Opera di Firenze, stagione estiva 2016: “Il barbiere di Siviglia”

Cortile di Palazzo Pitti – Opera di Firenze Stagione estiva 2016
“IL BARBIERE DI SIVIGLIA”
Commedia in due atti di Cesare Sterbini
Musica di Gioacchino Rossini
Il Conte d’Almaviva FRANCESCO MARSIGLIA
Don Bartolo FILIPPO FONTANA
Rosina PAOLA GARDINA
Figaro JULIAN KIM
Don Basilio GABRIELE SAGONA
Berta FRANCESCA LONGARI
Fiorello WILLIAM CORRÒ
Un ufficiale VITO LUCIANO ROBERTI
Orchestra Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Alessandro D’Agostini
Maestro del Coro Lorenzo Fratini
Regia Damiano Michieletto
Costumi Carla Teti 
Firenze, 29 giugno 2016   
La stagione estiva dell’Opera di Firenze prosegue con un altro titolo di grande richiamo, se possibile ancor più popolare dell’Elisir d’amore d’apertura: Il Barbiere di Siviglia. Per portare nel cortile di Palazzo Pitti questo celebre capolavoro, è stato scelto un allestimento nato a Firenze alcuni anni fa per l’Accademia del Maggio, che ha girato numerosi teatri e porta la firma di Damiano Michieletto.
È una regia che si basa su un’idea non proprio nuova, anzi direi un po’ consunta dall’uso: c’è una situazione reale che viene mostrata all’inizio e alla fine della rappresentazione e che racchiude l’opera come una cornice; la vicenda vera e propria invece si svolge in una dimensione irreale, onirica, come proiezione, sogno o fantasticheria di un personaggio esterno o interno alla storia.  Sullo stesso meccanismo si basava l’ultima Giovanna d’Arco data alla Scala o, andando poco più indietro nel tempo, il famoso Trovatore al Museo, andato in scena a Salisburgo nel 2014; su questo stesso meccanismo si basa la Gazza Ladra, sempre di Michieletto, nata e ripresa al ROF; sono pochi esempi, ma se ne potrebbero fare a decine. Nel nostro caso lo spettacolo inizia con un viaggio in treno, annunciato dall’altoparlante proprio come alla stazione: “Attenzione, il treno espresso numero 393 da Firenze diretto a Siviglia è in partenza al binario cinque”; le sedie presenti in scena vengono composte da protagonisti e figuranti prima a suggerire una sala d’aspetto, poi uno scompartimento ferroviario e i temi della Sinfonia ispirano e animano l’azione dei viaggiatori, dai piccoli sobbalzi a tempo fino ad una caotica e comica zuffa; si arriva a Siviglia e i personaggi “entrano” nell’opera. Stessa cosa succede nel finale: annuncio all’altoparlante, si sale in treno e si torna a Firenze, ovvero nella realtà. Tutto ciò consente di non rappresentare realisticamente, ma semplicemente di evocare, di alludere ai luoghi, agli oggetti, alle azioni, perché tutto accade nella fantasia, quindi il palazzo non c’è, lo si immagina; Figaro strimpella un ombrello, si immagina che sia una chitarra; Rosina risponde alla serenata di Lindoro da una scala da imbianchino, si immagina che si affacci a un balcone, e così via. Non ci sono scene, non c’è fondale, l’azione si avvale solo di pochi oggetti: alcune sedie, degli ombrelli, la scala, la poltrona e gli attrezzi del Barbiere, palloni bianchi e poco altro.I costumi di Carla Teti non hanno alcun riferimento né con l’epoca né con i ruoli sociali dei personaggi. La coppia di innamorati è caratterizzata dal rosso, un frac cremisi per lui, un elegante vestito da giorno leggermente più scuro per lei; fogge e colori bizzarri, tra il circo e la Commedia dell’Arte con un forte richiamo zoomorfo per il terzetto degli altri protagonisti: marsina, gilet, pantaloni di colori vivacissimi, orecchie e baffi da volpe per Figaro, toni del bianco, con gilet dorato e trucco del viso da bulldog per Don Bartolo, frac verde con una sola lunghissima coda e trucco verde per un Don Basilio decisamente rettile. La simbologia è evidente: uno è furbo, l’altro custodisce Rosina come un cane da guardia, l’altro ancora è viscido come un serpente. Solo Berta fa eccezione: è cameriera e ne indossa il classico abito nero con cuffia e grembiulino bianco; ma anche lei riserva una sorpresa, la piccante biancheria intima rosso fuoco, che mostrerà, colta da pruriti senili, spogliandosi durante la sua aria. La regia, svincolata quasi del tutto dalla descrittività, non si svolge in maniera unitaria, con un filo conduttore che cuce tutto e conduce da un fatto all’altro in maniera conseguente, ma si scompone in singoli gesti, gag comiche, piccole coreografie, controscene, mossettine, incursioni in palcoscenico. La maggior parte di queste trovate è divertente, tutte sono ben eseguite, qualcuna ha una certa forza visiva – come la bottega di Figaro, che prende vita, disegnata da due writers con le bombolette su un telo bianco, nello stesso momento in cui il barbiere la descrive: “…quattro parrucche nella vetrina, sopra un cartello pomata fina, mostra in azzurro alla moderna…” – qualcun’altra è più debole, ma la sensazione che si ha è che siano nel complesso architettate e messe lì per riempire qualcosa che altrimenti sarebbe vuoto; la sensazione di un vuoto scenico che diventa vuoto drammaturgico e che la generica piacevolezza di qualche episodio non può risolvere. Sull’altro piatto della bilancia c’è l’eleganza e la freschezza visiva di un allestimento così minimal, lodevolmente snello anche dal punto di vista dei costi.
Sul versante musicale le cose procedono in direzione opposta e non c’è proprio da lamentarsene: senza alcuna velleità di offrire qualcosa di nuovo e sensazionale, tutto procede con coerenza, con scelte dei tempi intelligenti, bellissimi colori, ottima coesione, tenuta serrata anche nei momenti più concitati in cui la concertazione si fa ardua, accompagnamento al canto flessibile e attento alle esigenze dei singoli solisti. E’ un Barbiere tradizionale, anche nei tagli, non aggiornatissimo, che nel complesso ha il suo punto di forza nella comunicativa e non  nel rigore filologico, ma che si può definire di ‘routine aurea’ solo riconoscendo la grande altezza del livello esecutivo medio cui l’Orchestra e il Coro del Maggio Musicale Fiorentino hanno abituato il loro pubblico; così Alessandro D’Agostini ottiene una Sinfonia lieve, brillante, senza usare tempi eccessivamente convulsi, un finale d’atto magnifico per vis comica e coesione tra orchestra, coro e solisti, dall’ingresso di Almaviva travestito da soldato al concertato conclusivo. Nel secondo atto si segnalano, tra le altre cose, l’ottimo accompagnamento al canto nell’aria “Il vecchiotto cerca moglie”, un temporale davvero notevole per la trasparenza e la leggibilità delle parti e per l’ampiezza dinamica data da un perfetto dosaggio dei piani sonori, un terzetto “Ah qual colpo inaspettato” ottimamente eseguito da orchestra e cantanti.
Venendo al cast vocale bisogna segnalare tra i migliori il mezzosoprano Paola Gardina, che ha dato vita ad una Rosina decisamente convincente; ha una voce di medio peso, dal timbro ombreggiato e caldo, particolarmente a suo agio nel settore centrale; ha un buon approccio alle agilità, è l’unica che varia significativamente il suo da capo nell’aria “Una voce poco fa” eseguita in maniera pregevole, eccettuato qualche acuto che, probabilmente cogliendola a voce fredda, vibra in maniera un poco incontrollata; ha un’ottima presenza scenica, delinea con felicità una Rosina frizzante e decisa, “spiritosa” e “genialotta” come conviene. Il suo innamorato è il tenore Francesco Marsiglia, di voce chiara e leggera, ma penetrante, che corre senza problemi anche in uno spazio dall’acustica non proprio eccezionale. Ha un bel timbro e un modo di porgere aggraziato ed elegante; non è uno specialista dell’agilità rossiniana, l’affronta dignitosamente, con il valido aiuto del direttore attentissimo a non metterlo in difficoltà, ma con una certa tendenza all’aspirazione – le famose agilità ha-ha-ha, ormai fuori corso – ed evitando del tutto di misurarsi con il rondò finale – altra scelta che lo avvicina agli Almaviva di diversi decenni fa. Filippo Fontana è un Bartolo efficace, è un attore elegante, sa essere comico senza valicare mai il limite della misura, ha un sillabato rapidissimo nitido e scandito, fraseggia ed accenta con gusto; il suo strumento, piuttosto chiaro e delicato, sembra messo a disagio dall’acustica del luogo aperto, che lo porta talvolta a forzare, danneggiando lo smalto. Gabriele Sagona ha il physique du rôle perfetto per questo Basilio-rettile, entra nella parte con disinvoltura e proprietà; non ha un volume eccezionale, ma ha la proiezione adeguata per far tuonare in maniera soddisfacente il suo “colpo di cannone”. Il baritono coreano Julian Kim ha la gestualità, il fisico scattante, lo humour e la ‘faccia da schiaffi’ di un Figaro giovane e simpatico, furbo e bonario. Ha una pronuncia italiana quasi perfetta, che gli consente di essere espressivo e spigliato nel recitativo, l’agilità può essere ulteriormente migliorata. Ha una voce di timbro brillante, non eccessivamente scuro, ma sonora ed estesa; i sol naturali della sua cavatina sono squillanti e ben proiettati. Francesca Longari dà pieno risalto scenico e vocale ad una Berta insolitamente audace; nonostante la giovane età padroneggia senza difficoltà uno strumento vocale gradevole e morbido, e non le manca certo la verve. Il Fiorello di William Corrò, nei suoi brevi interventi dimostra di saper cantare la sua parte con voce a fuoco nel forte come nel piano. Come accennato in precedenza, gli interventi del Coro, per scelta registica non presente in scena, ma schierato al lato destro dell’Orchestra, sono ottimi per compattezza, bellezza di suono e nitidezza di articolazione. Il titolo rossiniano più celebre ha riempito quasi del tutto il cortile di Palazzo Pitti di un pubblico composto in larga maggioranza da turisti stranieri, che hanno lungamente e calorosamente applaudito tutti, gratificando con ovazioni particolarmente sonore Julian Kim e Paola Gardina. Foto Simone Donati & Pietro Paolini