Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“LUISA MILLER”
Melodramma tragico in tre atti di Salvatore Cammarano, ispirato a Kabale und Liebe di Friedrich von Schiller
Musica Giuseppe Verdi
Il conte di Walter DMITRY BELOSSELSKIY
Rodolfo VINCENZO COSTANZO
Federica MARÍA JOSÉ MONTIEL
Wurm JOHN RELYEA
Miller LEO NUCCI
Luisa LANA KOS
Laura MARINA RODRÍGUEZ-CUSÍ
Un paesano CÉSAR DE FRUTOS
Orquesta y Coro Titulares del Teatro Real
Direttore James Conlon
Maestro del Coro Andrés Máspero
Madrid, 26 aprile 2016
Dopo l’ubriacatura registico-scenografica del Parsifal di Claus Guth, la Luisa Miller che il Teatro Real de Madrid propone in forma di concerto sembra l’agognato ritorno a un mondo dell’opera sorgivo e autentico, a quel senso di teatralità e drammaticità che scaturisce interamente dalla partitura, senza bisogno di cervellotiche sovrastrutture ermeneutiche. In più, la stessa Luisa Miller offre l’occasione di accogliere il ritorno di Leo Nucci a Madrid, e per ascoltare il suo terzo “padre” verdiano al Teatro Real, dopo Germont e Rigoletto. E poi, in somma delle somme, finalmente è l’occasione di prestare attenzione con agio a voci di grande interesse, di qualità pregiata, che è un piacere ascoltare: la commovente esperienza di Leo Nucci, la giovanile esuberanza di Vincenzo Costanzo, lo squillo e le tinte espressive di Lana Kos, la protervia vocale del “malvagio” Dmitry Belosselskiy … Tutto si può riassumere in espressioni brevi, quanto è istantanea e immediata la gioia che ogni momento dell’esecuzione offre; ma la congerie di tanti momenti vocali notevoli si trasforma in esperienza indimenticabile.
Un insistito rallentamento nei segmenti della modulazione centrale, poi una lunga pausa dopo le frasi di raccordo del clarinetto, e quindi il tema principale in tutta la sua luminosa versione in maggiore: così James Conlon individua il punto centrale della sinfonia, non sulla base di un rispecchiamento della vicenda che segue (da lieta a tragica), bensì analizzando l’ouverture nella sua piena autonomia (da lugubre a raggiante). Di ogni numero, poi, Conlon scandisce con precisione il nervosismo interno, con più attenzione agli accenti che non alle melodie. È molto bello assistere all’intesa tra direttore e cantanti: liberi dai vincoli del palcoscenico, tutti quanti possono interagire più facilmente, Conlon dando sempre gli attacchi, i cantanti rispondendo molto precisamente alle richieste direttoriali. L’Orquesta Titular del Teatro Real è in ottima forma, e grazie alle attenzioni di Conlon, in particolare per il primo clarinetto, viole e violoncelli, contribuisce alla ricerca di quello specifico suono che è, già in Luisa Miller, il “colore verdiano”.
Lana Kos, la protagonista dell’opera, entra in scena sicurissima, sgranando ottime agilità e potenti messe di voce; i suoi armonici risaltano in particolare nel registro acuto, ma il soprano sa curare nel dettaglio l’interpretazione anche con mezze voci suadenti. Il meglio delle sue doti espressive è nel III atto, quando con voce sbiancata e volutamente atona, la Kos simula la «calma funesta» notata dal padre, e si prepara a un progetto di suicidio; grazie all’aplomb della cantante è come se improvvisamente Luisa si trasformasse in Lucia, in Elvira o in un altro personaggio alienato del melodramma italiano del primo Ottocento (trascendendo, così, i limiti sociali in cui è relegata dal libretto – «Ella nata in un villaggio …» – e diventando unico modello femminile dell’opera). Il giovane Vincenzo Costanzo, diversamente dalla sua partner, esordisce con un certo impaccio, e con qualche piccola failure nell’intonazione, ma poi si riprende e mantiene apprezzabile scioltezza di recitazione per tutta l’opera. La voce di questo tenore è molto bella, pregevole per il timbro, per il volume e per una proiezione del suono che non sembra richiedergli alcuno sforzo. Sulle modalità di utilizzo di tale voce privilegiata, tuttavia, si potrebbe discorrere a lungo; in primo luogo, chiedendosi se Costanzo stia affrontando il repertorio più adatto alla sua natura vocale. Quello di Rodolfo è infatti un ruolo di tenore lirico, ma già tendente al drammatico; Costanzo ha già cantato ruoli verdiani analoghi (in opere come Macbeth, Simon Boccanegra, appunto Luisa Miller) ma si è anche cimentato in Traviata. Non si vorrebbe che una voce così bella, naturale e promettente aggredisse troppo presto un repertorio di tenore lirico-spinto; l’artista appare infatti troppo preoccupato che la sua emissione sia sempre forte e sovraccarica, e questo gli costa ovviamente uno sforzo, che paga in termini di acuti non sempre saldi, e di singulti fuori luogo (per esempio al termine del duettino con Federica o di «Quando le sere al placido»). Nella scena principale della sua parte Costanzo vorrebbe risolvere tutto con la forza e la fibra, ma così tralascia mezze tinte e fraseggio, mettendo a repentaglio anche l’intonazione della conclusiva cabaletta.
Leo Nucci è semplicemente straordinario, non solo per come riesce a controllare l’emissione vocale o per come interpreta il ruolo di Miller, in tutta la sua linea di canto non si riscontra alcun cedimento alla tentazione del parlato. All’età di settantaquattro anni, un’impeccabile tecnica di respirazione fa sì che l’oscillazione sia ridotta al minimo, o del tutto assente, che i portamenti siano tenuti sotto controllo, e che la voce possa modularsi senza difficoltà dal pianissimo al fortissimo. Ricordare la persuasività scenica di Nucci e la sua efficacia espressiva è come portare vasi a Samo: non ce n’è proprio bisogno, perché si tratta di attitudini connaturate al suo essere artista; e tuttavia, esse suscitano sempre stupore commosso, in frasi come «Non son tiranno, padre son io» (con smorzatura sulla parola chiave), o «Forse talor le ciglia / noi bagnerem di pianto», per limitarsi a due soli esempi, in apertura e in chiusura dell’opera.
Dmitry Belosselskiy è un basso che negli ultimi anni ha vissuto una crescita artistica personale molto interessante: il ruolo e la tessitura del Conte di Walter gli si attagliano benissimo, e si comprende come quest’esito sia il frutto di uno studio prolungato. Prima di tutto, la dizione italiana è molto chiara e corretta, e questo fa sì che possa presentare in modo convincente anche le ragioni di un “altro” padre, opposte a quelle di Miller, ma che la musica verdiana rende ugualmente plausibili (Walter è un padre troppo ambizioso e tirannico, che per amore del figlio diventa anche assassino). In secondo luogo, la voce di Belosselskiy è vigorosa, omogenea nel registro, né troppo chiara né eccessivamente scura, molto salda negli acuti. A lui si accompagna spesso il Wurm di John Relyea, espressivo e convincente, profondo nella cavata, anche se a volte calca un po’ troppo su un’emissione bassa quasi caricaturale. Molto buono il duetto dei bassi nel II atto, perché le rispettive voci sono comunque molto differenti tra loro: squillante negli acuti quella di Belosselskiy, lugubre e tombale quella di Relyea. La Federica di María José Montiel è complessivamente buona, anche se discontinua, perché la voce risulta calda, vibrante, colma di emotività nel registro centrale e acuto, ma deformata in quello basso; pertanto i momenti più drammatici dei due duettini non sono del tutto persuasivi. Compatto dietro l’orchestra, il Coro del Teatro Real preparato da Andrés Máspero fornisce un’ottima prova, corroborando tutti gli snodi narrativi della vicenda con giuste proporzioni. A questo proposito il momento più emozionante è certamente il concertato che precede il finale I, quando il pubblico del Teatro Real prorompe in applausi scroscianti per tutti gli interpreti; nel seguito dell’opera l’entusiasmo va crescendo, in modo che ciascun cantante sia debitamente festeggiato e onorato con molti apprezzamenti, insieme a direttore, orchestra e coro. Alla fine, come prevedibile, l’ovazione più prolungata e colma di affetto è per Leo Nucci, anche da parte dei suoi colleghi. Foto Teatro Real © Javier del Real