Venezia, Teatro La Fenice
Orchestra Filarmonica del Teatro La Fenice
Direttore Eivind Gullberg Jensen
Violino Guy Braunstein
Richard Wagner: Vorspiel da “Die Meistersinger von Nürnberg”
Felix Mendelssohn Bartholdy: Concerto per violino e orchestra in mi minore, op. 64
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n. 4 in fa minore. op. 36
Venezia, 12 settembre 2016
È ripresa, alla grande, alla Fenice – dopo la pausa estiva – l’attività dell’Orchestra Filarmonica del Teatro veneziano con un concerto, dal programma vario ed impegnativo, che ha visto la partecipazione di due giovani interpreti davvero ragguardevoli: il maestro Eivind Gullberg Jensen e il violinista Guy Braunstein. Eccellente, anche questa volta, la performance della compagine orchestrale fenicea, confermatasi degna erede della grande civiltà strumentale di Venezia, a tutt’oggi – come nel passato più o meno lontano – uno dei maggiori centri, a livello internazionale, di diffusione della musica sinfonica, oltre che – fin dalla nascita del melodramma – del repertorio operistico. Alquanto estroverso nel gesto, il direttore norvegese ha attaccato con impeto il preludio dei Meistersinger – uno dei brani wagneriani più eseguiti nei concerti –, assecondato da un’orchestra, che si è fatta apprezzare per il suono coeso e perlaceo dei violini, le turgide, armoniose fanfare degli ottoni, i brillanti interventi all’unisono delle trombe –, oltre che per i raffinati dialoghi contrappuntistici dei legni. Forse una scelta di tempi, in generale, un po’ troppo spediti ha – a nostro avviso – attenuato gli slanci lirici di questa pagina, rigorosamente costruita in base ai Leitmotive ricorrenti in tutta l’opera: in particolare i temi di struggente lirismo che si riferiscono a Walther von Stolzing, il poeta del “nuovo”, sostento da Sahs, il più autorevole dei Meistersinger, che lo guida nella composizione della canzone – libera dalla regole tradizionali – con cui il giovane cantore, oltre alla vittoria nella gara canora, conquisterà la mano di Eva. Analogamente, il piglio alquanto deciso impresso da Gullberg Jensen non ha reso appieno i momenti di maestosa rievocazione delle glorie dei Meistersinger e dello stendardo della Corporazione, che sono volutamente caratterizzati da un tono vagamente, affettuosamente ampolloso, per poi fondersi nel finale con i temi lirici in un formidabile contrappunto orchestrale, a sancire la conciliazione tra vecchio e nuovo.
Passando al secondo titolo in programma, grande autorevolezza ha dimostrato Guy Braunstein nell’interpretazione del famosissimo Concerto per violino e orchestra in mi minore, op. 64 di Felix Mendelssohn Bartholdy, composto nel 1844 e dedicato al carissimo amico Ferdinand David, primo violino dell’Orchestra del Gewandhaus di Lipsia, che collaborò con il musicista amburghese nella stesura della parte solistica. Il violinista israeliano si è imposto per una tecnica brillantissima e una grande sensibilità interpretativa in questo pezzo, prediletto dai più grandi esecutori, dove il violino svolge un ruolo di assoluto rilievo sia per la bellezza dei temi che gli sono affidati – una bellezza ora prorompente, come si coglie in quello che apre ex abrupto il concerto senza la tradizionale introduzione orchestrale, ora languida, come nel tema lirico del secondo movimento –, sia per una raffinata scrittura musicale, in cui i passaggi virtuosistici, lungi dall’essere fini a se stessi, si integrano mirabilmente con la melodia. Irresistibile Braunstein nell’articolata cadenza che – inaspettatamente – è posta alla fine dello Sviluppo nel primo movimento, come negli sperticati virtuosismi dell’Allegro molto vivace, che chiude il concerto. Indimenticabile la nitidezza e la perfetta intonazione con cui il solista ha affrontato gli insidiosi sovracuti che rendono particolarmente ardua la sua parte. Se lo strumento solista primeggia in questo pezzo di notevole appeal sul pubblico, la scrittura orchestrale è tutt’altro che priva di raffinatezze, che caratterizzano in particolari alcuni interventi dei legni, eseguiti dagli strumentisti della Filarmonica, sfoggiando una magistrale tecnica del legato. I reiterati applausi, subito dopo l’esecuzione, sono stati premiati da due spumeggianti bis con musiche di Fritz Kreisler.
Se ci siamo permessi di avanzare qualche riserva rispetto alla concezione direttoriale sottesa all’esecuzione del primo titolo in programma, esprimiamo con decisione il nostro più vivo plauso all’interpretazione, offerta da Eivind Gullberg Jensen, della Sinfonia n. 4 in fa minore. op. 36 di Pëtr Il’ič Čajkovskij, un lavoro composto nel corso del 1877 – dopo la grave crisi esistenziale e sentimentale originata dal fallimento del matrimonio con Antonina Milyukova – e dedicato all’amica e mecenate Nadežda von Meck. Qui il direttore – sempre sorretto da un’orchestra sensibile e scattante – ha attinto ad un’amplissima tavolozza di colori, nonché ad una gamma altrettanto variegata sul piano ritmico, talché si può affermare che ogni frase, ogni battuta, per non dire ogni nota, si caratterizzava per una sua particolare sfumatura a livello dinamico ed agogico. Gullberg Jensen ha saputo esprimere con efficace gesto quel contenuto profondamente tragico di chiara matrice autobiografica, che ha la sua cifra distintiva nell’iniziale fanfara degli ottoni (una sorta di “Motivo del Destino”). Essa nel prosieguo risuona inesorabile a intervalli regolari nel corso del primo movimento, Andante sostenuto, e poi ancora nell’epilogo dell’ultimo, a conferire unità ad un’opera per altri versi decisamente variegata, di cui il direttore norvegese ha magistralmente saputo esprimere le contrastanti atmosfere psicologiche, aderendo ad una struttura formale complessa quanto originale. Determinante, anche in questo caso, l’eccellente prestazione dell’orchestra. Sensibili e stilisticamente ineccepibili gli archi e il clarinetto nell’esporre il cromatico primo tema del movimento iniziale – una melodia discendente, ritmicamente puntata e sincopata, carica di inquietudine, ad evocare la disperazione di fronte all’ineluttabilità del Destino – e, rispettivamente, il tema successivo, più sereno, in cui s’esprime un sogno d’evasione dalla realtà – così come i violini nel presentare un terzo tema, simile al secondo, la cui elaborazione, a mo’ di climax ascendente, sfocia nella cupa ripresa del Motivo del Destino che, dopo lo Sviluppo, ricompare con grande suggestione in chi ascolta.
Dopo la tensione drammatica che percorre il primo movimento, i movimenti centrali – entrambi dalla struttura ternaria – ci introducono in un’atmosfera più pacata. Nel secondo movimento, Andantino in modo di canzona, si è segnalato, per gusto e musicalità, l’oboe, cui è affidata, in apertura, una cantilena, che ha il sapore di una canzone popolare russa, mentre nella sezione centrale clarinetti e fagotti hanno trovato il giusto accento, introducendo il secondo tema danzante.
Nel terzo movimento, Scherzo – un saggio di bravura, volto a creare un “nuovo effetto strumentale” – l’espressione è dello stesso compositore –, si sono apprezzati il brio e la precisione degli archi, nel vivace pizzicato ostinato, e dei legni e poi degli ottoni, nel lirico Trio, per non dire delle spericolate evoluzioni finali dell’ottavino nella Coda, in cui si fonde il materiale tematico del movimento.
Tutta l’orchestra, nelle sue varie sezioni, ha brillato nel quarto movimento, Allegro con fuoco, che ha l’allegria di una festa popolare e si basa sulla reiterata contrapposizione – similmente a quanto avviene in un Rondò – tra il perentorio tema d’esordio, in cui archi e legni si cimentano in vorticose scale discendenti, e il secondo tema cantabile – desunto dalla canzone popolare russa “Nel campo s’ergeva la piccola betulla” –, introdotto da flauti, clarinetti e fagotti, finché non irrompe improvvisa e minacciosa la fanfara iniziale, per quanto venga successivamente rielaborata in una coda gioiosa, che conclude la sinfonia, aprendo forse un temporaneo barlume di speranza. Scroscianti applausi alla fine della serata.