Magnano, Festival Musica Antica, XXXI Stagione
Boreas Quartett Bremen
Flauti dolci Jin-Ju Baek, Julia Fritz, Luise Manske, Elisabeth Champollion, Han Tol
Recitante Alexander Tol
John Taverner: In nomine
Christopher Tye: In nomine Reporte – In nomine Rounde – In nomine seldom seen – In nomine My death bedde – In nomine I come – In nomine Re la Re – O lux beata – Amavit eum Dominum – In nomine a 4 – Rubum quem – In nomine Rahcel’s weeping – In nomine Weepe no more – In nomine Crye
Magnano (Biella), 6 agosto 2016
A poche centinaia di metri dalla Comunità monastica di Bose, ancora più nascosta dai boschi della collina biellese, la Chiesa romanica di San Secondo è da molti anni il luogo centrale del Festival Musica Antica. Non solo concerti, ma anche corsi di strumenti antichi, coro, musicologia e organologia, con la direzione artistica di Bernard Brauchli, fondatore della rassegna nel 1986, didatta ed esperto esecutore alla tastiera: clavicordo, piano da tavola, fortepiano, clavicembalo, organo, insomma ogni forma di Klavier, sono i supporti con cui da molti anni egli esplora il repertorio internazionale più desueto e originale, affiancandolo al catalogo più conosciuto dei maestri del Barocco. A Magnano sono stati ospiti nel corso di numerose stagioni Gustav Leonhardt, George Kiss, Christopher Hogwood, per non citare che alcuni tastieristi e organisti molto devoti allo studio e alla riscoperta delle partiture antiche. Anche questa volta l’offerta è molto originale, ma senza tastiere; il Boreas Quartett di Bremen offre infatti un programma interamente letterario, dedicato a Shakespeare, con musiche di Christopher Tye (circa 1505-1573) eseguite da cinque flauti dolci delle più svariate fogge e dimensioni. Le pagine di letteratura inglese d’età rinascimentale sono recitate con schietta semplicità e cura nella versione originale dal giovane Alexander Tol. Suo padre, il serafico Han Tol, anch’egli esecutore e didatta (a Bremen e a Bloomington, Indiana) dirige le quattro giovani flautiste, in un meraviglioso concerto di fiati, che veramente permette di apprezzare la musica antica come dinamica di respiri e di melodie. Ogni brano, sempre di breve durata, è una piccola gemma, un intarsio di timbri, poiché lo strumento è in pratica sempre lo stesso (sebbene di dimensioni molto differenti, dal flautino di pochi centimetri che ogni scolaretto imparava a suonare a un gigantesco antenato del fagotto, alto due metri, dalle risonanze robuste come quelle di una canna d’organo), ma declinato nelle infinite potenzialità sonore che l’aria soffiata dentro un legno cavo può produrre. Anche la struttura resta sempre ancorata al cantus firmus: un flauto enuncia una melodia gregoriana in note lunghe, mentre gli altri strumenti infiorettano e contrappuntano, riprendono e modulano; il dialogo, dunque, risulta non cessa di essere vivacissimo, e permette di immaginare felicemente uno sviluppo narrativo – o almeno un parallelo – della musica. Ecco perché mentre l’ensemble porge i vari pezzi, la voce recitante di Tol junior attraversa la piccola chiesa, declamando pagine da Come vi piace, Amleto, i sonetti 43, 55, 71, 138; e oltre a Shakespeare anche Samuel Pepys, con una pagina di diario del periodo 1667-1668 in cui confessa di essere stato stregato da un concerto di flauti al King’s House («wind music», nel testo, ossia musica che soffia come il vento di Borea), o Marlowe e il suo Faust, o un Anonimo popolare che dà voce a un chiassoso imbonitore di mercato: il modo apparentemente più spensierato per concludere un percorso di storie d’amore, lamenti ed esplosioni di gioia. L’archetipo musicale del repertorio di Tye ha un’origine precisa: da una messa polifonica di Taverner è stato tratto il brano In nomine, sulle cui inesauribili variazioni Tye costruisce appunto le proprie composizioni. Questo è il motivo della doppia titolazione di quasi tutti i pezzi: In nomine, a ricordo del motivo originale, che il Boreas Quartett esegue in apertura del concerto, senza uscire dalla piccola sagrestia di San Secondo, come per ispirare il pubblico a cogliere una fonte lontana, sottratta al suo contesto liturgico; e poi un secondo titolo, profano e quotidiano, che parla del pianto di Rahcel (forse un’amata del compositore?), di morte, di avvento e del mistero del proprio nome (che meraviglia, quindi, quando la voce sussurra la domanda di Romeo e Giulietta, «Che cosa c’è in un nome? Quella che chiamiamo rosa, / pur con un altro nome, avrebbe lo stesso dolce profumo» …). Il pubblico è incantato dal connubio di musica e poesia, consacrate come due sorelle proprio dalla tradizione marinista, e apprezza la sonorità d’insieme dei cinque fiati, tersa e policroma, così come l’intonazione, integra e solida come una roccia. Sgorga dunque quale delizia notturna il fuori programma conclusivo, che abbandona l’epoca di Tye per raggiungere il Settecento francese: un allegro da un concerto di Joseph Bodin de Boismortier; ovviamente, per cinque flauti.