Venezia, Teatro La Fenice, Stagione Lirica e Balletto 2015-2016
“MIRANDOLINA”
opera comica in tre atti H 346
Libretto e musica Bohuslav Martinů dalla commedia La locandiera di Carlo Goldoni
Mirandolina, locandiera SILVIA FRIGATO
Ortensia, comica GIULIA DELLA PERUTA
Deianira, comica LAURA VERRECCHIA
Fabrizio, cameriere di locanda LEONARDO CORTELLAZZI
Servitore del cavaliere CHRISTIAN COLLIA
Il conte d’Albafiorita MARCELLO NARDIS
Il cavaliere di Ripafratta OMAR MONTANARI
Il marchese di Forlimpopoli BRUNO TADDIA
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore John Axelrod
Regia Gianmaria Aliverta
Scene Massimo Checchetto
Costumi Carlos Tieppo
Light designer Fabio Barettin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice nell’ambito di Estate Fenice 2016
Venezia, 3 luglio 2016
È sbarcata per la prima volta in laguna Mirandolina – quindicesimo titolo della Stagione Lirica e Balletto 2015-2016 della Fondazione Teatro La Fenice –, opera comica in tre atti, tredicesimo e penultimo lavoro per il teatro di Bohuslav Martinů su libretto prodotto in italiano dallo stesso compositore ceco, che lo trasse dalla Locandiera di Carlo Goldoni, la commedia più celebre e amata dell’autore veneziano, che ha ispirato, in ogni tempo, opere liriche (basti citare quelle di Antonio Salieri e di Giovanni Simone Mayr) e film, per non parlare delle varie edizioni televisive della commedia (strepitosa quella con Carla Gravina e Pino Micol per la regia di Giancarlo Cobelli). La trasposizione di Martinů nasce a metà del ventesimo secolo: la sua composizione risale al 1953, anno in cui si presentò al musicista ceco un’occasione propizia: la borsa di studio conferitagli dalla Fondazione Guggenheim.
Come abbiamo detto, Martinů provvide di persona a condensare la commedia goldoniana, avvalendosi peraltro della collaborazione di Antonio Aniante, un insigne letterato siciliano conosciuto a Parigi, che a quel tempo si trovava a Nizza in qualità di attaché culturale presso il Consolato d’Italia. Ne derivò una riduzione alquanto fedele all’originale, a parte poche battute aggiunte e alcune ripetizioni di parole-chiave, che conferiscono al testo la fluidità necessaria alla traduzione in musica, oltre a qualche inevitabile erroruccio (l’italiano di Martinů lasciava un po’ a desiderare … ). Se il libretto ricalca da vicino il testo originale goldoniano – pur con sostanziosi tagli, che riducono le parti degli altri personaggi per dare pieno risalto alla protagonista –, la musica non ha praticamente nulla di settecentesco, né tantomeno di italiano. Tali aspetti si limitano a ben poche tracce, ravvisabili quasi solo nella parte della protagonista, oltre che nel festoso Saltarello a piena orchestra, tocco di color locale italiano ispirato alla Quarta sinfonia di Mendelssohn. La melodia è in gran parte assente, lasciando spazio a un diffuso declamato drammatico – un fraseggio irregolare costruito in base a figure ritmiche mutevoli e frammentate, che, insieme a sequenze armoniche tipicamente boeme, rivelano una cifra stilistica decisamente slava – o addirittura a squarci di dialogo parlato che, come avviene nel Singspiel, rompono il flusso vocale e strumentale.
In linea con le caratteristiche della musica, dalla scrittura tipicamente novecentesca, si è rivelata l’impostazione registica di Gianmaria Aliverta, che giustamente ha evitato ogni riferimento all’epoca goldoniana, se non altro per la semplice ragione che ha inteso dare alla vicenda una valenza universale, attuale e non circoscritta al Settecento. Dunque per una volta appare ampiamente giustificato il ricorso ad un allestimento di “colore” contemporaneo, in cui la locanda diventa una moderna struttura alberghiera, mentre la vicenda si svolge principalmente fra la zona relax – con tanto di solarium, sauna e massaggi per i clienti –, la camera o meglio la stanza da bagno del Cavaliere – ove si svolge il fatidico brindisi col vino di Borgogna –, e la lavanderia dell’albergo. Indovinate sono le scene di Massimo Checchetto, che variano con souplesse e sicuro effetto, grazie al ricorso a strutture girevoli, al pari dei costumi ideati da Carlos Tieppo, che vanno dai classici accappatoi bianchi ad abiti talora volutamente pacchiani, con irresistibile conseguente comicità. Forse era eccessivamente esplicita la mise con cui si presenta per la prima volta sulla scena Mirandolina, troppo esplicitamente concepita per darle un’aria da seduttrice incallita; il che non è proprio nelle corde del personaggio creato da Goldoni-Martinů, che giunge ad irretire il Cavaliere solo per difendere la dignità delle donne. Intimamente legato alla situazione scenica l’uso delle luci da parte di Fabio Barettin: rosse (ovviamente) nei momenti “caldi” della “seduzione”. Ragguardevole il Cast, costituito – come si addice ad un’opera basata prevalentemente su un declamato, ritmicamente variegato, ma con pochi spunti melodici – da cantanti-attori. Silvia Frigato, nel ruolo del titolo, ha saputo dar voce e gesto scenico ad uno dei personaggi più riusciti, tra quelli creati dal genio goldoniano: il soprano, specialista nel repertorio barocco, grazie ad una voce ben controllata, dal timbro chiaro ed omogeneo, nonché ad una spigliata presenza scenica, ha affrontato in modo convincente il proprio ruolo, rendendo appieno il “carattere” del personaggio, che non è più la servetta scaltra della tradizione, ma già una donna perfettamente consapevole della propria dignità, per non dire convinta della propria superiorità di genere. Analogamente il Cavaliere offerto da Omar Montanari, baritono dalla voce gradevolmente timbrata, ha efficacemente espresso la presunta durezza di carattere di un nobile, la cui esibita misoginia cela, in realtà, la paura di confrontarsi con “l’altra metà del cielo”, così come la sua mutazione psicologica, determinata dalle arti seduttive della locandiera, che lo costringe a confessarle il suo amore, per poi rifiutarlo, provocando la sua sgangherata reazione. Ben caratterizzato anche il Fabrizio di Leonardo Cortellazzi, un tenore leggero dotato di squillo, che ci ha regalato un personaggio che si dibatte tra accessi di gelosia, sentimenti di amorosa devozione per Mirandolina e manifestazioni di insofferenza per i nobili, mostrandosi a suo agio in una parte che si spinge abbastanza spesso nella zona acuta. Irresistibile la coppia Conte-Marchese, gli eterni spasimanti: quanto al primo, il tenore Marcello Nardis, anche lui efficacissimo nel gesto e nel fraseggio, ha saputo divertire il pubblico, dando vita, con modi che ricordavano il primo Abatantuono, al personaggio dello spaccone, che crede di poter compare tutto con il denaro; mentre il baritono Bruno Taddia ha delineato con analoga efficacia un Marchese di Forlimpopoli giustamente ossessivo e velleitario nell’ostentazione dei propri incliti natali. Hanno centrato il rispettivo personaggio anche le due “comiche” – il soprano Giulia Dalla Peruta (Ortensia) e il mezzosoprano Laura Verrecchia (Dejanira) –, nonché il tenore Cristian Collia nei panni dell’affannato Servitore del Cavaliere. Quanto al Maestro Axelrod, ospite assiduo quanto graditissimo del Teatro La Fenice, egli ha pienamente confermato la sua autorevolezza, la sua sensibilità, la sua capacità di coordinare perfettamente l’orchestra – peraltro in stato di grazia – e i cantanti, anche di fronte ad una partitura dall’orchestrazione certamente raffinata, ma forse anche a tratti ridondante. Grande successo per tutti. Foto Michele Crosera