Torino, Teatro Regio, stagione lirica 2015/2016
“LUCIA DI LAMMERMOOR”
Dramma tragico in due parti e tre atti su libretto di Salvadore Cammarano dal romanzo The Bride of Lammermoor di Walter Scott.
Musica di Gaetano Donizetti
Lord Enrico Ashton GABRIELE VIVIANI (13) / SIMONE DEL SAVIO (19)
Miss Lucia JESSICA PRATT (13) / ELENA MOSUC (19)
Sir Edgardo di Ravenswood PIERO PRETTI (13) / GIORGIO BERRUGI (19)
Raimondo Bidebant ALEKSANDR VINOGRADOV (13) / MIRCO PALAZZI (19)
Lord Arturo Bucklaw FRANCESCO MARSIGLIA
Alisa DANIELA VALDENASSI (13) / MARIA DE LOURDES RODRIGUES MARTINS (19)
Normanno LUCA CASALIN
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Direttore Gianandrea Noseda
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Damiano Michieletto ripresa da Roberto Pizzuto
Scene Paolo Fantin
Costumi Carla Teti
Luci Martin Gebhardt riprese da Alessandro Carletti
Allestimento Opernhaus Zürich
Torino, 13 e 19 maggio 2016
Gli spettacoli di Damiano Michieletto, solitamente, si caratterizzano per la presenza di un’idea registica forte, che – nel bene o nel male, in maniera condivisibile o meno – li distingue dal mare magnum degli allestimenti d’opera. Ciò non accade, tuttavia, in questa Lucia di Lammermoor, pensata per Zurigo e ora giunta, dopo alcuni anni e traslochi, a Torino. In questo caso, infatti, ci si trova davanti a uno spettacolo che passa senza lasciare particolari tracce in chi vi assiste, risolvendosi di fatto in una regia tradizionale cronologicamente posticipata (senza che si possa individuare una precisa epoca di ambientazione, considerato che i costumi si rifanno a un arco temporale che dall’Ottocento giunge quasi ai nostri giorni). Se l’uso delle luci si rivela efficace e curato nei dettagli, le scene si riducono a una torre di acciaio e vetro in rovina (il palazzo Ashton), un secchio d’acqua per la fontana gotica, tavolini con calici in plastica per la festa di nozze e una tomba scavata in diretta per il quadro finale. E le innovazioni drammaturgiche – l’onnipresenza di una compita giovane vestita di bianco che si aggira per la scena, e vuole incarnare il fantasma che appare a Lucia in ogni istante della sua vita; e il suicidio della protagonista, che, al termine dell’aria di follia, si lancia dalla torre per mezzo di una controfigura (per compensare, verrebbe da dire, quanto non ha fatto Tosca nell’allestimento torinese di pochi mesi fa…) – suscitano qualche perplessità ma non certo ammirazione, riprovazione e dibattiti. Per questa produzione il Regio ha radunato due cast per i quali riesce difficile usare le definizioni di “primo” e “secondo”, considerato che esprimono un livello qualitativo alto e, pur con molte distinzioni, in sostanza equivalente. Le protagoniste, poi, divengono addirittura tre: nell’ultima recita ha infatti fatto capolino Diana Damrau (con marito al seguito nella parte di Raimondo), la quale coprirà il ruolo titolare nella tournée di fine mese a Parigi ed Essen. Nelle altre serate il ruolo di Lucia è stato appannaggio di Jessica Pratt e di Elena Mosuc. La prima dà vita a una protagonista che è la summa del belcanto, per la tecnica impeccabile e la lettura raffinata del ruolo, arricchito di variazioni non scontate nelle riprese melodiche. Ella evita di cadere negli stereotipi, da un lato, della bambola priva di personalità, e, dall’altro, della donna folle fin dal principio della vicenda, tratteggiando un ritratto complesso in cui le venature di squilibrio mentale si fanno poco a poco strada in una ragazza che resta in buona misura lucida sino all’omicidio. Questa lettura belcantistica ha avuto modo di compiersi pienamente nell’aria di follia, mentre negli atti precedenti ha trovato un impedimento non indifferente, come si vedrà, nella concertazione. Certo, di virtuosismo belcantistico la Pratt ha anche praticato qualche eccesso, come le puntature estreme in conclusione del primo atto, drammaturgicamente poco opportune e di intonazione crescente (ma va detto, a suo merito, che alla recita del 18 marzo l’intonazione è stata perfetta). Elena Mosuc è una Lucia più standard, già ascoltata varie volte nel ruolo e non alla sua recita migliore. Non si intenda però “standard” in senso deteriore: per gli ascoltatori più abitudinari, infatti, è probabilmente questa l’interpretazione attesa di Lucia, meno scrupolosa nella ricerca della variazione melodica ma più concentrata nell’esprimere il carattere dell’istante. Entrambe, e la Pratt soprattutto, si sono giovate dell’opportuna scelta di accompagnare la scena di follia con la glassarmonica, così come originariamente previsto dal compositore: lo strumento, infatti, col suo suono ambiguo e sfuggente delinea molto meglio dell’adamantino flauto la dimensione di astrazione dalla realtà che caratterizza la psicologia della protagonista. Per esaurire il fronte femminile, la damigella Alisa ha trovato due interpreti sicure in Daniela Valdenassi e Maria de Lourdes Rodrigues Martins. Quanto agli uomini, Piero Pretti è forse il solista che trae maggiore vantaggio dalla direzione di Noseda, poiché i tempi rapidi giovano al suo fraseggio e al suo uso dei fiati; canta un accorato duetto con Lucia, e, nell’aria conclusiva, sfoggia una voce schietta che esprime con slancio la virilità della sofferenza di Edgardo, divenendo solo lievemente sguaiata quando affronta la cabaletta «Tu che a Dio spiegasti l’ali», e in particolare le iterazioni di «bell’alma innamorata». Buono è il suo dominio del finale II, anche se né lui né il suo omologo hanno il coraggio di emanciparsi dalla tradizione e cantare il verso «Ma di Dio la mano irata». Giorgio Berrugi dispone di uno strumento lirico squillante, di timbro chiaro e terso, che dà il proprio meglio nella scena finale, sbalzata in ogni passaggio con grande cura per la parola scenica; rimpolpato un po’ il registro acuto, che ora è lievemente leggero, potrà divenire un interprete di riferimento per il ruolo di Edgardo. Il secondo tenore dell’opera, Arturo, ha trovato in Francesco Marsiglia un esecutore di pregio, leggero e chiaro – ma non inconsistente, come spesso capita d’ascoltare in questo ruolo –, capace di coniugare la nobiltà dell’emissione con l’antipatia della figura spocchiosa tratteggiata dalla regia. La parte di Enrico non è di quelle che si prestino a molte sfumature, in particolare in questa edizione che, a partire dalla soppressione di ripetizioni e code nella cabaletta iniziale, la appiattisce sul suo lato più brutale. Gabriele Viviani, che sgrana bene gli ornamenti ma dispone di timbro piuttosto monocromatico, non ha difficoltà a sposare questa lettura. Simone Del Savio, che sarebbe interprete più delicato e raffinato, si trova a minor agio. La differenza tra i due baritoni è rivelata da un dettaglio del duetto con Lucia: il momento più incisivo di Viviani è il violento «Basti!» con cui mette a tacere le rimostranze della sorella; il passaggio più riuscito di Del Savio è l’ambigua domanda «Mi guardi e taci?» con cui cerca di porla subdolamente davanti al fatto compiuto delle nozze combinate. Qualcosa di simile si verifica nel confronto tra le interpretazioni dei bassi che si alternano nel ruolo di Raimondo: Aleksandr Vinogradov ha una voce possente e profonda, tipicamente russa, che si impone negli ensemble e nell’aria con coro dell’ultimo atto, ma – al di là dei problemi di dizione italiana – finisce per rassomigliare troppo a un basso musorgskijano. Mirco Palazzi, con uno strumento più cantabile e pertinente alla scrittura di Donizetti, rischia di essere soffocato nel finale centrale, dove il personaggio dovrebbe ergersi tra gli astanti per la sua supposta statura morale superiore. La ragione per cui, paradossalmente, in questa Lucia di Lammermoor si sono viste penalizzate le voci naturalmente più predisposte ad affrontare il belcanto risiede nella direzione musicale, affidata a Gianandrea Noseda, alla guida delle ottime compagini del Teatro Regio. Nessuno mette in dubbio che Noseda sia un grande direttore, ma è lecito dubitare che la sua vocazione sia affrontare il repertorio belcantistico. La sua concertazione, infatti, alterna momenti di nonchalance a passaggi in cui la ricerca di un rilievo sinfonico peculiare finisce per generare un cortocircuito con le voci in palcoscenico, che si vedono spesso costrette da tempi rapidi e dinamiche tese al forte; senza contare che sono stati praticati con abbondanza i tagli di tradizione (non di interi numeri musicali, per fortuna, ma di diverse riprese melodiche) che al giorno d’oggi si auspicherebbe di vedere riaperti e valorizzati, specie quando si hanno a disposizione solisti di vaglia.