“Giulietta è nata nella mia mente una ventina circa di anni fa […]; un’opera che al contenuto di poesia aggiungeva le qualità di un richiamo, se non di sfida, che voleva in un clima di smarrimento indicare la via della salute, il ritorno alle nostre più pure forme del melodramma” (Bruno Cagnoli, Riccardo Zandonai, Società degli studi trentini di scienze storiche, Trento, 1978, p. 103).
Così lo stesso Zandonai ricordava in un articolo intitolato Zandonai dice, apparso su «L’Arena», il 1 agosto 1939, la prima volta in cui pensò di comporre un’opera ispirata al celebre dramma di Shakespeare e per il cui libretto si era rivolto a Giuseppe Adami, già autore del testo della Via della finestra, rappresentata per la prima volta il 27 luglio 1919 al Teatro Rossini di Pesaro. Come ricordato dallo stesso Adami in un articolo, Poeti alle prese coi musicisti, apparso il 18 marzo 1943 sul «Popolo d’Italia», la collaborazione tra i due durò pochissimo, dal momento che il librettista decise di rinunciare a favore di Arturo Rossato del quale tessé le lodi:
“Nella feconda vita d’autore entrò il nuovo poeta Arturo Rossato: smagliante ingegno, nutrito di vivissima fantasia, perfetto di istinto lirico, raro di sensibilità, lavoratore rapido, tutto quel che volete, ma un caratteraccio, povero indimenticabile Arturo, pieno di angoli e punte difficili a scansare e a smussare, sia pur mettendoci la più remissiva volontà.
Si era ideata insieme la struttura di Giulietta e Romeo con la concorde intenzione di seguire più la versione italiana che Guglielmo Shakespeare. Ma i leggendari amanti veronesi non riuscirono a legarci, con il loro esempio di fedeltà amorosa, per la vita e per la morte.
Così avvenne che al primo urto, abbandonai il campo. Perdetti Zandonai, ma ritrovai la pace” (Ivi, pp. 103-104).
Fu Rossato, quindi, a scrivere il libretto di Giulietta e Romeo, ma la collaborazione fra i due, che, iniziata nel 1919, era stata caratterizzata da un’intesa quasi perfetta soprattutto nella definizione della struttura dell’opera, subì un rallentamento a causa di una grave malattia che aveva colpito il compositore nel 1921 costringendolo ad una lunga e dolorosa degenza. Soltanto dopo l’estate del 1921, periodo nel quale Zandonai riuscì a riacquistare un po’ della salute perduta, poté essere ripresa la collaborazione, come è dimostrato da una lettera del 22 ottobre 1921, scritta con garbata e intelligente ironia da Rossato:
“Carissimo Zandonai,
Ti ò [sic] mandato, giorni sono, ottanta centesimi di poesia. Spero che l’avrai letta. C’era la ‘romanza’ (come la chiameremo sempre con mistero fra noi) c’era qualche verso di ricambio, come i copertoni delle automobili quando si va in viaggio, e c’era il finale. Io ci tengo di più alla ‘linea’ del finale. La prima edizione era un po’ disordinata. Quest’ultima, in linea letteraria e poetica, mi sembra migliore […] Per la ‘ romanza’ sei arbitro… è un pezzo che deve finire nei fonografi, nelle bande cittadine e nelle osterie domenicali dei paesi, e perciò anche se i versi non sono un capolavoro, non importa”. (Ivi, pp. 104-105)
Quel mese di ottobre del 1921 fu particolarmente fecondo per Zandonai come si evince dal fitto carteggio intercorso con il giornalista Nicola D’Atri, informato quasi quotidianamente sulle modalità e sui tempi con cui procedeva il lavoro. In una lettera del 22 ottobre si legge:
“Lavoro con foga e con vera gioia sulle ultime scene di Giulietta. Avrò presto il piacere ma anche il dolore, purtroppo, di aver finito”.
Così il giorno dopo:
“Ho trovato il finale di “Giulietta”, degno di tutta l’opera. Ne sono ancora tutto vibrante e penso a voi, che in questo momento mi siete l’anima più vicina, e vi dico il mio compiacimento e la mia gioia” (Ivi, p. 108).
Finalmente il 9 novembre il compositore poté annunciare:
“Evviva! ‘Giulietta’ è finita, se Dio vuole e – mi pare – finita bene. Dalla montagna sono tornato quasi subito per la mancanza assoluta di caccia; ma il tempo è stato splendido. Appena ritornato mi sono messo all’intermezzo che ho finito oggi di fissare! Non è lungo: 6 minuti di musica ma vi assicuro – e l’intuito di buon latino non m’inganna – che è quello che dev’essere”. (Ibid)
Alla fine del mese di gennaio del 1922 iniziarono le prove al Teatro Costanzi, come si apprende da un articolo (Le prime indiscrezioni su ‘Giulietta e Romeo’ di Zandonai al Teatro Costanzi, 1° febbraio) del critico musicale del «Giornale d’Italia» che si firmava con lo pseudonimo di Tristano:
“Sabato [28 gennaio], alle ore 17, nella gran sala di prova al pianoforte al Teatro Costanzi, il maestro Zandonai è da oltre un’ora seduto al pianoforte, circondato dagli interpreti ch’egli ha prescelto per la sua nuova opera Giulietta e Romeo, che Roma dovrà, verso il 10 di febbraio tenere a battesimo […]. Nella sala del Costanzi nessuno tenta parlare. Parla per tutti il pianoforte attraverso le mani animatrici di Zandonai, parlano all’autore gl’interpreti della sua nuova opera con gli accenti delle agili voci” (Ivi, p. 109)
La prima, che si ebbe il 14 febbraio 1922 al Teatro Costanzi di Roma sotto la direzione di Zandonai con Gilda Dalla Rizza (Giulietta), Michele Fleta (Romeo), Agnese Porter (Isabella), Carmelo Maugeri (Tebaldo), fu un vero e proprio trionfo che ebbe una vasta eco anche nei giornali dell’epoca. Sul «Corriere della sera» del 16 febbraio si legge, infatti:
“In Giulietta e Romeo la musicalità del maestro Zandonai s’è come sciolta e chiarificata; l’estro melodico vi si snoda dai ceppi di quella perenne sinfonia orchestrale, caratteristica delle sue opere, e si abbandona facile, caldo, appassionato al cantabile; e la sinfonia orchestrale, che tuttavia non abbandona mai il campo, si fa discreta, limpida, leggera, trasparente, pronta a riprendere dominio nelle più potenti espressioni del dramma” (Ivi, p. 115).
Dello stesso tono è la recensione apparsa il 15 febbraio su «Il Paese»:
“Arte nobilissima è quella che sente ed esprime nei suoi modi musicali Riccardo Zandonai. Severa nella forma che esclude ogni facilità volgare, elegante nel commento dell’orchestra, ricca e varia nell’impasto dei colori, questa Giulietta e Romeo manifesta lo spirito del maestro, la sua squisita sensibilità, la sua dottrina profonda” (Ibid.)
Molto più articolata è la recensione apparsa su «Il Mezzogiorno» il 15/16 febbraio a firma di Saverio Procida:
“Riccardo Zandonai ha sentito il dolore più che l’amore di Romeo e Giulietta. Intorno ai due amanti di Verona ha fatto luccicar le spade, stridere le fazioni livide di odio, pronte sempre all’eccidio, personificandone lo spirito implacabile in Tebaldo, il cugino Capuleto rappresentante di tutta la famiglia, assente… dal libretto di Rossato… si tutta la rissa diuturna e petulante, trionfa l’amore. Ma questa potenza ideale che si salva dall’incrocio dei ferri e degli odii, non si libera però dall’oppressura fosca che incombe sulle anime degli amanti e le tiene in angoscia […].
Ora la livida larva ha ossessionato la fantasia del musicista, fors’anco ne ha sedotta la natura sinfonica, col suo ricco materiale di colori, contrasti, empito descrittivo che sbuca dalle piazze, dai cortili, dalle taverne e dalle maschere della Verona medievale, ove un ballo e un eccidio, una canzone campagnola e un duello s’intrecciano nella medesima ora come il più naturale degli innesti… Ma Zandonai n’è stato sedotto. Non gli è riuscito d’isolare gli amanti […]. Con questo, non vogliamo negare ad un artista di così alto fastigio qual è lo Zandonai, la penetrazione del contenuto. Siamo, anzi, ammirati dell’equilibrio ch’egli ottiene nello sceverare dalla massa polifonica le voci del sentimento.
Lo Zandonai, come forma, non ha mutato lo stile di Francesca. Vi troviamo anzi molti echi dell’opera più eletta di canti e di atmosfera passionale. È più snella in Giulietta la dialogazione e men rattenuto l’incesso melodico. È più agile il gioco di pennello […]. Ma il gusto incomparabile dell’artista, le aristocratiche tinte dell’affresco, il disprezzo degli effetti bassi sempre più ci rendono caro questo compositore che sente sinfonicamente anche il gemito, magari a rischio di affogarlo in un mare di gemme”. (Ivi, pp. 115-116)
Atto primo
La scena si apre in una piazzetta di Verona sulla quale si affaccia, oltre a due osterie, frequentate rispettivamente dai Capuleti e dai Montecchi, il palazzo dei Capuleti dalle cui stanze provengono delle musiche la cui scrittura di carattere modale tradisce le caratteristiche delle danze dell’epoca in cui è ambientata la tragedia che si è consumata alla fine del Cinquecento. Un cavaliere, che subito dopo si scoprirà essere Tebaldo, apre con un gesto violento, rappresentato perfettamente dall’orchestra, la porta dell’osteria dove si trovano i suoi famigli con i quali medita di scontrarsi con i Montecchi; questi cantano una canzonaccia da taverna (Diavolo che ho d’introno, la putta mia che fa?), realizzata da Zandonai con una scrittura semplice che denuncia il suo carattere popolaresco. La tensione tra le due fazioni, resa da Zandonai con un’armonia cromatica particolarmente carica,ta è palpabile edesplode a causa di un insulto fatto da Sansone e Gregorio, due famigli dei Capuleti, nei confronti di una donna prontamente difesa dai Montecchi. La rissa è rappresentata efficacemente con uno “scontro” tra i due cori trattati con la raffinata tecnica contrappuntistica del doppio coro che rappresentano le due fazioni in lotta e separate dall’intervento di un uomo mascherato che, entrando in scena con tutti i crismi del tenore eroico (Branco di servi!… Giù le spade!) (Es.), cerca di mettere pace. Tebaldo, al contrario, continua a rinfocolare la rissa chiedendo ripetutamente all’uomo di togliersi la maschera. La rissa sta per riprendere quando il rullo del tamburo annuncia l’arrivo, con il suo passo cadenzato, della scolta che mette tutti in fuga per evitare di essere presi. Si sentono di nuovo i canti e le musiche provenienti dalla casa dei Capuleti, mentre il banditore dichiara: Genti alle case! Serrate le porte! Chi il sangue cittadino spargerà avrà la morte! Al passaggio della scolta anche la natura sembra rasserenarsi con una musica dolcissima che rappresenta perfettamente il paesaggio lunare, mentre da un balcone del palazzo dei Capuleti si affaccia Giulietta che scorge il suo Romeo, l’uomo mascherato di prima, che fino a quel momento aveva celato la sua identità e subito dopo si arrampica in modo da raggiungere la sua amata sul balcone. I due, in un duetto dai toni intensi e lirici nel quale la musica esprime perfettamente il testo pienamente simbolista con le sue analogie e le sue personificazioni come nell’espressione l’alba che infiora di rose il dì, si scambiano le loro promesse d’amore in un climax che ha il suo punto culminante in un appassionato bacio, dopo il quale si sente ancora la musica della festa in casa dei Capuleti, al cui termine i due amanti riprendono a scambiarsi promesse d’amore sempre in una scrittura di intenso lirismo. Su invito di Giulietta, Romeo va via, anche perché l’alba è vicina, mentre l’atto si conclude con un coretto di donne che si sente in lontananza su un’orchestrazione estremamente raffinata che fa uso della celesta e che rappresenta l’alba con la città che si sveglia grazie al suono delle campane.
Atto secondo
Il secondo atto si apre sul cortile del palazzo dei Capuleti dove Giulietta insieme con la sua fante Isabella viene raggiunta da uno sciame di gaie fanciulle che invitano la ragazza a giocare al torchio, un gioco che rivelerebbe quale sviluppo ha un amore. È una pagina musicalmente gaia e spensierata che rappresenta perfettamente la giovane età delle ragazze. Un netto cambiamento di atmosfera, segnalato da inquieti e frementi disegni cromatici, annuncia l’arrivo di Tebaldo che manda via le altre ragazze per parlare con Giulietta la quale fa cenno ad Isabella di far attendere Romeo. Proprio il giovane costituisce l’argomento iniziale del drammatico colloquio tra Tebaldo, che accusa la ragazza di accoglierlo in casa, e Giulietta che risponde con la fierezza che appartiene al suo rango. L’uomo non riesce a librarsi in un vero e proprio canto spiegato nemmeno quando, rievocando la fanciullezza, vorrebbe destare nell’animo della ragazza un sentimento di amicizia. Alla fine con una certa cattiveria le dice che il padre si trovava dal Conte di Lodrone per combinare il suo matrimonio con quest’uomo di alto lignaggio, mentre si sente un coro interno. Il colloquio è interrotto da Gregorio che bussa alla porta; questi è insanguinato, in quanto reduce da uno scontro con la fazione dei Montecchi nel quale i Capuleti ritengono di aver ucciso Romeo. Il giovane, che, invece, si trovava ancora nascosto, viene chiamato da Isabella, mentre si ode il tema dell’organetto apparso all’inizio dell’atto. Subito dopo i due sono l’uno nelle braccia dell’altra e Giulietta manifesta in un canto appassionato il suo desiderio di fuggire con Romeo (Son vostra sposa) che ha sposato in segreto; i due sono interrotti, però, dall’arrivo di Tebaldo che apre violentemente la porta alla cui guardia c’era Isabella e che sfida immediatamente Romeo aggiungendo che, venuto a conoscenza dei loro convegni notturni, griderà per tutta la città che Giulietta è una svergognata su una musica drammatica intrisa di cromatismi. Di fronte a quest’ultima provocazione di Tebaldo Romeo sguaina la spada e lo uccide in duello tra lo sgomento di Giulietta e Isabella che chiama soccorso. Nella confusione che si genera, Giulietta trascina Romeo verso la porta segreta, mentre il sopraggiungere della Scolta fa calmare gli altri; Giulietta vorrebbe morire, ma cede subito al suggerimento di Isabella di bere la pozione capace di simulare una morte apparente. La ragazza, in uno slancio di gioia che Zandonai esprime attraverso un intenso lirismo, pregusta allora la sua fuga con Romeo, affermando che ritenuta morta da tutti sarà viva solo per lui.
Atto terzo
Nell’atto terzo la scena si sposta a Mantova, dove in una rustica piazza gli uomini e le donne sono impegnati nelle quotidiane faccende (coro: Oh! su, su, fa presto). In un’osteria si trova Romeo che attende notizie di Giulietta da un suo famiglio il quale, però, non si è presentato; proprio in quel momento giunge da Verona un Cantatore il quale con un atteggiamento comico, reso da una musica ironica, catalizza l’attenzione dei presenti. Questi racconta gli ultimi fatti avvenuti a Verona e soprattutto della morte di Giulietta suscitando la reazione rabbiosa di Romeo il quale si avventa su di lui e lo interroga sui particolari. L’uomo racconta che, in viaggio per Verona dove ci doveva essere il matrimonio tra Giulietta e il Conte di Lodrone, aveva incontrato altri giullari che gli hanno raccontato della morte della fanciulla. Romeo piomba nella più cupa disperazione rappresentata in orchestra da un’armonia cromatica particolarmente drammatica (Giulietta mia!); la notizia è confermata anche dal famiglio e Romeo decide di partire immediatamente. La sua folle corsa nella tempesta è descritta da un Intermezzo direttamente collegato alla scena precedente che si concludeva con un accordo di triade aumentata rimasta in sospeso. Un basso ostinato sembra rappresentare il serrato scalpitio degli zoccoli dei cavalli, mentre un coro interno, in un’atmosfera tipicamente decadente, rende manifesta la disperazione di Romeo, cantando Giulietta mia. Il famiglio accompagna Romeo nella cappella dei Capuleti dove, distesa sull’arca, giace inerte Giulietta. Congedato il famiglio, Romeo contempla la fanciulla in un passo in cui il dolore si esprime attraverso un acceso lirismo e subito dopo decide di bere il veleno. Proprio in quel momento Giulietta si sveglia suscitando la gioia di Romeo con il quale dà vita a un duetto di acceso lirismo, ma la triste realtà prende il sopravvento. Romeo ha un mancamento e rivela alla ragazza di aver bevuto un veleno proprio mentre l’alba, della quale tesse le lodi un coro interno, incomincia ad irrorare di luce il volto dei due infelici amanti. Giulietta muore stroncata dal dolore sul corpo di Romeo.