Operetta in tre atti su libretto di Rudolph Schanzer e Ernst Weilisch. Annette Dasch (Die Marquise von Pompadour), Heinz Zednik (Die König), Mirko Roschkowski (René), Elvira Soukop (Madeleine), Beate Ritter (Belotte), Boris Pfeifer (Joseph Calicot), Gerhard Ernst (Maurepas, Potizeiminister), Wolfgang Gratschmaier (Poulard, Spitzel). Orchester un Chor del Volksoper Wien, Thomas Böttcher (Maestro del coro), Andreas Schüller (direttore). T.Time:77’24 Registrazione: Volksoper Wien giugno 2012. 1 CD CPO 777 795-2
L’operetta viennese era nata alla metà del XIX secolo quasi per celebrare l’apoteosi della monarchia asburgica unita alle grandi speranze per l’avvenire che impregnavano la cultura positivista. I suoi ritmi – con quelli fratelli del walzer – avevano accompagnato l’impeto di una città che sembrava rinascere da se stessa con le note della “Demolirer-Polka” che accompagnava lo sbancamento dei vecchi quartieri medioevali e la nascita della nuova, luminosa capitale imperiale sulla Ringstraße. Dopo la Prima Guerra Mondiale – che aveva spazzato come foglie al vento quelle illusioni e quelle speranze – essa diviene il rimpianto per un mondo perduto sentito come una realtà a cui aspirare in un presente sempre più inquieto. Leo Fall (1873-1925) fu uno dei più geniali protagonisti di quest’ultima stagione della cultura mitteleuropea e ancor di più avrebbe potuto dare se non fosse stato vittima di una precoce scomparsa.
“Madame Pompadour”, andata in scena a Berlino nel 1923 e ripresa l’anno successivo a Vienna, è uno di quei piccoli capolavori a torto dimenticati che subito sanno trasmettere l’atmosfera di un mondo perduto. Ispirandosi a quella corrente neo-settecentesca tornata di moda a partire dai primi anni del Novecento nelle arti figurative e che aveva trovato la sua consacrazione musicale in “Der Rosenkavalier”, Fall recupera la figura archetipica di Madame Pompadour calandola in un caleidoscopio musicale in cui si ricompone tutta la tradizione dell’operetta viennese con un primo atto che alterna suggestioni alla Lehár – il duetto fra René e la Marchese è molto prossimo a quello di “Die lustige Witwe” – e riprese di moduli dall’opera italiana con un autentico gran finale d’atto quasi alla Rossini per le evocazioni anche drammaturgiche di quel mondo espressivo – si pensi all’arrivo della forza pubblica e all’intervento pacificatore della Pompadour e dell’analoga situazione del Conte d’Almaviva nel finale I de “Il barbiere di Siviglia” – mentre nei successivi spolverate di Offenbach si fondono con espliciti richiami a quel folklore ungherese universalmente conosciuto dopo il successo di “Die Csárdásfürstin” di Kálmán (1915) tanto che la stessa vocalità della Pompadour in più di un tratto viene a ricordare dappresso quella di Sylvia Varescu. In occasione di una ripresa alla Wiener Volksoper del 2012 la CPO ha provveduto a registrare l’integralità dei brani musicali del lavoro condensando su un unico CD la proposta ma sacrificando quell’alternanza di cantato e parlato che dell’operetta è imprescindibile alchimia. Andreas Schüller dà della partitura una lettura molto classica, molto operistica che tende a mettere in evidenza la preziosità e la ricchezza della scrittura di Fall ma che ne sacrifica in parte l’energia vitalistica, in quanto guarda all’universo espressivo della commedia per musica più che a quello dell’operetta propriamtente detta. Nella medesima ottica si inserisce la Pompadour di Annette Dash la quale non si può dire che canti male; anzi il timbro è piacevole e la voce solida e robusta, sicura nel settore grave spesso impegnato specie nel duetto e nel terzetto all’ungherese del II atto. Va però riscontrata l’insicurezza sugli acuti e resta un senso di non naturalezza, di un eccesso di costruito della cantate lirica che canta l’operetta enza farsi, tuttavia, coinvolgere autenticamente nello spirito del genere. Perfetto contraltare, il Luigi XV di Heinz Zednik, l’indimenticato Mime di tanti “Ring” la cui voce, decisamente logorata – anche se la parte più parlata che cantata lo aiuta non poco –, conserva il gusto, il senso dello stile e del genere. Mirko Roschkowski è un René solido e professionale che realizza una prestazione nell’insieme godibile anche se ben poco resta della magia che negli stessi brani aveva saputo esprimere il grande Peter Anders. Boris Pfeifer all’ascolto suscita più di una perplessità ma Calicot è uno di quei ruoli che possono vivere solo nella realtà scenica. Buone le parti minori e ottima la prova di coro e orchestra.