Adriatic Arena, Pesaro, 37° Rossini Opera Festival
“LA DONNA DEL LAGO”
Melodramma in due atti di Andrea Leone Tottola
Musica di Gioachino Rossini
Giacomo V-Uberto JUAN DIEGO FLOREZ
Duglas MARKO MIMICA
Rodrigo MICHAEL SPYRES
Elena SALOME JICA
Malcom VARDUHI ABRAHAMYAN
Albina RUTH INIESTA
Serano/Bertram FRANCISCO BRITO
Elena anziana GIUSI MERLI
Malcom anziano ALESSANDRO BALDINOTTI
Orchestra e coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del coro Andrea Faidutti
Regia Damiano Michieletto
Scene Paolo Fantin
Progetto luci Alessandro Carletti
Costumi Klaus Bruns
Pesaro, 14 agosto 2016
La donna del lago è una delle opere più frequentate dal Rossini Opera Festival, quest’anno alla sua quinta presenza in cartellone. Nel 1819 Rossini, benché avesse solo ventisette anni di età, si trovava nella piena maturità artistica, al termine di quella fase di lavoro forsennato che gli aveva permesso di sfornare tre, anche quattro opere all’anno, ventisette in undici anni di attività, prima che, dal 1820 in avanti, il ritmo si diradasse, fino al prematuro ‘pensionamento’ nel 1829. A questo punto del percorso si situa La donna del lago, opera in genere considerata avanzata ‘ideologicamente’, rispetto all’epoca e rispetto al resto della produzione rossiniana: il soggetto, tratto da un poema dello stesso Walter Scott, fonte di tanti spunti melodrammatici tra cui la Lucia di Lammermoor, appare percorso già da fremiti e inquietudini protoromantiche e stürmer, per l’intrigo amoroso che si fonde con i contrasti politici, per le atmosfere brumose dell’ambientazione lacustre scozzese, soprattutto per un diffuso senso di struggimento, di amore inappagato, di passione compressa. Ma La donna del lago è opera coronata da un canonico lieto fine: i ribelli ottengono il perdono e gli innamorati si avviano a convolare a nozze; da dove viene dunque, in cosa consiste la Sehnsucht che circola nell’opera e si insinua nei cuori dei protagonisti? Proprio a questo senso sottile e misterioso di malessere, mai espresso, soltanto alluso da certi fremiti, certe sospensioni, certi abbandoni della musica di Rossini, si propone di dar corpo ed evidenza questa messa in scena dovuta a Damiano Michieletto, uno dei registi italiani oggi più affermati, più volte presente al ROF. Per far questo, Michieletto per l’ennesima volta racchiude l’opera in una cornice: la ‘vita reale’ è mostrata all’inizio e alla fine dello spettacolo, tutto quello che sta in mezzo, ovvero tutto lo svolgimento dell’opera, è una rêverie, un sogno ad occhi aperti di una mente non sappiamo quanto lucida e quanto indebolita dalla vecchiaia. In un salottino borghese – ci troviamo all’incirca negli anni ’40 – c’è una coppia di anziani coniugi, Elena e Malcom ormai al tramonto della loro esistenza; sul tavolo c’è la foto incorniciata di re Giacomo ritratto da giovane, ormai probabilmente passato a miglior vita, tanto che Elena ne adorna affettuosamente l’immagine di fiori freschi; il marito ha un impeto di gelosia e rovescia il vaso. La poca acqua versata si moltiplica, gronda dal tavolino ed Elena in una sorta di trance la raccoglie avidamente nel cavo delle mani, la beve, si bagna il viso, i capelli, la veste; quest’accesso di nostalgia del passato e della vita sul lago dà inizio all’azione, ovverosia al sogno. Il salotto scompare, ci troviamo dentro la casa dei Duglas completamente in rovina, circondata dai canneti che alludono alla presenza del lago, inizia l’Opera e il personaggio di Elena anziana si aggira, assiste ai fatti che accadono a se stessa da giovane, interagisce come una presenza silenziosa e invisibile, segue l’azione perfettamente conscia di ciò che sta per succedere, come se avesse rivissuto mille volte nella sua memoria quegli eventi e ora si accingesse a farlo ancora, sempre coinvolta emotivamente allo stesso modo. Anche Malcom anziano compare a tratti in scena, fremendo di disappunto ogni volta che ad Elena si avvicinano il re Giacomo o Rodrigo, i suoi rivali. Alla fine dell’Opera ricompare il salotto, Malcom, interpretato dal bravo attore Alessandro Baldinotti, sembra pacificato, forse aver ripercorso quei fatti lontani lo ha rassicurato, forse riesce ad accettare; l’amore o la vecchiaia hanno spento la gelosia. Il concetto è espresso in maniera chiara, fin troppo didascalica: tra Elena e Uberto-Giacomo c’è stato qualcosa, forse lei ha corrisposto per un momento all’amore del re, forse c’è stato persino di più: una fugace unione fisica? Il ricordo di quell’incontro continua a suscitare teneri ricordi in lei e dolore nel marito.È una lettura legittima, la musica incoraggia a pensare che i casti accenti scambiati tra Elena e Uberto facciano leggere in trasparenza una tenerezza venata di passione; il modo in cui questa idea è svolta lascia in più punti perplessi. Intanto perché per una volta si potrebbe pensare di affidare alla regia il compito di comunicare o far intuire tutte le ambiguità, i sottintesi, le intenzioni inespresse, restando dentro la vicenda, semplicemente tramite la recitazione, i movimenti dei personaggi, il trucco, i costumi, senza ricorrere sistematicamente alla ‘spiegazione’, al meccanismo della storia dentro la storia, del personaggio che dal di fuori rivive, sogna o immagina ciò che va in scena. Poi bisogna dire che le due presenze silenziose ingombrano e anche parecchio, spesso distraendo. Gran parte delle azioni che compiono sono di significato piuttosto oscuro o, al contrario, talmente evidente da sfiorare la banalità; lei in particolare, una bravissima e indomita Giusi Merli, praticamente sempre presente in scena, fa cose bizzarre: si corica accanto ad Elena giovane, le acconcia i capelli, si sdraia bocconi sul suo abito da sposa, si immerge integralmente nel lago continuando la recita tutta gocciolante… Perché?
Visivamente però la scena di Paolo Fantin è bellissima, tutto è curato minuziosamente, in un accordo di forme e colori, legni, tessuti, vegetazione di grande misura ed equilibrio, con un modo di rappresentare la rovina, la decadenza materiale che immediatamente introduce all’atmosfera di prostrazione e di sacrificio. Di grande impatto e funzionalità sono le luci di Alessandro Carletti nel suggerire atmosfere, sottolineando talvolta con grande veemenza certi particolari momenti. I costumi di Klaus Bruns sono piuttosto atemporali – l’azione dovrebbe essere stata trasportata intorno alla fine dell’800 – e sembra vogliano sottolineare con la generale cupezza dei colori degli abiti maschili la brutalità delle fazioni in guerra; si contrappongono a questi i toni chiari e le forme aggraziate del costume di Elena e la lucida marsina di seta azzurra del re Giacomo. Venendo al cast è d’obbligo segnalare, nello scontro tra Rodrigo di Dhu e Giacomo V-Uberto, l’incontro tra due grandissimi protagonisti: Michael Spyres e Juan Diego Florez, che esemplificano, in maniera oggi senza possibili paragoni, le due vocalità tenorili dell’opera seria rossiniana. Spyres impersona in Rodrigo il personaggio altero, tracotante, violento, affidato al baritenore, Florez l’amoroso gentile, nobile e senza macchia affidato alla voce chiara e lucente del re Giacomo sotto le mentite spoglie di Uberto di Snowdon, tenore contraltino di grazia. Michael Spyres sino dal suo ingresso impressiona per l’ampiezza e il volume veramente imponente, unito alla selvaggia imponenza scenica, del suo registro centrale e per la facilità e sonorità della discesa alle note gravi, proprie del registro baritonale; ma desta ammirazione anche la facilità e la foga con la quale attinge i vertici del pentagramma con note acute e sopracute molto più sottili e chiare, emesse in suono misto, nondimeno lucenti e quasi sempre penetranti. Il settore centrale presenta qualche granulosità, non è del tutto levigato, il che espressivamente non turba la raffigurazione di un personaggio tanto fiero quanto iracondo; del resto è quasi inevitabile che una vocalità così estrema presenti nel medium i suoni più laboriosi, se non deboli. Tuttavia risulta magnifico l’impeto spericolato, al quale la padronanza delle agilità più rapide, anche di sbalzo, conferisce completezza. Juan Diego Florez offre una raffigurazione ormai classica di un personaggio affrontato in tante occasioni e di conseguenza rifinito in tutti i suoi aspetti. Con venti anni di carriera sulle spalle lo strumento di Florez, al netto di una nasalità un pochino invadente, è compatto, omogeneo e luminoso; il registro centrale ha acquistato colore e spessore, il registro acuto è sempre timbrato e limpido; probabilmente la salita non è più così facile come un decennio fa, qualche acuto estremo denuncia un minimo di spinta, ma sono cambiamenti fisiologici di poco conto in una voce così sana da consentirgli di affrontare ad altissimo livello un ruolo lungo, impervio, nel complesso piuttosto pauroso quale quello di Giacomo V; in più sembra oggi aumentata la capacità e la propensione al canto sfumato, all’uso di piani e pianissimi, mentre eccellenti, da vero specialista, continuano ad essere le agilità. La sua aria “O fiamma soave” scatena giustamente l’entusiasmo del pubblico. Tra due antagonisti di tale spessore il Malcom di Varduhi Abrahamyan non sfigura affatto e non era facile impresa, dal momento che la giovane cantante armena possiede un strumento di mezzosoprano che dà il meglio in zona medio alta. Tuttavia l’ottima emissione unita al timbro pregevole, dotato di buon volume, le consente di percorrere con morbidezza tutta la sua estensione e di venire a capo con onore della scrittura del suo personaggio. Evitando di aprire e di spingere, mantiene il suono dolce e omogeneo, sempre corposo e presente grazie alla efficace proiezione. Il fisico imponente a la statura la aiutano a portare in scena il personaggio maschile di giovane amoroso al quale presta accenti caldi e appassionati, con una partecipazione emotiva che si mantiene sempre entro una linea nobile. Il pubblico la capisce e la gratifica con ovazioni pari a quelle riservate ai due ‘divi’. Salome Jicia è dotata di un buono strumento, sufficientemente sonoro, canta tutte le sue note senza problemi, ha una bella presenza scenica; probabilmente le manca un po’ di sicurezza e di confidenza con il ruolo, denuncia un certo nervosismo che si riflette anche sull’emissione, affetta qua e là da qualche suono querulo o vetroso. Non è facile dire se questa raffigurazione di un’Elena costantemente inquieta o ‘sulle spine’ sia una scelta interpretativa, magari concordata all’interno di una visione generale che tende a sottolineare gli aspetti protoromantici dell’Opera, oppure sia semplicemente dovuta ad un po’ di emozione che trattiene e occulta la personalità della cantante. Marko Mimica, Duglas, appare artisticamente e vocalmente cresciuto rispetto alla prestazione dello scorso anno come Podestà nella Gazza ladra; disegna un Duglas fiero e sufficientemente autorevole grazie alla proprietà dell’azione scenica e al timbro sonoro che appare più scurito che naturalmente scuro, e questo forse è il nodo che rimane da sciogliere nella sua vocalità. Ruth Iniesta, Albina, usa con proprietà una voce lirica, di peso medio e di bel timbro; Francisco Brito, impegnato in due ruoli, Serano e Bertram, ha un bel timbro, pieno e brunito, non valorizzato dall’emissione nasale. L’Orchestra e il coro del Teatro comunale di Bologna offrono una prova ottima, un suono lucido, compatto, direi all’occorrenza commosso, sotto la direzione di Michele Mariotti, trionfatore della serata a fianco del “terzetto dei pretendenti”. Il giovane direttore dimostra una comprensione e una confidenza con la partitura di tutto rispetto, che coniuga la cura del dettaglio alla continuità di tono. Come detto in precedenza si ha l’impressione che la lettura generale tenda a sottolineare – o a ipotizzare? – anche nella scrittura musicale aspetti anticipatori di un clima romantico certamente presenti nel soggetto; in ogni caso siamo in presenza di una interpretazione molto interessante, dalla tenuta costante con momenti di notevole bellezza: cito tra i tanti il Duetto Uberto-Elena del I Atto, il coro del clan “Qual rapido torrente” con il successivo ingresso di Rodrigo, condotto con piglio energico ma non bandistico, l’accompagnamento morbidissimo ed elastico dell’aria “O fiamma soave”, tutta la II scena del II Atto fino alla sfida a duello tra Uberto e Rodrigo. Il pubblico che riempiva ogni poltrona dell’Adriatic Arena ha riservato applausi e ovazioni lunghe e convinte a tutti i protagonisti e al direttore, esplodendo di giubilo alle uscite di Juan Diego Florez. Foto Amati Bacciardi