Venezia, Teatro La Fenice, Lirica e balletto Stagione 2015-2016
“LA FAVORITE”
Opera in quattro atti su libretto di Alphonse Royer, Gustave Vaëz e Eugène Scribe
Musica di Gaetano Donizetti
Léonor de Guzman VERONICA SIMEONI
Fernand JOHN OSBORN
Alphonse XI VITO PRIANTE
Balthazar SIMON LIM
Don Gaspar IVAN AYON RIVAS
Inès PAULINE ROUILLARD
Un signore SALVATORE GIOVANNI DERIU
Orchestra e Coro del Teatro La Fenice
Direttore Donato Renzetti
Maestro del Coro Claudio Marino Moretti
Regia Rosetta Cucchi
Scene Massimo Checchetto
Costumi Claudia Pernigotti
Light designer Fabio Barettin
Projection designer Sergio Metalli
Movimenti coreografici Luisa Baldinetti
Ballerine Luisa Baldinetti, Sau-Ching Wongin
Nuovo allestimento Fondazione Teatro La Fenice in coproduzione con Opéra Royal de Wallonie di Liegi
Venezia, martedì 10 maggio 2016
La Favorite – in lingua originale – sbarca per la prima volta in laguna. Questo grand-opéra in quattro atti – musicato da Gaetano Donizetti nel corso del settembre del 1840, su libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaëz, al quale contribuì anche Eugène Scribe – fu rappresentato per la prima volta a Parigi, il 2 dicembre 1840, presso l’Académie Royale de Musique. La partitura è, in larga parte, la rielaborazione de L’ange de Nisida – un’opera ultimata dal Bergamasco nel dicembre 1839, ma mai andata in scena per il sopraggiunto fallimento del committente parigino: il Teatro de la Renaissance – con l’aggiunta di qualche brano tratto da Pia de’ Tolomei, da L’assedio di Calais, e dalla prima versione, incompiuta, de Le Duc d’Albe, da cui, in particolare, fu attinta la celebre romanza “Ange si pur”. La Favorite, verso la fine dell’Ottocento, scomparve dalle scene francesi, mentre in Italia continuò a circolare, ma non nella versione originale, bensì in quella adattata – dal punto di vista linguistico, ma non solo – al pubblico e all’ambiente culturale del Bel Paese. La versione francese vi riapparve solo nel 1991 in uno storico allestimento, a Bergamo, sotto la direzione musicale proprio di Donato Renzetti. In realtà La Favorite, al pari del rossiniano Guillaume Tell, acquista molto di più nella versione originale, dove si può cogliere tutta l’eleganza e la forza espressiva delle arie e delle scene d’insieme come anche del declamato drammatico, che Donizetti seppe creare, modellando con sensibilità le inflessioni del canto sula prosodia della lingua francese. Atteso, dunque, questo nuovo allestimento della Fenice, secondo l’edizione critica a cura di Rebecca Harris-Warrick: un’iniziativa felicissima, che colma – nella programmazione del teatro veneziano – un vuoto di tantissimi anni. Altrettanto oculata è stata la scelta di riaprire i sempre opinabili tagli di tradizione, riguardanti soprattutto i concertati e le cabalette, ripristinando la coerenza e la completezza di questa grandiosa partitura.
Esemplare la lettura dell’esperto Donato Renzetti, che ha saputo dare il giusto rilievo alla raffinata eleganza dell’orchestrazione, uno dei punti di forza dell’opera come di tutto il teatro musicale di Donizetti, allievo di Johann Simon Mayr, da cui apprese una conoscenza approfondita dell’opera francese come della grande civiltà strumentale del Classicismo viennese. Ciò che ha colpito nella direzione e concertazione di Renzetti è la bellezza degli impasti sonori, che a volte hanno raggiunto una potenza non inferiore a quella che conosciamo in Verdi, pur senza mai perdere lo smalto, la brillantezza, l’eleganza, immancabili nel lavoro di un grande orchestratore, di cui Renzetti ha colto la tensione verso il futuro. Particolarmente felice è stata anche la scelta dei tempi: il gesto direttoriale – estremamente sensibile ed attento, ma senza affettazione, senza mai indulgere in eccessive esitazioni o corone che avrebbero compromesso la coesione formale – ha efficacemente assecondato le esigenze del canto. Si è dunque potuta gustare pienamente questa partitura, che ha l’ampio respiro del grand-opéra, ma rivela anche una forte pregnanza melodica, oltre a una concezione innovativa, che elimina di fatto i classici recitativi in favore di un diffuso declamato drammatico, cui guarderà anche Verdi.
Tutto questo si è realizzato ovviamente anche grazie al determinante contributo dell’orchestra, ineccepibile, e delle voci, che costituivano un cast di rilievo. In evidenza John Osborn, quale Fernand, che – grazie ad una tecnica solidissima e ad un sapiente fraseggio – ha affrontato con disinvoltura l’ardua tessitura del suo ruolo, con voce duttile, che correva con estrema facilità verso la zona acuta e sopracuta, e nello stesso tempo risuonava sempre virilmente timbrata, delineando un personaggio pienamente credibile nel suo dibattersi tra passione amorosa e mistici abbandoni: ha fatto, in particolare, “venir giù il teatro” nella travolgente “Oui, ta voix m’inspire” e nell’estatica “Ange si pur”.
Da parte sua Veronica Simeoni, nel ruolo eponimo – una parte particolarmente difficile per il suo carattere ibrido, in bilico tra soprano e mezzosoprano – ha offerto una Léonor analogamente appassionata erosa dal senso di colpa, sfoggiando una voce corposa e nello stesso tempo sufficientemente a proprio agio anche nella zona acuta, segnalandosi – per intelligente controllo vocale, eccellente dizione e sensibilità – in “O mon Fernand” e nei duetti con Osborn. Autorevole, nel ruolo di Alphonse, Vito Priante, dal bel timbro baritonale, che con sicurezza ed omogeneità nei passaggi di registro, ha saputo rendere l’ambiguità del personaggio, combattuto tra l’amore e il potere, brillando per compostezza stilistica in “Léonor! Viens”. Validissima anche la prova di Simon Lim, che con voce profonda e incisivo fraseggiare ha impersonato un Balthasar ieratico e inflessibile; di Ivan Ayon Rivas, dalla vocalità estesa e squillante, che ha dato vita ad un frenetico Don Gaspar; infine di Pauline Rouillard, capace di tratteggiare con garbo e leggerezza una Inès affettuosamente partecipe. Ottimo il coro, come sempre adeguatamente istruito dal maestro Moretti.
Fin qui la musica e il canto. Dopodiché spendiamo qualche parola sugli spetti visivi dello spettacolo. E qui cominciano “le dolenti note”, non tanto perché vogliamo ergerci a paladini di una non meglio identificata tradizione, quanto per la semplice ragione che una data impostazione registica – che sia o meno innovativa – dovrebbe poggiare su qualche argomentazione che la giustifichi. Diversamente si può fare di tutto e di più in qualsiasi spettacolo lirico. Purtroppo anche la concezione di Rosetta Cucchi, forse anche coraggiosa, risulta cervellotica, come calata dall’alto quasi per partito preso: in un mondo degradato, in un’imprecisata epoca futura, in cui la natura è ormai estinta come si è dissolto il patto sociale, una setta di monaci-scienziati, capeggiati da Balthasar, conservano qualche frammento di vita naturale in ampolle di vetro, cui solo gli eletti possono accedere, e intanto tengono sotto controllo una povera umanità, in cui le donne – schiavizzate – sono meramente funzionali ad un progetto eugenetico, finalizzato alla procreazione d’una stirpe d’eroi. Unica eccezione Léonor, che si ribella a questa visione profondamente riduttiva dell’universo femminile, rivendicando la propria libertà, in particolare di innamorarsi. Il tutto si svolge in spazi abbastanza anonimi, ideati da Massimo Checchetto, volutamente dominati da futuribili, fantascientifiche strutture in plastica, che in certe scene imitano anche il paesaggio naturale. Coerenti con le scelte registiche i costumi di pura fantasia ideati da Claudia Pernigotti, le asettiche luci di Fabio Barettin e le astratte proiezioni di Sergio Metalli. In ogni caso successo pieno.