“Il pubblico che affollava ieri sera il Teatro Carcano ha battuto fragorosamente le mani, ha chiamato molte volte al proscenio il simpatico autore. Più bell’incoraggiamento di quello d’ieri sera nessun giovane al mondo potrebbe sperarlo mai, e il pubblico milanese l’ha dato al bravo giovane sardo con quella calda generosità che gli trabocca sovente dal cuore. Parve però che il pubblico si stancasse qualche volta di gridare bravo! e di battere le mani. Il sipario calò al terzo atto senza i fragori animosi della platea: alcuni anzi zittivano, e sì che il terzo atto a noi, e ad altri, piacque meglio di tutti! È quell’atto nel quale il maestro Canepa esprime, ci pare, più nettamente che altrove il prezioso talento della teatralità che abbiamo già in lui subito riconosciuta e subito ammirata.
Il pubblico volle però il bis d’un bel vibrato pezzo, quello cantato da Scroop alla prima scena del terzo atto; è il migliore dell’opera. Piacque anche assai il brindisi di Elisabetta, brindisi di spigliata fattura, con dei trilli di clarinetto per accompagnamento e scoppi di tromba alla fine. Le trombe hanno un lavoro continuo nell’opera: vociano come coloro che hanno torto; senonché le dolci arpe s’intromettono come amabili paciere domestiche ma, anch’esse, parlano un po’ troppo. Noi abbiamo ammirato gli effetti orchestrali nel finale del secondo, e più nel terzo atto. C’è una fusione, un’omogeneità di suoni, una nettezza che ha del virile
In conclusione, il Riccardo III, è un’opera sana, che sta tutta in piedi. Madame de Staël diceva, con una frase felice, che la musica è un’architettura di suoni”. (S. Farina, «Corriere della Sera», 11-12 novembre, 1879 in Antonio Ligios, Le opere teatrali di Luigi Canepa, Associazione Ricercare Musica, Nuoro, 2000, pp. 231-232).
Con queste entusiastiche parole, alle quali non è estranea qualche puntatina ironica, il giornalista e lo scrittore di fama internazionale Salvatore Farina esaltò il Riccardo III di Luigi Canepa nella sua recensione apparsa sul «Corriere della Sera» dell’11-12 novembre 1879 esattamente due giorni dopo la prima rappresentazione avvenuta al Teatro Carcano di Milano il 10 novembre con il seguente cast: Ludovico Buti (Riccardo III), Francesco De Angelis (il principe Rismondo), Davide Majocchi (Scroop), Giuseppe Ceresa (Rutlando), Emilia Maggi Trapani (La regina Elisabetta), Francesca Prevost (Elisabetta, figlia della precedente). Meno entusiastico, ma pur sempre elogiativo fu il giudizio espresso da Filippo Filippi sulla «Perseveranza» (12 novembre 1879)
“Molti, o per meglio dire troppi, sono i giovani oggigiorno invasi dalla smania di scrivere opere, sciupando tempo, quattrini, e seccando le scatole al colto e rispettabile pubblico. La più parte incominciano con un successo, la critica li battezza per giovani di belle speranze, e dopo quella prima fiammata non resta più altro. Sono pochi assai quelli che, come il Canepa, non si sieno illusi, ed abbiano avuto il coraggio perseverante di studiare, di progredire, di correggere i difetti: il Canepa ebbe di mira di piacere al pubblico, ma con quella coscienza artistica che non transige con le esigenze volgari di coloro, i quali col pretesto che il teatro è fatto per divertirsi, si annoiano di tutto quello che non capiscono e per conseguenza lo rinnegano […].
Il Canepa, come ho già notato da principio, è ancora in quel periodo di imprecisione in cui gli ingegni promittenti, non sono riusciti a farsi uno stile sicuro, una maniera veramente determinata. Ci sono ancora nel Canepa delle altalene fra il vecchio e il nuovo, fra il volgare e l’ideale, fra la convenzione e la libertà, fra il bisogno di innalzarsi, di uscire dalle vie battute, e la paura di non accontentare il pubblico. Le sue qualità drammatiche, teatrali, sono però ormai così palesi, così robuste, da poterlo ascrivere nel numero scarso degli operisti.
D’idee non manca, e spesso ne trova di nuove. Nella condotta è sempre logico, chiaro, ed ha in sommo grado l’arte di dare un grande sviluppo anche a una piccola idea, come nell’aria di Elisabetta […].
Nell’istromentale il maestro Canepa ha fatto molti progressi e ne deve fare degli altri. La sua orchestra ha guadagnato, in impasto, in varietà di disegni, di combinazioni, di belle e ingegnose sonorità. Gli rimane ancora un poco di malvezzo di caricare, col vocio degli ottoni, le cadenze, le perorazioni, le frasi culminanti” (Ivi)
Anche illustri colleghi, come Giuseppe Verdi e Amilcare Ponchielli, che elogiò la strumentazione elegante e geniale, espressero giudizi positivi su quest’opera di Canepa che, purtroppo, dopo Riccardo III, limitò la sua attività compositiva a causa di una malattia di natura nervosa che lo costrinse a ritirarsi nella sua Sassari dove all’attività di insegnante affiancò quella di critico musicale, tornando a comporre per il teatro soltanto molti anni dopo con l’operetta Amsicora che fu rappresentata al Teatro Verdi di Sassari il 28 aprile del 1903.
Terza e, quindi, ultima opera di Canepa dopo Davide Rizio (1871) su libretto di Enrico Costa e I pezzenti (1874) su libretto di Fulgonio, Riccardo III ebbe una gestazione insolitamente lunga dal momento che la sua stesura, iniziata nel 1876, fu ultimata nel 1879. Non si conoscono le ragioni di questo ritardo per mancanza di documentazione, anche se è stato ipotizzato da Antonio Ligios (Op. cit.), il più importante studioso della produzione operistica di Canepa, che i due artisti avrebbero ripensato i modelli melodrammatici consolidati che i due avrebbero adottato nella precedente opera teatrale. Per quanto attiene al libretto, Fulgonio non si ispirò direttamente a The Tragedy of King Richard the Third, scritto da Shakespeare nel 1591, ma ad un dramma di Victor Sejour, come si può leggere nell’avvertenza dell’edizione a stampa del libretto, chiamata Parole…. (che si possono saltare), nella quale il librettista tratteggiò anche la figura del protagonista:
“La storia registra le efferatezze di quel briccone di re che fu Riccardo Terzo, detto il gobbo.
Per una via lubrica di sangue e disseminata di cadaveri, egli era giunto a sedere sul trono d’Inghilterra che non gli spettava di ragione.
Colle spogliazioni, le angherie di ogni genere e le uccisioni a centinaja, terrorizzando il popolo britannico, egli tenne lo scettro parecchi anni; quando la fortuna dei malvagi, che troppo sino allora aveva protetto, gli fece le corna a Booswoth, ove, sconfitto in battaglia, si lanciò nel fitto della spade e morì sclamando: datemi un cavallo; il mio regno per un cavallo!…
La Casa dei Plantageneti perdé in quel giorno per sempre il trono, sul quale salì Tudor Richmond col nome di Enrico Settimo, ed in tal modo ebbe fine la famosa guerra denominata dalle due rose.
Sopra questo brano storico è basato il presente melodramma.
Alcuni giornali, nell’annunciarlo con gentile cortesia, di che sono ad essi grato con riconoscenza doverosa e sincera, asserirono che questo mio lavoro è foggiato sulla tela drammatica del Riccardo Terzo dell’immortale Shakespeare, il che non è esatto o, meglio, non vero” (F. Fulgonio, Riccardo III, Milano, 1879)
Il dramma di Sejour, scelto da Fulgonio come sua fonte, era Richard III, che, pubblicato nel 1852 in Francia, era stato tradotto e ridotto in Italia da Pietro Manzoni; questa scelta era stata giudicata particolarmente felice già dai primi commentatori, tra cui Filippo Filippi che nel già citato articolo pubblicato sulla «Perseveranza» affermò:
“Il primo merito del Riccardo III di Fulgonio è quello di non rassomigliare punto a quello di Shakespeare, il quale non è punto musicabile, per le soverchie spezzature, per l’inquietudine continua nel movimento scenico, e soprattutto perché a quella sozza figura di Re basta la parola di Shakespeare, e la nota di qualunque sommo maestro non farebbe che rimpicciolirla. Nel dramma shakespeariano la truce figura domina intera e tutti gli altri personaggi non sono che accessori, occasioni, pretesti alle rapaci crudeltà dell’uccisore dei figli di Eduardo. Il Fulgonio risparmiò a Shakespeare la noia, l’incomodo d’esser posto in musica e ricorse invece per la tela ad un dramma francese di Sejour, che ha pure per protagonista Riccardo III. In questo dramma, ricco di situazioni musicali, i personaggi aggruppati intorno al Re sono importanti, al pari e anche più di lui, specialmente quel Raul di Folckes, che sotto le vesti del buffone di Corte, prepara il ritorno, la vittoria del principe Rismondo e la catastrofe finale, quando Riccardo muore gridando: il mio regno per un cavallo!” (Antonio Ligios, Le opere teatrali di Luigi Canepa, cit.)
Nonostante il dramma di Sejour si presti meglio ad una riduzione librettistica rispetto alla tragedia di Shakespeare, Fulgonio operò ulteriori modifiche che riguardano in particolar modo la figura del protagonista. Nel dramma di Sejour il deforme monarca, a causa di una gobba, appare sin dall’inizio ossessionato dal potere più di quanto non lo sia il personaggio di Fulgonio. Nella scena iniziale dell’originale francese Riccardo III, infatti, prorompe contro le rivendicazioni della corona da parte del rivale Richmond
“Revendiquer la couronne? Par Saint Georges, le sanglier n’est pas mort ! Revendiquer la couronne ? A quel titre ? de quel droit ? L’Angleterre est-elle un nid de bâtards ? Ma couronne sur la tête du petit-fils de Catherine Roët? Courroucez- vous, milords ! on attente à vos droits comme aux miens. —
{A Stanley.) Revendiquer la couronne ?… et c’est toi qui oses prononcer cette parole, Stanley; toi qui m’as vu couronner deux fois, à Westminster et à York, et que j’ai fait sénéchal de ma maison? C’est toi!… vive Dieu! Suis-je un roi de carton?… Le soleil d’York a-t-il pâli?… Par saint Dunstan, le sanglier n’est pas mort, il a toutes ses dents, et vienne l’occasion, vous les compterez par les blessures qu’elles feront!
Nel libretto di Fulgonio, invece, l’ossessione prevalente in Riccardo III riguarda la volontà di sposare la nipote Elisabetta, innamorata ricambiata di Rismondo, in una situazione drammaturgica tipica del melodramma romantico con il tenore (Rismondo) e il baritono (Riccardo III) che si contendono l’amore del soprano. Nell’originale francese, inoltre, la sua ossessione di potere è tale da non sentire nemmeno gli appelli di Montagu e di un usciere i quali gli ricordano che la madre e la moglie stanno morendo e vorrebbero vederlo un’ultima volta prima di spirare. Nel dramma di Sejour l’ormai inevitabile morte della regina desta il sospetto, espresso dal medico, che la donna sia stata avvelenata, inducendo nel re una profonda indignazione. Al contrario, nel testo di Fulgonio, è proprio il re a consegnare la fiala contenente il veleno a Rutlando attraverso una minaccia di morte espressa in modo velato tramite un sogno nel quale si diceva che alla fine l’uomo sarebbe stato impiccato se non avesse obbedito ai suoi voleri.
L’opera
Il preludio
L’opera si apre con un breve preludio in cui vengono presentati alcuni dei suoi temi significativa con una una scrittura che mostra chiare influenze verdiane nella scelta, per esempio, di contrappuntare con florilegi dei legni il tema principale della sezione iniziale affidato agli archi. A questa oasi di lirismo, di ascendenza tardo-romantica, si contrappone l’elemento marziale che, introdotto da una fanfara, occupa la sezione centrale. Il preludio si conclude con una nuova sezione lirica che parte da un registro etereo per essere elaborata nella parte conclusiva con una certa enfasi.
Atto primo
All’interno della sala del palazzo Rainard di Londra risuona in lontananza un coro di lavoratori che inneggia al lavoro su un tema semplice e sereno, quasi spensierato, mentre Riccardo III, sempre più solo, dalla terrazza esprime, in un contrasto stridente, tutto il suo disappunto alla vista di persone felici sotto il suo regno. Il re nella sua aria, Da me lontano fugge impaurita, la cui melodia soprattutto nella parte iniziale appare per la verità un po’ retorica, si rammarica del fatto che ogni beltà fugga dal suo cospetto e che la sua presenza generi solo terrore. Particolarmente efficace è la seconda parte dell’aria (Sì sorgerò terribile) nella quale il re in modo risoluto esprime la sua volontà di fare nuove conquiste seminando il terrore. Subito dopo da recitativo di Riccardo III appare chiaramente il nucleo del dramma; egli, infatti, dichiara di amare Elisabetta, donna amata da Rismondo che ha radunato per tutta Europa possibili alleati, e del quale spera di vendicarsi presto.
Entrato in scena Rutlando che annuncia al re la presenza di Scroop l’armajuolo, Riccardo III gli racconta un sogno nel quale egli avrebbe visto la sconfitta del suo rivale Rismondo e il conseguente matrimonio con Elisabetta. Nello stesso racconto, a Rutlando, che, inorridito, gli ricorda sua moglie, il re risponde che la donna sarebbe morta in quanto colpita da un rio morbo e che anche lui sarebbe stato impiccato se non avesse obbedito ai suoi ordini. Nel duettino (Come da fulmine – Come da folgore), il cui tema di carattere subdolo rappresenta perfettamente l’animo di villain di Riccardo III e nel quale Rutlando afferma che compirà il suo volere, il re si mostra sicuro che ciò avverrà dopo una così terribile minaccia e gli dà una fiala di veleno da somministrare alla moglie.
Tagliato nell’edizione in ascolto, un coro di donne (Sorge più bello) sembra alleggerire la tensione dal momento che le donne tessono le lodi della regina, ma, in realtà, come notato sempre da Ligios, esso serve a rendere ancor più drammatico il suo successivo intervento per annunciare la morte della regina (Op. cit.)
Viene condotto al cospetto del re Scroop che, come si apprende nel recitativo (Alfin son penetrato), altri non è se non Raul di Falkes, amico e fedele di Rismondo, che vuole introdursi in incognito all’interno della corte di Riccardo III per spiarne le mosse. Per raggiungere il suo scopo egli si presenta al re nelle vesti di un armarajuolo recando in dono una cotta capace di parare i colpi di qualunque arma. Nel duetto che segue (Chi sei?), nel quale Canepa introduce in orchestra un tema insinuante nelle sue movenze falsamente galanti e gentili, il re decide di provare la resistenza della cotta facendola indossare a Scroop stesso e colpendola con forza con il suo pugnale. Per premiarlo lo nomina buffone di corte chiedendogli di cominciare immediatamente con questa nuova attività; l’uomo, per accattivarsi la benevolenza del re e nello stesso tempo per stornare ogni sospetto da se stesso, afferma che Raul di Falkes è stato visto a Londra e che addirittura sarebbe sfuggito per poco alla lama della sua spada.
A questa notizia il re convoca i grandi del regno dando inizio così allo stringato finale dell’atto primo, nel quale inizialmente, su un tema, che ricorda il Ballo in maschera verdiano, elogia il nuovo buffone di corte (Intanto, miei signori). Quest’atmosfera, per certi aspetti gioviale, è interrotta dal coro di donne (Aita) annunciante la morte della regina come si apprende dalle parole di Rutlando il quale afferma che la donna è stata assalita da morbo crudel. Il concertato (Dio clemente, onnipossente) è una pagina mirabile nella quale al celestiale coro di donne che si producono in una solenne preghiera si contrappongono gli a parte degli altri personaggi tra cui Scropp, che ha intuito il delitto commesso da Riccardo III, e il re si mostra soddisfatto di ciò che sta avvenendo. Questi, senza dare troppo peso al male della regina che definisce passeggero, riprende il clima spensierato invitando i presenti ad inchinarsi al buffone del re.
Atto secondo
In una sala all’interno dell’appartamento reale della Regina Madre in Westmister, Elisabetta legge una lettera nella quale Rismondo le scrive che si trova a Londra e che le avrebbe fatto visita all’imbrunire (recitativo: In Londra son). La donna manifesta la sua gioia nella romanza Io lo vedrò, nella quale la melodia, che non sembra scorrere in modo fluido, certe volte dà vita a momenti che sembrano un po’ retorici.
Un tema agitato introduce l’ingresso della Regina madre che annuncia alla figlia il prossimo arrivo di Riccardo e la sua intenzione di sposarla, e ad Elisabetta, che sconvolta afferma di preferire la morte a un simile matrimonio, risponde che la sua morte sarebbe un duro colpo per lei. Le due donne allora giurano che resteranno sempre unite nel sognante duetto Sarem due fonti placide. Uno squillo del corno introduce il concitato finale del duetto annunciando l’arrivo di Riccardo III, odiato dalla Regina Madre, sorella di quest’ultimo, in quanto responsabile della morte dei suoi figli. La donna, che aveva fatto allontanare Elisabetta, resta sola con il fratello al quale, nel successivo duetto, con fierezza oppone un netto rifiuto quando questi le chiede la mano della figlia. Il re si mostra sordo anche all’accorata implorazione della donna (Per questo che dal ciglio) e alla fine presa con forza la mano della Regina Madre la trascina nelle stanze interne non prima di averla posta ad un drammatico aut aut: la morte o il soglio.
Nella seconda scena dell’atto il pubblico viene trasportato in un giardino ameno e poetico nei pressi del palazzo della Regina Madre, i cui suoni della natura sembrano vivere in quelli dei legni del romantico preludio; questi temi sono utilizzati per accompagnare l’arioso di Rismondo, Alfin vi premo, nelle cui parole si possono facilmente riconoscere i sentimenti di un esule infelice costretto ad abbandonare la propria patria e il proprio amore. Nella sua romanza, Ormai sett’anni scorsero, che si distingue per una fresca scrittura melodica, viene riproposto il tema, abbastanza consueto nel Romanticismo italiano, dell’esule che trova conforto per le sue pene soltanto nel ricordo dell’immagine della donna amata che lo raggiunge subito dopo. La preparazione al loro incontro, che giunge al culmine di un crescendo, non può non ricordare quella del tempo d’attacco del duetto (Oh mia Violetta) del terzo atto della Traviata, ma in Canepa trova comunque accenti originali tali da rendere viva la situazione musicale. La gioia dell’incontro è però offuscata dal pensiero di Riccardo III, uomo tanto pericoloso che, secondo quanto affermato da Rismondo, è capace di uccidere soltanto con il pensiero; questi propone nel bello e sognante cantabile, Avrai di effluvi arabici, la fuga, ma i due amanti vengono interrotti da Scroop che, in una fase assai concitata segnalata anche da un repentino cambio di andamento (Allegro assai agitato), annuncia l’arrivo di Riccardo III e si nasconde insieme con Rismondo. Nella stringata parte conclusiva, il re simula una certa premura nei confronti di Elisabetta mostrandosi preoccupato per quella passeggiata notturna nel parco dove potrebbe nascondersi qualcuno con cattive intenzioni. Scroop, comprendendo che la situazione sta per precipitare, esce dal nascondiglio con la spada bagnata del suo sangue, fingendo di aver ucciso Raul di Fulckles. Elisabetta, riconoscendo la spada di Rismondo, pensa che sia stato ucciso il suo amante e si getta tra le braccia della madre
Atto terzo
Nel terzo atto la scena si sposta in una taverna sotterranea di Londra, nella quale alcuni marinai danno vita, prima, ad un gioviale brindisi (Viva la birra) e, poi, intonano una dolce barcarola (È tornato il ciel placato). Scroop, giunto nel momento in cui i marinai intonano la barcarola, si rivolge ai presenti mettendo in evidenza la crudele tirannia di Riccardo III nella sua aria (La mano barbara) (Es.) per poi rassicurarli, accompagnato da una scrittura marziale, sull’imminente fine della tirannia del sovrano inglese. In questo passo il coro alle parole Siam figli d’Inghilterra introduce un tema che riecheggia il celebre song Home! Sweet home. La scena si conclude con l’incontro tra Scroop e Rismondo, tagliato nell’edizione in ascolto, nel quale si intuisce che Elisabetta berrà un filtro magico capace di simulare una morte apparente.
Melodicamente ricco, pur nella convenzionalità non solo della situazione scenica e musicale ma anche del testo che è una variazione del carpe diem oraziano, è il coro introduttivo (Danziam, ché l’ore volano) della seconda scena dell’atto che ritrae una ricchissima sala nel Palazzo reale di Riccardo dove si sta tenendo una festa. Il clima festante contrasta con il dialogo tra Rutlando e Riccardo, nel quale il confidente del re lo informa del fatto che Rismondo è ancor vivo e ha posto il suo accampamento nei pressi di Boosworth aggiungendo che Scroop l’ha dunque tradito. Il re decide allora di spiare i suoi gesti prima di farlo uccidere sperando di poter ottenere delle informazioni importanti sul suo rivale. Subito dopo Scroop intona una ballata di carattere popolare, Un mago ed una fata, nella quale si narra di una fanciulla che viene strappata alla madre da un mago e che ritorna in vita grazie ad un incantesimo. Nel frattempo Scroop indica ad Elisabetta la coppa nella quale si trova il licor. La fanciulla beve dal calice del quale tesse le lodi nell’aria del delirio (O dolce farmaco) il cui tema, già introdotto da Canepa nel preludio iniziale, si distingue per la purezza melodica. L’atto, secondo quanto riportato nel libretto a stampa, si sarebbe dovuto concludere con un momento concitato in cui Scroop, scoperto e additato come traditore, avrebbe attentato alla vita del re che sarebbe stato salvato proprio dalla cotta che gli aveva regalato nell’atto primo.
Atto quarto
Introdotto da un intermezzo sinfonico, La battaglia, nel quale è descritta la battaglia decisiva che vedrà Riccardo III sconfitto da Rismondo, il quarto atto si svolge nel vasto atrio del Convento dei Francescani di Leicester, dove un coro di ancelle inneggia alla natura e alla primavera. La Regina Madre, preoccupata perché la figlia ancora non si è svegliata, si produce in una preghiera, O Signore a me togliesti, dalle ampie arcate melodiche. Subito dopo la Regina è raggiunta da Rismondo, vincitore della battaglia contro Riccardo che è stato ferito. Elisabetta è ancora avvolta dal sonno, ma il finale è diverso da quello di Giulietta e Romeo; la ragazza si sveglia tra le braccia della madre che aveva fatto allontanare inizialmente Rismondo per evitare alla figlia una gioia improvvisa che le poteva essere letale. Dopo aver raccontato, nella bella ed eterea aria della visione, tutto ciò che ha veduto nel sonno, i due amanti possono riabbracciarsi in un tripudio di gioia. Anche i soldati partecipano al tripudio intonando il coro Siamo figli d’Inghilterra. Quasi come un fantasma, agitandosi tra le tombe, si mostra Riccardo ferito, ma sempre fiero, il quale in delirio rievoca momenti della battaglia e rivendica di essere il re concludendo il suo monologo con i celebri versi Mi date un cavallo! E il regno vi do prima di stramazzare al suolo morto.
Si ringraziano il nostro Gabriele Verdinelli e Antonio Ligios, autore dell’unica importante monografia su Canepa, per aver fornito il materiale per questo articolo.