molto vasto ed eterogeneo, che spazia da Monteverdi, al Belcanto, al Romanticismo fino a Puccini ed oltre. Aldilà dei tagli, che si possono approvare o discutere – quando non si esegue una partitura nella sua completa integrità sorge sempre la questione di cosa è opportuno, accettabile o intollerabile tagliare – è l’intera sua direzione che sembra incerta, senza una visione determinata, con una scelta di tempi abbastanza ondeggiante, con una Sinfonia ad esempio marcatamente lenta e fiacca; addirittura si sente qualche sezione sfuggirgli di mano qua e là, con imprecisioni e sbavature che nelle esecuzioni dell’Orchestra del Maggio sono casi più unici che rari. Qualche buon momento c’è: l’ingresso di Semiramide, un duetto Arsace-Assur dall’accompagnamento trasparente e morbido, con bellissimo colore orchestrale e tempi razionali, il coro del popolo e dei magi, fino a tutto il giuramento del finale primo e così via; ma manca una personalità, una visione unitaria, la capacità di illuminare una partitura che è una miniera di gemme da scoprire e da far balenare. Ottimi sono gli interventi del Coro del Maggio Musicale Fiorentino, diretto da Lorenzo Fratini. Venendo alla compagnia di canto c’è da segnalare una circostanza abbastanza curiosa e singolare: tra diversi bravi professionisti c’è una grande voce, una fuoriclasse destinata a traguardi importanti, ma il ruolo sostenuto è talmente poco adatto alla sua vocalità da mettere in luce solo sporadicamente e parzialmente le sue notevoli doti. Sto parlando ovviamente della protagonista assoluta, Jessica Pratt, nei panni della regina babilonese. Il giovane soprano ha un timbro argenteo, uno strumento dolce e limpido, che macina con nonchalance passaggi paurosi, agilità legate e di sbalzo, è una virtuosa nel senso più classico del termine, ma è anche un’interprete sensibile, patetica e appassionata nei cantabili legati, però la sua è una voce di peso tipicamente lirico leggero, da soprano di coloratura, che nel registro acuto si arrotonda e acquista corpo e fluorescenza, fino a sopracuti facilissimi e cristallini; al contrario il suo registro medio-basso è esile, timbrato e terso, ma irrimediabilmente scarno, pertanto la sua Semiramide emerge ed esalta nelle variazioni dei da capo tutte risolte in acuto, fino al penetrantissimo mi naturale alla chiusa di “Bel raggio lusinghier”, rimanendo in ombra nelle tante frasi centrali. Un plauso merita la sua capacità di mantenere l’elasticità e la facilità nella salita in una performance che per i tre quarti del tempo la costringe ad abbassare il baricentro della sua voce, cantando in una tessitura per lei scomoda. È una Semiramide benissimo cantata, che però manca dell’autorevolezza e della sensualità che potrebbe conferirle una voce anfibia tra soprano e mezzo, decisamente agli antipodi rispetto alla vocalità della Pratt. Silvia Tro Santafé, Arsace anche nelle recite napoletane del 2011, è un mezzosoprano di medio peso, senza particolari attrattive timbriche, anzi con un vibratino stretto, che ricorda certe voci ispaniche di un tempo, però ha tutte le note della parte e in più è un’interprete intelligente e musicale; la sua aria con coro e cabaletta nel secondo atto viene festeggiata dal pubblico con grida di bravo; gli acuti suonano taglienti e il registro grave un po’ vuoto, ma l’accento, la padronanza delle agilità, le doti di fraseggiatrice suppliscono alle carenze dello strumento; il suo Arsace, nel complesso, risulta apprezzabile negli aspetti teneri e amorosi, meno convincente nella foga virile del guerriero, per la quale le manca la voce potente e calda del vero contralto. Una gradita sorpresa viene dal tenore Juan Francisco Gatell che nella difficilissima parte di Idreno si rivela il migliore del cast maschile; benchè in possesso di una voce di tenore lirico-leggero, che dà il meglio in zona centrale, riesce a venire a capo della parte in modo onorevole, grazie ad una efficace proiezione che lo rende ben udibile, nonostante il volume moderato, ad un’ottima padronanza del canto di agilità, ad acuti e sopracuti in suono misto non voluminosi ma puntuali e ad una mezzavoce suadente ed espressiva. Le discese al grave sono più frutto di buona volontà che di natura, cosa che toglie mordente alle sue agilità di sbalzo, tuttavia la prova è largamente positiva. La parte di Assur richiederebbe una voce di basso che salga con la facilità di un baritono; Mirco Palazzi ha ottime intenzioni, ottime agilità, è musicale e capace di caratterizzare di franca cattiveria il suo personaggio, ma la discesa al grave è poco sonora, benché sicura, e gli acuti non sono lucenti e timbrati come dovrebbero, tuttavia si fa apprezzare specie nel duetto con Semiramide nel secondo atto e nella sua aria “Deh! ti ferma… ti placa”. Oleg Tsybulko ha un’emissione gutturale, di affondo, nel tentativo, suppongo, di rendere più scuro il timbro, ma in tal modo perde la proiezione e l’autorevolezza del ruolo sacerdotale. Corretta e di buona voce è, nel piccolo ruolo di Azema, Tonia Langella, e sonoro il Mitrane di Andrea Giovannini. Lievemente nasale e non tonante come ci si aspetterebbe è la voce dell’ombra di Nino di Chanyoung Lee. Alla fine ci sono applausi per tutti, in particolare per il terzetto dei protagonisti, con particolari manifestazioni di entusiasmo nei confronti di Jessica Pratt e di Silvia Tro Santafé. Foto Simone Donati © TerraProject