Rappresentato al Festival di Bregenz nel mese di luglio del 2016 a distanza di circa 150 anni dalla prima rappresentazione avvenuta al Teatro Carlo Felice di Genova, l’Amleto di Franco Faccio è stato riportato alla luce dal compositore e direttore d’orchestra americano Anthony Barrese che ne ha curato l’edizione critica. Vincitore di numerosi premi con le sue composizioni, Anthony Barrese è stato protagonista, in qualità di direttore, di importanti produzioni sia in America che in Europa (Turandot, Ascoli Piceno, 2008 e Opéra di Massy, 2008). Oggi lo abbiamo incontrato per parlarci dell’Amleto di Franco Faccio, opera che, uscita dal repertorio dopo il fiasco della ripresa scaligera del 1871, è ritornata sul palcoscenico grazie alla sua edizione critica.
Gentilissimo maestro Barrese, lei ha affermato che ha iniziato a lavorare all’edizione critica dell’Amleto di Faccio nel 2003. Può raccontarci qual è stata, se esiste, l’occasione che lo ha spinto ad occuparsi di questa partitura quasi del tutto dimenticata?
Non ricordo esattamente qual è stata l’occasione esatta, ma ricordo che stavo leggendo un libro su Verdi, e c’era una pagina dedicata a Boito e al suo primo libretto (non il suo primo libretto shakespeariano, ma proprio il primo in assoluto). Si trattava di un Amleto per il suo caro amico Franco Faccio. Amleto è una tragedia che mi ha sempre affascinato e così ho deciso di interessarmi immediatamente.
Sicuramente ha incontrato parecchie difficoltà nel reperire l’autografo dell’opera. Ci può raccontare come è riuscito a venirne in possesso?
All’inizio non ero interessato a reperire l’autografo. Volevo solo uno spartito per canto e pianoforte. Ho contattato il mio amico direttore d’orchestra milanese, Vito lo Re, che si è recato nella biblioteca dal Conservatorio G. Verdi di Milano e ha trovato dei brani stampati da Ricordi, più di un secolo fa. Mi ha mandato questi brani e mi ha detto che non era riuscito a trovare uno spartito completo. Infatti non esisteva né uno spartito, né una partitura stampata. Poi Ho contattato la mia carissima amica Cori Ellison che lavora alla New York City Opera e mi ha subito messo in contatto con Philip Gossett, il principale curatore delle edizioni critiche di Verdi e Rossini. Questi mi ha fatto conoscere Gabriele Dotto e a Maria Pia Ferraris della Ricordi che mi ha mandato un microfilm dell’autografo. Tutte queste operazioni sono durate più di un anno.
Una volta venuto in possesso dell’autografo, in quanto tempo ha trascritto la partitura?
Ho impiegato sei mesi per trascrivere tutte le note e fare un primo abbozzo manoscritto dell’autografo. In seguito ho impiegato circa quattro mesi per trascriverlo al computer. La redazione della riduzione per canto e pianoforte mi ha impegnato per sei mesi complessivi tra lavoro sulla carta e trascrizione al computer. Subito dopo mi sono dedicato alla correzione degli errori sia miei che di Faccio.
Quali problemi ha avuto nella redazione dell’edizione critica?
I tantissimi problemi furono dovuti soprattutto alla qualità del microfilm nel quale la partitura appariva alquanto sbiadita. A volte non riuscivo a vedere tutte e 5 le righe del pentagramma musicale. All’inizio ebbi anche delle difficoltà nel decifrare la scrittura del testo. Fortunatamente mi procurai un libretto stampato che mi aiutò a risolvere questo problema
Ci può raccontare come è riuscito a far rappresentare l’opera e quali emozioni ha provato alla prima?
Ho cercato per più di dieci anni di fare in modo che una compagnia s’interessasse alla rappresentazione di quest’opera, ma non c’è stato nessuno che abbia mostrato un vero interesse. La mia nomina a direttore artistico di Opera Southwest ad Albuquerque nel 2010 fu per me un’occasione. Lì era infatti una prassi piuttosto usuale accostare alla rappresentazione di un’opera conosciuta ed amata quella di un’altra opera sconosciuta. Nel 2012 abbiamo fatto l’Otello di Rossini che fu un gran successo. Dopo quella rappresentazione abbiamo deciso di fare l’Amleto. Le emozioni che ho provato alla prima esecuzione sono difficili descrivere. Pensavo al lavoro di preparazione musicale e scenografica che ci aveva impegnati per mesi… il tutto sembrava un sogno. Incominciai a realizzare quanto stava avvenendo solo quando ascoltai i primi accordi dell’orchestra la prima serata. Una grande emozione mi conquistava e nel mio animo dicevo: «Il sogno si sta realizzando… che meraviglia!»
Dopo la prima esecuzione nel 2014 ad Albuquerque, l’opera è stata rappresentata a Wilmington (Delaware) e al Festival di Bregenz con successo. Secondo lei l’opera si affermerà nel repertorio e sarà possibile vederla anche in Italia? C’è un progetto in atto a tal fine?
La rappresentazione di Bregenz è stata per me l’occasione di poter vedere per la prima volta l’opera dal vivo. Ad Albuquerque e Wilmington ero sul podio, dove, distratto da tante cose, non riuscivo a gustarmi totalmente il dramma. Ciò che mi ha colpito nella rappresentazione di Bregenz è stato il matrimonio perfetto tra musica e testo drammatico. Una gran parte del merito va certamente attribuito allo straordinario libretto di Boito, ma, quasi dall’inizio, sembra evidente il tentativo da parte di Faccio di creare qualcosa di nuovo dal punto di vista musicale. Sono convinto del fatto che è un’opera che può entrare nel repertorio, ma vediamo cosa accadrà in seguito. Sicuramente c’è un progetto di portarla in Italia, ma non adesso… per ora ho promesso di non dire di più.
Chi trascrive entra in contatto con l’universo musicale del compositore, in quanto deve stare attento ai dettagli della partitura. Quali sono, a suo giudizio, i punti di forza?
I punti di forza sono i legami con il mondo operistico italiano e la qualità dell’orchestrazione. Come ho detto, Faccio ha cercato di fare qualcosa di nuovo, ma alla fine ha mostrato di essere un compositore italiano radicato nella tradizione del melodramma italiano. Non riusciva a non essere italiano.
Era italiano nel modo di sentire istintivamente il dramma musicale. Come direttore d’orchestra e studioso della musica tedesca, ebbe un senso dell’orchestra molto raffinato; ciò è soprattutto evidente nella versione scaligera che, però, fu un fiasco nel 1871.
E quali i punti di debolezza?
All’inizio dell’opera secondo me Faccio ha cercato di fare un eccessivo sfoggio di novità; la prima scena risulta, così, un po’ troppo complicata. Se n’è reso conto lui stesso tanto da suggerire tagli piccoli e grandi. Alla prima di Albuquerque non abbiamo fatto i tagli grandi, ma alla fine siamo stati costretti ad ammettere dopo la produzione che sarebbe stato meglio farli. A Delaware abbiamo deciso di fare quasi tutti i tagli previsti per la prima scena ottenendo una maggiore concentrazione che certamente è stata molto utile alla fruizione del dramma.
C’è una vera innovazione, come era stata auspicata dagli Scapigliati?
In via del tutto preliminare devo affermare che ci sono notevoli differenze tra la versione genovese del 1865 e quella scaligera del 1871. Quella di Genova fu molto più sperimentale dal punto di vista drammaturgico. Faccio ha resistito alla tentazione di scrivere in un modo molto melodico. Ma dopo la prima genovese la maggior parte dei critici hanno osservato che nell’opera mancava la melodia. Così, quando ha revisionato l’opera per La Scala, si è avvalso di una scrittura melodica meglio delineata. Ha così ottenuto un risultato più tradizionale, che, però, è più confacente al dramma in musica.
E veniamo alla partitura. Nella partitura, a mio avviso, si vede spesso l’uso del declamato soprattutto nella parte di Amleto, mentre una scrittura di più intenso lirismo contraddistingue la parte di Ofelia. Quale tipo vocalità si evince dalla partitura?
Sicuramente. Come ho detto prima, nella versione genovese il declamato era maggiormente presente. Ma Amleto non canta mai in un stile virtuosistico con tante note e velocità sostenute. Il suo virtuosismo è nella forza della linea vocale. Faccio ha creato un tipo di proto-verismo con questo ruolo.
Da un punto di vista formale la cosiddetta “solita forma”, introdotta da Abramo Basevi[1] per descrivere la struttura del melodramma ottocentesco, appare abolita, ma l’opera presenta sostanzialmente una costruzione per numeri chiusi la cui organizzazione interna non segue più gli schemi tradizionali. È corretta questa mia impressione?
Per la maggior parte i numeri chiusi seguono gli schemi tradizionali. Non mancano, tuttavia, eccezioni notevoli. Per esempio il finale del secondo atto, nella parte iniziale, è molto simile a un finale concertato normale di un’opera italiana. Mi ricorda tanto il finale di Macbeth, con il baritono che canta prima, poi la sua sposa, e poi tutti quanti. Ma poi, dopoché tutti i personaggi hanno espresso i loro sentimenti, Faccio rompe la struttura e riprende da capo; Amleto, allora accusa il re con una certa aggressività e tutto il corteo appare preso da stupore. Poi c’è una piccola conversazione tra Amleto ed i suoi amici, ed il finale si conclude con Amleto solo sul palcoscenico che ride. All’orchestra è attribuito un vorticoso disegno discendente che anticipa il Finale di Pagliacci di Leoncavallo. Questo è un esempio tra tanti.
La partitura è disseminata di brani sinfonici, ma basta questo per affermare che ha una struttura sinfonica nel senso wagneriano del termine?
Direi che ha una struttura sinfonica wagneriana soprattutto se si considera il punto di vista di un compositore italiano. È importante ricordare che la prima opera di Wagner fatta in Italia fu il Lohengrin nel 1871. Faccio ebbe l’opportunità di ascoltare il Lohengrin in Germania, ma quest’opera non rappresenta il wagnerismo dell’Anello o del Tristano. Per la maggior parte, quello che gli italiani capivano di Wagner non fu tramite la conoscenza della sua musica, ma grazie alla lettura dei suoi scritti sulla musica spesso incomprensibili anche per noi oggi. La scelta di fare 8 preludi sinfonici e una grande marcia funebre certamente, tuttavia, non si poteva verificare senza l’influenza di Wagner. Come ogni aspetto dell’opera, Faccio ha trasformato questa influenza e l’ha italianizzata.
Ringraziamo Anthony Barrese per la sua disponibilità
[1] Abramo Basevi, nel suo saggio Studio sulle opere di Giuseppe Verdi (Tipografia Tofani, Firenze, 1859), definì solita forma la struttura interna dei singoli numeri. In riferimento al duetto tra Sparafucile e Rigoletto, a proposito del quale si legge (p. 191): «Oltreché si mostra con questo pezzo, che non manca l’effetto ancora quando altri si allontani dalla solita forma de’ duetti, cioè quella che vuole un un tempo d’attacco, l’adagio [cantabile], il tempo di mezzo, e la Cabaletta»