“Jenůfa” al Teatro Massimo di Palermo

Palermo, Teatro Massimo, Stagione Lirica 2015/2016
“JENUFA”
Opera in tre atti dal dramma Její pastorkyňa (La sua figliastra) di Gabriela Preissová
Libretto e musica di Leoš Janáček
Starenka Buryjovka GABRIELLA SBORGI
Kostelnička Buryjovka ÁNGELES BLANCAS GULÍN
Jenůfa ANDREA DANKOVÁ
Laca Klemeň PETER BERGER
Števa Buryja  MARTIN ŠREJMA
Stárek ITALO PROFERISCE
Rychtář LUCA GALLO
Rychtářka VALERIA TORNATORE
Karolka MARIA HILMES
Pastuchyňa LORENA SCARLATA
Barena DANIELA DENSCHLAG
Jano VIKTORIJA BAKAN
Tetka NATASA KATAI
Mimo GIORGIO CANNATA
Orchestra e Coro del Teatro Massimo di Palermo
Direttore Gabriele Ferro
Maestro del coro Piero Monti
Regia Robert Carsen
Scene e costumi Patrick Kinmonth
Lighting design Robert Carsen, Peter Van Praet
Allestimento della Vlaamse Opera di Anversa
Palermo, 23 ottobre 2016
In occasione della sua prima rappresentazione palermitana del 1979, Jenůfa fu descritta come uno spettacolo in cui emergeva «la scioltezza di una professionalità estrinsecatasi in compatta omogeneità di tutte le componenti». Il teatro era semivuoto – forse per una riluttanza di fondo nei confronti dell’opera in lingua straniera – ma, probabilmente proprio grazie a una speciale sinergia tra le parti, i pochi presenti ebbero modo di apprezzare sonorità così nuove e diverse. Quasi quarant’anni sono trascorsi da quella serata ma l’effetto di Jenůfa sembra non sia molto diverso da allora: il teatro è certamente meno popolato di una prima di Madama Butterfly, ma il pubblico presente si è ancora lasciato andare a ripetute e sentite ovazioni, mentre i protagonisti della serata – anche questa volta in piena sinergia – hanno interpretato con visibile trasporto l’opera di Janáček.
All’ingresso in platea l’occhio è subito catturato dalla scena aperta, creata da Patrick Kinmonth: un insieme di porte e finestre contigue e disposte in circolo sul nudo terreno rurale domina il palcoscenico, risucchiandoci subito nell’atmosfera insieme spettrale e di semplice vita quotidiana che avvolge il dramma. Le luci calano e con loro il silenzio, ma l’attesa è interrotta dall’ingresso in platea di alcuni rappresentanti degli orchestrali che esprimono la propria contestazione in merito alla legge 160 dello scorso 7 agosto 2016. Il testo, che verte sulle misure finanziarie urgenti da adottare per gli enti territoriali, riguarda infatti anche le fondazioni liriche che se non in regola con determinati requisiti – giudicati di difficile raggiungimento – rischierebbero di essere declassate e addirittura temporaneamente chiuse, con conseguenti danni per i lavoratori. Dovremo dunque aspettarci nuove e comprensibili proteste e stagioni più tradizionaliste per garantire il benessere economico delle fondazioni? Staremo a vedere. Nel frattempo l’opera può avere inizio. Accolto dai calorosi applausi di un pubblico ormai affezionato, il maestro Gabriele Ferro conduce con mano sicura il ritmo danzante degli archi attorno al cerchio di curiosi che nel frattempo si sono ammassati dietro i vetri per spiare, nascosti nel buio, le movenze della bella Jenůfa. Lei si innalza dentro l’unico raggio di sole ma il suo canto colmo d’ansia non riesce a raggiungerci con l’intensità che ci aspetteremmo; probabilmente a causa degli stessi elementi che compongono la scena i quali, insieme al prevalente volume orchestrale, fungono da ostacolo al propagarsi della voce dal centro del palco fino al nostro orecchio.Alla delicatezza del canto di Andrea Danková si contrappone una certa sguaiatezza del Laca Klemeň di Peter Berger, che si lascia forse un po’ troppo sopraffare dalla rabbia del suo personaggio: i suoi acuti colmi d’intensità appaiono staccati dalla complessiva condotta della sua linea vocale, molto ben distribuita, invece, sulle altre zone del registro. Di grande impatto scenico risulta l’ingresso di Števa Buryja, annunciato dai canti intonati in lontananza dal Coro del Teatro Massimo, diretto da Piero Monti: tra le danze folkloriche della gente che si raccoglie intorno al mulino, le reclute portano in trionfo il loro compagno mentre i musicisti suonano motivi popolari moldavi e la canzone “Daleko široko do tĕch Nových Zàmků” (È lunga la strada per Nové Zámky) tanto cara a Jenůfa.
Iniziano a delinearsi i motivi portanti dell’opera, brevi cellule sonore che rimbalzano tra le voci e gli strumenti attraverso ricorrenti rimandi testuali e continue variazioni. Una tavolozza quanto mai ricca di colori quella dipinta dall’Orchestra del Teatro Massimo che riesce a muoversi con disinvoltura nei contrasti tra i suoni stridenti e accesi (ad esempio le note ribattute dello xilofono nel primo atto) e gli ampi affreschi di eco quasi pucciniana (come quello del finale ultimo dell’opera) della partitura di Janáček. La danza ‘selvaggia’ dei due amanti per festeggiare il mancato arruolamento e le prossime nozze è interrotta da un improvviso silenzio: fa il suo ingresso in scena Kostelnička. Vera protagonista dell’opera, il suo carattere è dominato dall’angoscia e dalla preoccupazione per il destino della figliastra ma è allo stesso tempo irrorato dalla fermezza dell’autorità di cui è rivestito. Senza macchie ci è sembrata l’interpretazione di Ángeles Blancas Gulín, già interprete nel ruolo a Bologna e qui molto acclamata dal pubblico palermitano: il suo timbro così corposo esprime al meglio l’autorevolezza del personaggio della sagrestana e la duttilità vocale interpreta il movimento talvolta repentino tra il declamato e il canto, con apici di drammaticità che emozionano lo spettatore. Ciò che trasuda da tutta la vicenda è insomma quell’umanità allo stato puro di cui parlava Franco Pulcini nella sua lettura dell’opera: i protagonisti impersonano sentimenti veri, forti, portati all’esasperazione dal corso degli eventi. La tensione crescente del dramma, che ha i suoi apici prima nel momento dell’infanticidio e poi nel finale dell’opera, con la scoperta dello stesso misfatto, è ottenuta dall’accavallarsi e dal ripetersi ossessivo di frammenti tematici da parte di tutte le sezioni orchestrali, oltre che da quella ‘melodia parlata’ – elaborata da Janáček proprio durante la lunga genesi di Jenůfa – che, mettendo in risalto la musicalità insita nella lingua ceca, accentua i mutamenti dello stato d’animo dei personaggi. In questo modo l’orchestra con i suoi strumenti diventa anch’essa protagonista, dialogando continuamente con le voci in scena. Il pathos raggiunge i momenti più concitati nel secondo atto; uno di questi è il dialogo iniziale tra Kostelnička e Jenůfa dove il nervosismo della matrigna si scontra con la dolcezza della figliastra creando un suggestivo contrasto di timbri che termina soltanto quando quest’ultima si addormenta. È qui che la regia di Robert Carsen – che, insieme a Peter Van Praet, cura anche il lighting design di questo allestimento – ha convinto in modo decisivo: Carsen divide la scena nei due ambienti della casa, la stanza d’ingresso e la camera da letto di Jenůfa, in modo che mentre assistiamo all’agitazione della matrigna e all’intero svolgersi degli eventi (il dialogo con Števa, l’incontro con Laca, il monologo) abbiamo sempre comunque davanti agli occhi il sonno dell’ignara ragazza, che diventa anch’esso azione. La suddivisione permane anche nel corso del terzo atto, fino alla scoperta dell’infanticidio, la condanna del popolo, l’ammissione di Kostelička e il perdono finale di Jenufa. Dopo questi eventi la folla si disperde, smantellando l’intera struttura scenografica e lasciando da soli Laca e Jenůfa in una landa ormai deserta. Libera dalle persone che li ha giudicati e dagli ambienti che li hanno condizionati, la giovane coppia può finalmente lasciarsi alle spalle il passato, dimenticando il dolore e i peccati commessi, danzando sotto una pioggia redentrice. Giudizio complessivamente positivo anche sugli altri interpreti dell’opera, in particolare per Gabriella Sborgi, la nonna Buryja, capostipite di quel ceppo maledetto che grava sul destino di tutti i personaggi, non ultimo il neonato ucciso: come una sorta di perno di tutto l’intreccio, la nonna ha il compito di raccogliere le preghiere di Jenůfa e di arginare la rabbia di Laca nonché di consolare la disperazione della nuora Kostelnička che considera una figlia. La Sborgi è un contralto dal timbro intenso ed incisivo, in grado di sorreggere – senza mai sovrastarle – le voci con cui nel corso dell’opera si misura. Particolarmente efficace la presenza scenica di Rychtář e Rychtářka e della loro figlia Karolka, nuova fidanzata di Števa, rispettivamente interpretati da Luca Gallo, Valeria Tornatore e Maria Hilmes, impreziosita nella scena del matrimonio dai costumi di Patrick Kinmonth. Unica nota dolente: il libretto sul programma di sala è in lingua italiana, mentre sarebbe stato forse più utile poter seguire il testo anche nella versione originale, dato che, come già detto, le inflessioni musicali della lingua ceca assumono in quest’opera un’importanza fondamentale. Repliche fino al 2 novembre. Foto Rosellina Garbo