Madrid, Teatro Real, Temporada 2015-2016
“SACRE”
Spettacolo di danza in tre parti (L’Après-midi d’un faune – Scène d’amour – Sacre)
Coreografia Sasha Waltz
Musica Claude Debussy, Hector Berlioz, Igor Stravinski
Compagnia di Balletto Sasha Waltz & Guests
Orquesta Titular del Teatro Real
Direttore Titus Engel
Scenografia Pia Maier Schriever, Sasha Waltz
Costumi GIOM / Guillaume Bruère (L’Après-midi d’un faune), Bernd Skodzig (Scène d’amour – Sacre)
Luci Martin Hauk, Thilo Reuter
Ballerini LORENA JUSTRIBÓ MANION, YGAL TSUR
Corpo di Ballo Sasha Waltz & Guests
Coproduzione Teatro Real di Madrid, Teatro Mariinski di San Pietroburgo, Théâtre Royal de la Monnaie di Bruxelles
Madrid, 10 marzo 2016
“Ciò che è contrario alla natura, non è bello”. Così, circa un secolo fa, diceva Isadora Duncan a proposito dell’arte, e in particolare della danza. Il Teatro Real di Madrid continua la sua stagione di balletto con un’artista dallo stile controcorrente, e chiama alla sua ribalta una donna attratta dal rapporto tra la natura primitiva, i gesti e le azioni ancestrali di un’umanità molto lontana nel tempo, proprio in un periodo in cui nei teatri vige la tendenza opposta: quella di modernizzare tutto, di esprimere in termini post-moderni e tecnologici il repertorio coreutico del passato, anche quello più classico. Sasha Waltz, nata a Karlsruhe, di formazione tedesca e statunitense, si è sempre distinta per un’inquietudine particolare, sin dalle produzioni di quando era appena laureata: due coreografie realizzate quasi in contemporanea, Zweiland e Körper, dense di impegno civile e politico; la prima dedicata all’unione delle due Germanie (appunto le ‘due terre’ del titolo), la seconda in memoria delle vittime della Shoah. Nel 1993 fonda a Berlino insieme a Jochen Sandig la compagnia che porta il suo nome e tre anni dopo inaugura, sempre insieme a Sandig, il Sophiensaele, un nuovo teatro dedicato alla sperimentazione e alla riproposta del repertorio. Ma più che a tutto questo, Sasha Waltz è legata all’esplorazione dell’universo religioso e naturale, alla resa plastica di un originario rapporto con il divino e con la natura intrisa di esso. Appunto sulla base di tali predilezioni è nata nel 2013 la trilogia Sacre, che unisce suggestioni musicali molto diverse senza la pretesa di armonizzarle o di creare una vicenda narrativamente rintracciabile. Il titolo complessivo deriva ovviamente da Stravinski, il cui Sacre costituisce la terza parte, una sorta di apice della climax, che in precedenza si articola con Debussy e Berlioz.
Appena si apre il sipario compare una scena sovraccarica di luce e di colori primari, forti, abbacinanti, continuamente ricomposti dalla mobilità dei danzatori e dei loro costumi ugualmente policromi; il primo pensiero che viene in mente è quello del caleidoscopio, di cui tutti i bambini da piccoli fanno esperienza: è il movimento, anche minimo, che disegna quadri simmetrici e mobilissimi, ricchi di colori e di forme geometriche in continua evoluzione. Sasha Waltz si affida all’ora panica del Prélude à l’aprés-midi d’un faune per osservare il mondo nella sua particolarità minuta e da vicino (in musica, dall’enigmatico assolo iniziale del fluato fino al pieno orchestrale); scomposizione e diffrazione del colore avvengono con movimenti estremamente lenti, adeguati al tempo di Debussy. Ma tutto il tripudio del colore non ha nulla di mistico; al contrario, l’intenzione stilistica più evidente è l’aderenza al terreno: nel corso dell’intera coreografia i danzatori (gran parte del corpo di ballo, senza interventi solistici) non si staccano mai da terra, non si cimentano mai in alcun salto; è sempre la terra ad attirarli a sé, perché è dalla terra che sorge il mistero del suono e del colore stesso (in altre parole, della percezione uditiva e visiva).
Il quadro centrale del trittico è un ritorno all’Ottocento, romantico e sognante, perché la musica è tratta da Roméo et Juliette di Berlioz. Ma la scelta apparentemente incongrua non deve ingannare: con la seconda parte la coreografa sta infatti perlustrando un modello esemplare di un’altra percezione sensoriale, quella dell’amore fisico tra due giovani. Per questo vuole ricorrere a una delle scènes d’amour più celebrate in tutta la storia della danza. Strutturalmente, la coreografia che la Waltz costruisce per Berlioz è opposta rispetto alla precedente. Se la musica di Debussy era animata da tutto il corpo di ballo, e quindi si presentava come una scena corale, in Berlioz compaiono soltanto due interpreti, e si tratta ovviamente dei personaggi shakespeariani. L’impianto coreografico è tutto caratterizzato da una musicalità molto studiata, applicata alle movenze dei due amanti, in modo tale che esse colmino il palcoscenico del Teatro Real – abbastanza grande e profondo – con voli e proiezioni di ampio respiro; abbondano le prese, ma di un tipo non classico; nel passo a due, in particolare, pur interagendo tra loro, i ballerini Lorena Justribó Manion e Ygal Tsur percorrono tutto lo spazio disponibile in ampi giri e volute, come per dare vita e animare tutto il mondo che li circonda; con la forza dell’amore, ovviamente. I due solisti sono tecnicamente molto capaci, ma ancora più efficace è la loro resa interpretativa, ubertosa di tenerezza eppure sempre leggera. Il pubblico madrileno è conquistato dalla presenza scenica della coppia, e le tributa l’applauso più intenso di tutta la serata.
Il Sacre du printemps di Stravinski risale al 1913, dunque a più di un secolo fa. Oggi si può affermare che sia l’opera musicale del Novecento storico più eseguita, tra sale di concerto e palcoscenici teatrali, come “classico” della danza contemporanea, ma da riscrivere sempre. L’elenco delle interpretazioni coreografiche del Sacre sarebbe infatti lunghissimo; per citare soltanto i nomi più illustri che si sono dedicati a reinterpretare la difficile partitura si possono ricordare Marta Graham (1930), prima come étoile del New York Ballet, poi come coreografa, Maurice Béjart (1959), Pina Bausch (1975); tutti eredi della stagione modernista di Vaclav Nijinski, creatore della prima coreografia a Parigi, appunto nel 1913. La nuova produzione di Sasha Waltz risale esattamente a un secolo più tardi, quando il Teatro Mariinski di San Pietroburgo le commissiona il lavoro della centenaria ricorrenza. A differenza dei due numeri precedenti, questo evoca subito il paesaggio comunitario di una società primitiva: al centro del palco è un tumulo di segatura di colore molto scuro, che rappresenta naturalmente la Terra, nell’ipostasi di dea madre, generosa e terribile, fruttifera e al tempo stesso esigente tributi e sacrifici; anche i costumi sono tutti improntati a tonalità scure e terragne. Le mosse dei danzatori, poi, sono di una dinamica selvaggia, seppure non violenta né scomposta; emula infatti i rituali religiosi di una tribù. E per questo la regista ha di nuovo bisogno dell’intero corpo di ballo, arricchito dalla presenza di due bambini. Il pubblico dunque ha modo di assistere a una sorta di documentario sulla vita di questa tribù, apprendendo come si dedica alla caccia, alla procreazione, all’agricoltura, alla religione. Tutte le forme di percezione prima analizzate singolarmente ora si fondono nella complessità di un corpo sociale primordiale, compatto e inesorabile nelle sue leggi crudeli. Sasha Waltz ha avuto buon gioco nel dare forma plastica alla geniale partitura di Stravinski; per esempio, tutti i segnali percussivi dell’orchestra innescano altrettanti accorgimenti coreografici. Si può anzi dire che il rispetto della partitura sia stato l’obbiettivo primario del suo lavoro, quasi un omaggio programmatico all’opera musicale. Il balletto termina con il sacrificio, conformemente al programma originario del compositore; nel momento in cui si scatena l’azione violenta, scende dall’alto una lancia puntata sulla fanciulla da immolare, mentre tutti gli altri figuranti si allontanano. Per rimarcare la primitività di questa scena, la regista ha voluto che la donna sacrificata restasse sulla scena del tutto nuda, sola e inondata dalla luce.
Una nota elogiativa va spesa per il direttore d’orchestra, lo zurighese Titus Engel, noto per il suo eclettismo e la frequentazione di un repertorio operistico molto vasto; alla guida della Orchestra del Teatro Real, ha saputo mantenere tempi equilibrati e dinamici, mossi da costante vitalità. Il pubblico madrileno è molto caloroso: al termine apprezza moltissimo la trilogia e rende un prolungato omaggio a tutto il corpo di ballo, inducendolo a quattro uscite. Foto Teatro Real de Madrid