Teatro dell’Opera di Roma – Stagione Lirica 2015/2016
“DIDO AND AENEAS”
Opera in tre atti ed un prologo su libretto di Nahum Tate tratto dal libro IV dell’Eneide di Virgilio.
Musica di Henry Purcell
Dido AURORE UGOLIN (canto) YAEL SCHNELL ( danza) MICHAL MUALEM ( danza)
Aeneas REUBEN WILLCOX (canto) VIRGIS PUODZIUNIAS (danza)
Seguito di Aeneas LUC DUMBERRY (canto) MANUEL ALFONSO PEREZ TORRES (danza)
Seconda donna CELINE RICCI (canto) MARIA MARTA COLUSI (danza)
Narratore CHARLOTTE ENGELKES (danza)
Maga FABRICE MANTEGNA (canto) JUAN KRUZ DIAZ DE GARAIO ESNAOLA (danza) XUAN CHI (danza)
Prima Strega/Marinaio SEBASTIAN LIPP (canto) TAKAKO SUZUKI (danza)
Seconda Strega/Spirito MICHAEL BENNET (canto) JIRI BARTOVANEC (danza)
Ascanius SATCHI RACHEL QUELITZ (danza)
Orchestra Akademie fur Alte Musik Berlin
Coro Vocalconsort Berlin
Direttore Christofer Moulds
Coreografia e Regia Sasha Waltz
Scene Thomas Scehnk e Sasha Waltz
Costumi Christine Birkle
Luci Thilo Reuther
Ricostruzione musicale Attilio Cremonesi
Produzione Sasha Waltz & Guest e Akademie fur Alte Musik Berlin in coproduzione con Staatsoper Unter den Linden Berlin, Gran Théatre de la Ville de Luxembourg e Opéra National de Montpellier con il sostegno di Hauptstadtkulturfonds e Land Berlin
Roma, 18 settembre 2016
Penultima opera della stagione in corso del Teatro dell’Opera di Roma questo Dido and Aeneas di Henry Purcell nell’eclettico allestimento di Sasha Waltz. Il titolo rappresenta probabilmente l’opera più eseguita in varie forme anche di di concerto del teatro inglese del diciassettesimo secolo anche se, per paradosso, probabilmente è la meno rappresentativa del tipo di spettacoli che a quel tempo venivano proposti al pubblico come il Masque, un genere precursore di quello che oggi forse chiameremmo spettacolo multimediale e che prevedeva la presenza di canto, musica, danza e recitazione. Essa infatti fu commissionata a Purcell per essere eseguita in una “Scuola di giovani gentildonne” e pertanto adotta un linguaggio scevro da virtuosismi, essenziale ed asciutto sia nel canto che nella musica, contenuto nell’organico vocale e strumentale e tale però da permettere all’autore di spingere la propria ricerca espressiva verso una più profonda resa musicale della parola. Come ricorda Giovanni Bietti nel suo bel saggio che viene presentato nel programma di sala “Dido è in effetti considerata da sempre come uno dei più perfetti esempi di prosodia inglese cantata mai realizzati”. Appare pertanto singolare ma, va aggiunto, anche interessante la scelta del teatro di proporre al pubblico un testo così fortemente legato alla musica ed alla parola in un allestimento curato da una danzatrice coreografa, viceversa incentrato sulla danza e sull’immagine nell’ipotesi di collocare questa lettura dell’opera nell’ambito del Masque sopra ricordato. Lo spettacolo andato in scena per la prima volta nel 2005 è stato visto in Italia in una sola occasione qualche anno fa ed è stato più volte riproposto con successo negli anni. La lunghezza della rappresentazione, senza intervalli, viene praticamente raddoppiata grazie al lavoro di ricostruzione musicale svolto da Attilio Cremonesi che inserisce brani sempre di Purcell ad integrazione della partitura, elabora un prologo probabilmente previsto nell’originale ma pare andato perduto e interpola brani danzati e recitati. Lo spettacolo si apre con la visione di una gigantesca vasca nell’idea di creare una sorta di meraviglia barocca nella quale gli interpreti si tuffano e volteggiano sinuosamente forse a voler dare un’immagine del viaggio compiuto da Enea per il mar Mediterraneo o del sarcofago che accoglierà Didone. In effetti i movimenti e le luci rimandano ai fregi dei sarcofagi dell’antichità classica ma per noi romani rievocano a tratti anche le tinte e le movenze dell’Aurora di Guido Reni del Casino Pallavicini Rospigliosi. Tutti i personaggi hanno un doppio danzante che agisce e sottolinea i loro sentimenti e con il quale spesso i cantanti sono chiamati ad interagire. Nella scelta di ibridare il linguaggio dell’opera con quello della danza Sasha Waltz fa muovere le masse sul palcoscenico in modo sempre vario, espressivo, con evidenti richiami alla pittura barocca. Anche la scelta indubbiamente piacevole di esibire dei nudi prevalentemente maschili peraltro molto discreti sembra inscriversi nella ricerca di una rivisitazione in chiave attuale di molti celebri quadri della pittura a soggetto mitologico dell’epoca. E così pure il collocare la vicenda in un tempo astratto e non definito sembra essere volta ad un volersi riappropriare del genere del masque rievocando sì il teatro barocco ma con gli stilemi di quello contemporaneo. Infine la scelta di far comparire alla vista del pubblico nel finale le strutture del palcoscenico a nudo sembra volerci suggerire che il tutto sia stata una finzione destinata a intrattenere suscitando stupore, meraviglia ed emozione ma non una rappresentazione del vero. A fronte di una parte visiva così preponderante, la musica, la parola e le loro ragioni passano in evidente secondo piano. Per esempio le extension della chioma che nel finale si disciolgono e si allungano fino ad avvolgere Didone in una sorta di sudario dopo un iniziale effetto di sorpresa alla fine risultano distraenti dall’ascolto. Difficile parlare della parte musicale in uno spettacolo così rigidamente concepito ed articolato in modo tale che nessuna delle varie componenti ad eccezione della danza e della coreografia sembri emergere. E così anche raccontare dei singoli interpreti, tutti probabilmente in assoluto corretti ma mediocri da un mero punto di vista vocale e tuttavia perfettamente integrati nella complessa macchina teatrale messa a punto dalla regista, con la eccezione della Belinda di Debora York che spicca per intensità e musicalità, e tutti funzionali alle necessità espressive dell’insieme. Significativo a questo proposito che Aurore Ugolin interprete del ruolo Didone si compiaccia di scrivere nel proprio curriculum di essersi specializzata nel ruolo nella produzione di Sasha Waltz. Nel complesso lo spettacolo è interessante da vedersi anche se con alcune riserve. Intanto la lunghezza di un’ora e quarantacinque minuti senza intervallo in luogo dei classici sessanta minuti scarsi risulta un po’ impegnativa per la continuità dell’attenzione del pubblico. Senza addentrarci nella storia delle modalità di fruizione di un’opera, crediamo che se gli autori hanno previsto una suddivisione in atti viene da pensare che probabilmente una ragione ci sarà stata e ci sembrerebbe prudente continuare a tenerne conto soprattutto se, con aggiunte ed imprestiti, se ne arriva quasi a raddoppiarne la lunghezza. Inoltre come già accennato in precedenza l’essenzialità della partitura, la musica e la ricerca dell’espressività della parola sembrano cedere un po’ troppo il passo alle esigenze della danza e della coreografia che sia pure con risultati piacevoli e interessanti fanno indubbiamente la parte del leone in un contesto in sostanza atipico. Infine, la grande quantità di citazioni, didascalismo e forse una sorta di routine di alto livello legata all’elevato numero di riprese ed al fatto che l’espressività dei singoli sia necessariamente imbrigliata nella costruzione teatrale approntata, sembrano a tratti sottrarre un po’ di immediatezza e di spontaneità al tutto. Alla fine comunque generosi applausi per tutti a giusto premio della fatica di una compagnia di buon livello ed evidentemente molto affiatata.