Verona, 94° Festival Areniano 2016
“IL TROVATORE”
Dramma in quattro parti
Libretto di Salvadore Cammarano dal dramma El trovador di Antonio García Gutiérrez
Musica di Giuseppe Verdi
Il conte di luna ARTUR RUCINSKI
Leonora HUI HE
Azucena VIOLETA URMANA
Manrico MARCO BERTI
Ferrando SERGEY ARTAMONOV
Ines ELENA BORIN
Ruiz ANTONELLO CERON
Un vecchio zingaro VICTOR GARCIA SIERRA
Un messo CRISTIANO OLIVIERI
Orchestra e Coro dell’Arena di Verona
Direttore Daniel Oren
Maestro del Coro Vito Lombardi
Regia e scene Franco Zeffirelli
Costumi Raimonda Gaetani
Coreografia El Camborio ripresa da Lucia Real
Verona, 6 Agosto 2016
Pubblico purtroppo lontano dal tutto esaurito per una rappresentazione complessivamente ben riuscita. A farla da padroni senza dubbio Artur Rucinski nei panni del Conte di Luna e l’Azucena di Violeta Urmana, entrambi in ottima forma. Note dolenti arrivano invece dalla coppia Hui He – Marco Berti, la cui performance è stata inficiata da manifesti problemi tecnici. Pregevole la prestazione di Sergey Artamonov (Ferrando), che unisce all’indubbia capacità tecnica uno studio attento del colore, riuscendo a catalizzare l’attenzione del pubblico con un intenso Di due figli vivea padre beato e senza manierismi nella scansione dell’apparentemente innocuo Abbietta zingara. Prova eccellente per il Coro, preparato come sempre dal Maestro Vito Lombardi: emozionante il coro delle incudini, anche grazie alla maestosità delle scenografie, già in diverse occasioni recensite dalla nostra testata, ma in merito alle quali ci sembra opportuno spendere ancora qualche parola: non solo, infatti, Franco Zeffirelli è riuscito nuovamente a sfruttare con efficacia il complesso e insidioso spazio areniano, ma sembra aver colto – e lo dimostra il successo riscontrato negli anni da questo allestimento – l’aspetto granguignolesco dell’opera, lasciandolo emergere nelle due grandi sculture duellanti ai lati del palco, oltre che nel già citato coro delle incudini – in un’atmosfera che non può non richiamare la sempre zeffirelliana Carmen. Ben risponde alle esigenze di spettacolarità dell’anfiteatro veronese la scena della quasi-monacazione di Leonora, che si apre in un’esplosione di luci e ori facendo scattare un immediato applauso a scena aperta. Un tripudio di colori in perfetto contrasto con il macabro soggetto dell’opera, forse la più manifestamente “popolare” della trilogia verdiana: la vecchia zingara demente intorno alla quale si muovono gli eventi è senza alcun dubbio uno dei personaggi più complessi e controversi del panorama verdiano e chi sembra averlo capito molto bene è proprio la sua interprete, Violeta Urmana, Azucena ormai ben più che affermata e in grado di dare un taglio personale alla vera protagonista dell’opera. La pasta vocale è davvero notevole, come anche il volume e la facilità in acuto: il registro di petto non mostra cedimenti e le risoluzioni adottate nei passaggi non risultano mai dozzinali. Nel complesso, una performance all’altezza delle migliori aspettative, anche dal punto di vista scenico: Violeta Urmana ci fa sentire le chiome drizzarsi ancor per la passione con cui racconta l’antefatto della trama (in un superbo Condotta ell’era in ceppi) al figlio Manrico, un Marco Berti purtroppo non altrettanto entusiasmante. Concordiamo tutti sulla difficoltà di cominciare proprio con Deserto sulla terra, tra le aperture più micidiali della storia dell’opera: Berti resta tra le vittime, optando per un fraseggio sempre sopra le righe, con palesi difficoltà di intonazione e accenti tonici in molti casi fin troppo marcati. Come in altre occasioni, la prestazione di Berti migliora in corso d’opera, per arrivare a un Di quella pira tutto sommato funzionale: l’emissione risulta in ogni caso costantemente aggressiva e spinta, influendo com’è naturale sulla bellezza del fraseggio e sulla soavità della linea melodica verdiana. Ma l’amaro in bocca lo lascia anche la performance di Hui He, probabilmente fuori ruolo (Leonora è ben altra cosa rispetto ad Aida); in evidente difficoltà nel registro acuto, particolarmente nella gestione delle mezzevocie e pianissimi, il soprano cinese riesce comunque a mantenere la concentrazione con l’estrema professionalità cui ci ha abituati: se Tacea la notte placida non riesce a cogliere il favore del pubblico – che anzi la contesta in maniera oltremodo irrispettosa – D’amor sull’ali rosee ha invece tutt’altro spessore, risultando assai più precisa ed efficace. Molto bene il Conte di Luna di Artur Rucinski, artista tra i più attesi di questa stagione areniana: Il balen del suo sorriso è assai convincente, particolarmente per le intelligenti scelte dinamiche dell’artista, assecondate da un Daniel Oren nella sua forma migliore. Rucinski si mostra più che all’altezza del ruolo, lasciando passare in secondo piano qualche rara difficoltà nell’emissione. La recitazione è intensa, anche consi’derando la generale immobilità registica – dovuta, presumiamo, all’esiguità di prove. A questo proposito spiace notare che, a fronte dell’ottima prestazione del corpo di ballo, la massa di coro e figurante risulti più imponente che sfrenata: i movimenti sono pochi e spesso frutto di qualche iniziativa individuale, piuttosto che di un’idea più ampia e coerente. Ma certamente gli aggiustamenti “gitani” arriveranno negli spettacoli successivi. Chi si agitava senza sosta e con il più grande entusiasmo era invece Daniel Oren, che realizza una performance musicale davvero eccellente, trascinando orchestra e cantanti con la sua verve e il suo eccezionale carisma. Le dinamiche sono curatissime, i tempi non mettono mai in difficoltà i cantanti e gli attacchi sono chiari e precisi. Completavano efficacemente il cast Elena Borin (Ines), Antonello Ceron (Ruiz), Victor Garcia Sierra (un vecchio zingaro) e Cristiano Olivieri (un messo). Foto Ennevi per Fondazione Arena di Verona