Primo ballerino al Teatro di San Carlo, Edmondo Tucci fa parte della ristretta cerchia di danzatori italiani ai quali GbOpera Maagzine ha assegnato il proprio “Oscar della Danza” 2016. Non è certo un danzatore alle prime armi e questo riconoscimento si profila come una sorta di medaglia al valore per il senso artistico che lo distingue come interprete, perché sa convincere con decisione il pubblico grazie a un intenso carisma scenico. Nella sua danza si fa vivo uno spirito moderno anche nel classico. Tucci si è trovato a vivere due epoche particolari del Teatro, potendosi permettere di commentare tanto il passato quanto un presente già proiettato nel futuro. Serio e distinto, discutiamo con lui del valore della danza come arte a volte troppo soggiogata dal business e della differenza nel modo di danzare e di fare coreografia, con un lucido sguardo diretto ai giovani.
Qual è la visione di un danzatore di esperienza che ha assistito ai mutamenti di diversi scenari al San Carlo? O meglio, quali sono le differenze di lavoro tra ieri e oggi?
Oggi purtroppo c’è molto meno tempo per allestire un balletto. Prima provavamo per mesi, ora invece è una corsa contro il tempo e la necessità di organizzare tutto in breve tempo non permette di maturare lo studio dei ruoli, soprattutto per i più giovani. Se prendiamo come esempio il nostro ultimo impegno, Romeo e Giulietta, abbiamo dovuto impararlo e studiarlo in poco meno di un mese. Il tempo fa maturare le cose e questo non incide positivamente sulla formazione artistica dei più giovani, che non hanno avuto la fortuna di ricevere le cure che prima si potevano ricevere in un tempo meglio organizzato.
Quali problemi possono incidere in maniera più forte sull’andamento di un corpo di ballo?
Senza dubbio la scelta delle Direzioni artistiche dovrebbe assecondare le specificità di ogni Compagnia e fare scelte non “di mercato”, quanto di innovazione, pur mantenendosi fedeli alla tradizione per un Teatro lirico come il San Carlo. Senza dubbio ci sono molti problemi di natura diversa e la situazione a Napoli è sensibilmente migliorata. Laddove altre realtà sono state soppresse o affidate a Società esterne al Teatro, mentre altre si trovano ad alto rischio, qui l’investimento nel rilancio del corpo di Ballo e la possibilità di una rigenerazione attraverso i giovani è un segnale importante. Ma non può essere il punto d’arrivo.
Cosa manca principalmente alle nuove generazioni di danzatori?
La possibilità di poter studiare per bene i ruoli con i grandi coreografi, l’approfondimento del senso artistico a causa delle scelte costrette dal sistema e la mancanza di una crescita attraverso il repertorio, perché essere giovani è uno stato, non un talento in sé. Senza un lavoro di questo genere si rischia di fermarsi all’atletismo vuoto.
Lei ha visto passare al San Carlo i grandi nomi della Danza del Novecento, con i quali ha avuto la possibilità di lavorare e di formarsi artisticamente. Nel suo modo di danzare si legge qualcosa di molto moderno. Cosa vuol dire “il moderno nel classico” a suo giudizio?
È la naturale evoluzione del linguaggio della danza. Non si può e non si deve creare una frattura troppo grande fra gli stili. Naturalmente il classico ha le sue regole da rispettare, ma il punto è stilistico. Come non ci si atteggia più in determinate pose, che magari restano solo nei balletti di repertorio più caratterizzanti, così le linee inevitabilmente subiscono delle evoluzioni (in particolare allungamenti) mutuati da altri linguaggi coreici. Io sento molto questa cosa, ad esempio.
Lei ha avuto la possibilità di avere un contratto a tempo indeterminato nel momento migliore della sua vita artistica. Si pente della scelta?
No. In vero la mia famiglia, proprio nel momento in cui stavo per spiccare il volo per altri lidi e mi arrivò il contratto di stabilità, fu il motivo per il quale accettai di rimanere a Napoli. Ma non mi pento perché sono soddisfatto della mia carriera e poi sono convinto che se vogliamo cambiare tutto ciò che non funziona dobbiamo restare e non andare via. Gli italiani si lamentano in continuazione, ma bisogna impegnarsi a migliorare le cose che abbiamo e che magari non funzionano come vorremmo, se è possibile farlo. Bisogna far crescere ciò che si ha.
In più occasioni sono stati presentate sue coreografie. Le piace questa veste? Qual è il compito del coreografo?
Nella coreografia trovo il giusto canale espressivo solo se ho qualcosa da dire. Non amo le commissioni, anche se spesso si devono accettare delle richieste. Ma questo non coincide sempre con la vena creativa e per un coreografo non è il massimo. Personalmente faccio coreografia solo per dar voce a un’esigenza personale: se ho qualcosa da dire, ben venga, altrimenti niente.
Cosa dovrebbe trasmettere la coreografia e cosa dovrebbe invece evitare?
I coreografi a volte si fossilizzano sul linguaggio “grammaticale” e non pensano che, nella pratica reale invece, sono sempre le grandi passioni ad arrivare in maniera diretta al pubblico. Non è tanto il modo in cui si esegue un passo a fare la differenza, ma quello che, attraverso la danza, si riesce a trasmettere. Le persone questo lo capiscono e lo apprezzano. Oggi si pensa forse un po’ troppo a ricercare novità che distolgono dall’essenza vera e più efficace della danza. L’amore, l’odio e tutte le grandi passioni ed emozioni che da secoli muovono l’umanità sono i moventi che colpiscono lo spettatore e bisognerebbe concentrarsi per lavorare su questo. Perché questo non fallisce mai.(foto Francesco Squeglia)
Ringarziamo Edmondo Tucci e, sulla scia delle sue riflessioni, ci proiettiamo sul futuro del San Carlo di Napoli. Un futuro che è già diventato presente nei piani di lavoro del neo-direttore Giuseppe Picone.