Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“I DUE FOSCARI”
Tragedia lirica in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave
Musica Giuseppe Verdi
Francesco Foscari PLÁCIDO DOMINGO
Jacopo Foscari MICHAEL FABIANO
Lucrezia Contarini ANGELA MEADE
Jacopo Loredano ROBERTO TAGLIAVINI
Barbarigo MIKELDI ATXALANDABASO
Pisana SUSANA CORDÓN
Membro del Consiglio dei Dieci MIGUEL BORRALLO
Servo del Doge FRANCISCO CRESPO
Coro y Orquesta Titulares del Teatro Real
Direttore Pablo Heras-Casado
Maestro del Coro Andrés Máspero
Madrid, 18 luglio 2016
All’interno di un teatro lirico l’esecuzione di un’opera in forma di concerto può avere ragioni differenti: valorizzare una partitura rara e difficilmente rappresentabile con scene e costumi; ridurre i costi di un titolo del cartellone; concentrare l’attenzione sul versante musicale di una pièce melodrammatica oppure su un particolare esecutore – di solito il protagonista – già divenuto simbolo di una tradizione interpretativa consolidata e convincente. Se nel caso della Luisa Miller dello scorso aprile la presenza di Leo Nucci legittimava quest’ultima ragione, con questi Due Foscari centrati sulla presenza di Plácido Domingo sia le scelte sia i risultati appaiono molto più discutibili. L’opera verdiana appare infatti un pretesto per permettere a Domingo di esibirsi ancora nel principale teatro di Madrid, con un ruolo sostenuto nel marzo scorso a Milano, ma nel quale non si può certo pretendere che l’artista lasci un’eredità importante, nella sua nuova (si fa per dire) veste vocale di baritono. A questa premessa ne va aggiunta una seconda, di segno contrario ma di forza superiore: nessun cantante lirico (ma forse nessuna personalità del mondo dello spettacolo in generale) oggi è capace di suscitare in tutta la Spagna un entusiasmo e un’acclamazione come quelli di cui gode Domingo a ogni sua apparizione. Oltre a tutte le più che giustificate ragioni di competenza musicale, di empatia con gli spettatori, di amabile atteggiamento anti-divistico che ha assunto negli ultimi anni, Domingo è soprattutto un simbolo di Hispanidad, di quella società spagnola fiorita con gli epocali cambiamenti politici dell’ultimo quarto del secolo scorso: le generazioni affermatesi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta, in tempi di ricchezza e di rapida trasformazione, della Spagna come dell’Europa. Il Domingo senescente di oggi è un memoriale attivo di tutto quanto trascorso e acquisito in quei decenni relativamente felici; per questo il pubblico spagnolo (e non solo) lo adora fino al furore del grido e dell’applauso a martello. Ma di che pubblico si tratta? Ovviamente quello che nelle decadi ricordate era nel fior degli anni, e che quando pensa a Domingo ha in mente uno dei tenori più popolari di tutto il Novecento, magari in associazione con Carreras e Pavarotti, tutti e tre impegnati a cantare di fronte a folle oceaniche in ogni continente, spesso in compagnia di pop stars eccentriche e pretenziose. Davvero è trascorso molto tempo … Produceva una certa malinconia constatarlo ieri sera, guardando proprio il pubblico del Teatro Real: le persone al di sotto dei cinquant’anni erano rarissime – ma questo non fa meraviglia, perché un trentenne di oggi amante del melodramma conosce Domingo come tenore del passato, non come baritono ancora in carriera; non avendo vissuto la metamorfosi vocale dell’artista, difficilmente può accettarne gli effetti e dunque interessarsi a seguirlo nelle sue serotine apparizioni dal vivo. Dopo ogni numero in cui è protagonista si verifica un’ovazione, certo antiquitatis causa, ma anche per una fedeltà di affetti che nel pubblico di un teatro nazionale costituisce un atteggiamento ricorrente e fermo. La serata è dunque di successo al calor bianco, e al termine l’intera platea in piedi applaude frenetica al protagonista, e festeggia con buon entusiasmo anche tutti gli altri.
Non vogliamo sostituire la recensione con una riflessione sociologica, anche se la tentazione di interrompere qui il discorso si fa abbastanza potente, soprattutto in relazione a come è stata gestita la conduzione di questi Due Foscari. Sia detto senza mezzi termini che la partitura verdiana è stata assassinata da Pablo Heras-Casado, giovane direttore che l’anno scorso abbiamo apprezzato nella prima mondiale di El Público di Mauricio Sotelo. Ma altro è il teatro musicale sinfonico del XXI secolo, altro è il Verdi dei deprecati e non mai abbastanza indagati “anni di galera”. Heras-Casado concerta I due Foscari secondo i peggiori cliché con cui un tempo si eseguiva (o meglio, si disprezzava) la produzione verdiana giovanile: tempi forsennati (tranne quando è indispensabile concedere fiato al protagonista vocale), sonorità a dir poco fragorose, piatti e grancassa in azione come congegni impazziti; e peggio che tutto, ogni impostazione ritmica di Verdi trasformata nella più bandistica fanfara a base di insopportabili zum-pa-pà. Della Venezia gotica e raggelante del libretto di Piave non resta assolutamente nulla; tutti i movimenti della tragedia diventano un risibile galop, e anche quando qualche colore guizza dall’orchestra, subito scompare, subissato dal clangore generale. Tutti i solisti (compreso Domingo) sono obbligati a una continua forzatura per sostenere l’improponibile volume sonoro dell’orchestra; in una parola chiara, sono obbligati a gridare. Ecco perché la prestazione del terzetto principale risulta completamente inficiata alla base del rapporto con l’orchestra. Michael Fabiano è un interessante tenore statunitense, dal timbro vocale non troppo chiaro, dotato di una buona tecnica. L’impostazione della voce è lirica, ma con qualche tentazione di sottolineature drammatiche; l’emissione non gode di un appoggio molto solido, e neppure di una perfetta messa in maschera. Questo fa sì che la voce risuoni bene, ma come vulnerabile e troppo soggetta ai cambi di registro. L’espressione marcata è il solito rifugio, che però diventa forzatura. Nella scena dell’apparizione dello spettro di Carmagnola deve gridare così forte, che poi gli costa fatica ritornare a un’emissione di intensità ordinaria. Anche Angela Meade è nordamericana, e il pubblico italiano la ricorderà quale Matilde nell’ultimo Guglielmo Tell al Teatro Regio di Torino. Nel frattempo ha cantato I due Foscari anche con Leo Nucci, e si percepisce come domini la parte con agio; purtroppo il poco lavoro sul fraseggio, la disattenzione per i mezzi toni e per le sfumature, fa sì che il personaggio di Lucrezia Contarini sia appiattito sul lato della rimostranza, dello sdegno e della manifestazione di collera più che su quelli dell’afflizione e della sofferenza dignitosa. Impeccabile, come sempre, Roberto Tagliavini nella parte del perfido Jacopo Loredano. Molto corretti gli interpreti delle parti comprimarie e il Coro del Teatro Real, istruito da Andrés Máspero (purtroppo anche il coro «Giustizia incorruttibile» a metà del II atto è sfigurato dal direttore d’orchestra in una girandola grottesca di cui non si capisce nulla). Il Teatro Real ha evidentemente costruito il concerto attorno alla leggenda vocale di Domingo. Che si può dire che i lettori di «GBopera» già non immaginino? Sin dal primo momento impegnativo («O vecchio cor che batti») il cantante sfoggia tutte le abilità tecniche di cui è capace per occultare le oscillazioni della voce, che il diaframma non sostiene più. Il volume vocale di Domingo, invece, è ancora impressionante, e unitamente ai mezzi espressivi più scaltriti concorre a salvare l’interpretazione. Ma perché tiene sempre una mano premuta contro il torace? Forse è un modo per rappresentare il dolore del vecchio doge, o forse l’artista è davvero sofferente. Nel III atto infatti prende il sopravvento la stanchezza: se il monologo finale segna il culmine del carisma del doge, Domingo è costretto a leggere la parte, a concentrarsi per seguire il testo (di cui sostituisce qualche nota) a discapito della commozione che dovrebbe scaturire spontanea. Certo, la retorica del «canuto guerriero» si presta benissimo a celebrare l’inesausta carriera di Domingo; ma forse il cantante potrebbe scegliere – se ancora intende farlo – di cimentarsi in titoli meno evocatori di tombe, di lutto, di sciagure famigliari e di morte; tutte immagini di cui il libretto dei Due Foscari rigurgita, e che la stessa musica di Verdi a volte fa fatica a esorcizzare e sublimare. Foto Teatro Real © Javier del Real