Bassano del Grappa, Teatro Castello “Tito Gobbi”, OperaEstate 2016
“Jérôme Bosch: Le Jardin des délices”
Coreografia Marie Chouinard
Musiche originali Louis Dufort
Danzatori Sébastien Cossette-Masse, Paige Culley, Valeria Galluccio, Leon Kupferschmid, Morgane Le Tiec, Clementine Schindler, Scott McCabe, Sacha Ouellette-Deguire, Carol Prieur, Megan Walbaum
Prima nazionale
Realizzato in coproduzione con Jheronimus Bosch 500 Foundation
Bassano del Grappa, 14 agosto 2016
Una teatralizzazione danzata in rapporto dialettico con l’opera somma di Hieronymus Bosch è ciò che lo spettatore si aspettava e che ha avuto. Come, osservando il famoso trittico al Prado, in principio l’occhio raccoglie l’insieme, quindi scende sul particolare scorrendo sulle figure: i gruppi narranti; così i danzatori opalescenti si palesano seguendo linee parallele a chi osserva, rimanendo visivamente bidimensionali, quindi si uniscono per comporre le narrazioni che quasi siamo indotti a ricercare nel dipinto, sullo sfondo, cioè a confrontare perché proiettate nei tondi posti ai lati del palco.Veniamo introdotti alla performance de “Il Giardino delle delizie” dall’apertura dei pannelli laterali del grande dipinto che, chiusi, sono le parti uguali di una sfera riempita di acqua, terra e cielo: il globo terrestre. Definiamolo viaggio nell’allegoria del mondo, ricco di richiami simbolici non ancora del tutto decifrati, in cui qualcuno ha visto per la prima volta l’uomo dipinto dall’interno, com’è veramente: un po’ succube della carne (lussuria), tuttavia acquiescente nel consegnare la propria anima a creature demoniache immaginifiche. Un essere che sembra arbitro del proprio destino, quando coglie la fragola afrodisiaca (qui e là nel dipinto) ma giustamente remissivo, complice e solidale l’un l’altro nel comune e ineluttabile destino, che non interessa solo chi è peccaminoso perché cade in tentazione e soddisfa quegli istinti amorosi che non possiamo affatto dire essere naturale disegno divino per il mantenimento della specie. Nel trittico di Bosch, da sinistra a destra, l’arco della vita diventa un vortice sinuoso che va dal concepimento, in un luogo tutto luce, purezza e cinguettare di uccellini (locus amoenus), alla morte avvolta da fiamme, tenebre e suoni macabri (locus terribilis). Nel mezzo c’è l’esistenza (locus voluptatis) nella coscienza della sua fugacità: fra tutti, i due amanti racchiusi nella diafana sfera piena di crepe, per cui «La felicità è come un vetro che presto si infrange» (antico proverbio fiammingo). Tutto sembra compiuto quando invece il nostro sguardo risale verso l’alto, tornando al primo pannello, dove si alza un volo di rondini che simboleggia la resurrezione. Quello che permea da questa “storia” è l’infinita umanità, che ha portato a definire Bosch un moralista (lo si accosta molto bene a Dante in questo) per esserevolutamente didascalico e dottrinale, quindi eretico e forse scomodo per una Chiesa, sul finire del XV secolo, “a caccia di streghe” (riforma luterana). È infatti di umanità che parla, in un’intervista per Opera Estate,Valeria Galluccio, unica danzatrice italiana della compagnia di Marie Chouinard, riferendosi al rispetto quasi ossequioso che la neo direttrice della Biennale Danza ha per i suoi ballerini. Con loro approccia con il colloquio clinico: ascolto e osservazione insieme, per cogliere da essi quell’emozione nel gesto che la conduce alla creazione dei movimenti scenici. Lei «crea in base a ciò che esce da noi danzatori improvvisando, e sceglie qualcosa che le interessa e la emoziona». Ora sappiamo meglio che la vena creativa della Chouinard scorre tra gusto intellettuale e reazione emotiva, perciò crediamo che proprio questa occasione di transcodificare il famoso dipinto del pittore fiammingo le andava a genio sin dapprincipio. La coreografa canadese, ammette la Galluccio, assegna ai suoi danzatori le performance sulla base della situazione emotiva che stanno vivendo: ecco perché non vediamo delle interpretazioni ma delle rappresentazioni. È bello riscontrarlo nello spettacolo a cui si è assistito in prima nazionale a Bassano: quel partire da una scena del dipinto, che alle prove è stata vissuta fino al punto da donare a Marie quelle emozioni che poi essa imprime nella livrea estetica dei movimenti coreografici. Poi, comunque si nota tutta la maestria e l’esperienza di chi sa riempire i vuoti dello stage donando equilibrio alle composizioni. Tutto questo sentimento emotivo i dieci danzatori lo fanno percepire, molto forte, nel finale quando in controluce le loro silhouette arrivano vicinissime a noi fino a bordo stage perché non ci deve essere nessuna barriera tra loro e il pubblico. Le emozioni devono circolare. Perciò Il giardino delle delizie di Marie Chouinard è anch’esso un viaggio suddiviso in tre tappe (atti), che parte dal pannello centrale e termina con il primo, in cui le musiche originali di Louis Dufort accompagnano i bei balletti sincronizzati dei danzatori; le voci gregoriane sincopate concordano con le reiterate pose uguali e perpetue e i suoni monotoni fanno da contrasto alle “delizie” tramutandole in “sevizie”. Infatti, il secondo atto apre con un pauroso “assolo voce” della Galluccio che in vero è una performance tra lei e il tecnico del suono, in sincrono con la rotazione delle immagini che vediamo scorrere nei tondi (sullo sfondo il dipinto è sostituito da un monocolore grigio-rosso), fino ad arrivare all’urlo satanico sull’immagine del demone supremo, impersonato da un essere blu dalla testa di uccello che fagocita i dannati interi così come li espelle dentro a una fossa. I danzatori danno il meglio si sé impersonando sul palco ognuno la propria danza macabra, vero momento di spettacolo tra l’ironico circense e il rituale satanico. Qui la Chouinard ha saputo sfruttare il meglio dal suo corpo di ballo; qui si è palesata tutta la sua intelligenza nel saper calibrare come in Bosch sarcasmo e fatuità; qui è riconoscibile l’intellettuale “coscientemente istintivo”: un ossimoro per descrivere chi sa esprimersi nel confine tra creatività e dottrina. Nel terzo atto tutto si calma e si riappacifica. Occhi ci guardano osservare Dio (uomo-donna) dare vita a Eva (donna-uomo), mentre ritornano i canti gregoriani sincopati e le figure si scompongono e ricompongono all’infinito: la vita. Alla fine si rimane contenti sia stato scongiurato il pericolo che venisse rappresentato il trittico come un catalogo di coreografie sulle scene folli e ironiche di un maestro visionario, colpito da quel fuoco di Sant’Antonio (il fuoco sacro dell’arte), che la storia vuole sia stato individuato come un morbo dovuto alla Claviceps purpurea (ergot), un fungo che colpisce i cereali quali la segale, quindi il pane fatto con essa. Nel tardo medioevo veniva curato con la mandragola che leniva sì le sofferenze ma procurava forti allucinazioni: quelle narrate nel trittico (poco diegetico) con forte approccio sincronico e diacronico insieme nel mettere in comunicazione spaziale la vita di quel tempo con quella che fu in Paradiso e quella che sarà all’Inferno.