Opera di Firenze – Stagione Opera e Balletto 2015/2016
“L’ITALIANA IN ALGERI”
Dramma giocoso in due atti su libretto di Angelo Anelli
Musica di Gioachino Rossini
Mustafà PIETRO SPAGNOLI
Elvira DAMIANA MIZZI
Zulma LAMIA BEUQUE
Haly SERGIO VITALE
Lindoro BOYD OWEN
Isabella MARIANNA PIZZOLATO
Taddeo OMAR MONTANARI
Orchestra e Coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Bruno Campanella
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia Joan Font
Scene e costumi Joan Guillén
Coreografia e assistente alla regia Xevi Dorca
Luci Albert Faura
Maestro al clavicembalo Angelo Michele Errico
Allestimento del Maggio Musicale Fiorentino, in coproduzione con Teatro Real di Madrid, Opéra National de Bordeaux, Houston Grand Opera
Firenze, 15 marzo 2016
Andata in scena per prima volta nel 1813 a Venezia, L’italiana in Algeri fu la prima opera buffa rossiniana ad ottenere grande successo a livello internazionale, e resta tuttora la sua maggiore vittoria in termini di pura frenetica, se non proprio maniacale assurdità, come nella stretta onomatopeica del finale atto primo e nel rituale del mitico ordine del Pappataci, vetta assoluta del nonsense in musica. Sia Isabella, incarnazione della sicurezza in sé stessi, che Mustafà, affettuosa caricatura del maschio che crede di poter ottenere tutto e che rimane invece solo con un pugno di mosche in mano, sono personaggi memorabilmente e argutamente definiti in musica, e la trama offre enormi opportunità per i cosiddetti concertati dello stupore, in cui la musica e l’azione rimangono statici pur girando sul posto come criceti nella ruota, che erano dopotutto una delle supreme specialità rossiniane. A fianco di queste follie (sempre “organizzate”, per citare il solito Stendhal), si trovano momenti di rarefatta e magica bellezza, come la sublime scena in cui Elvira, Zulma e Lindoro entrano per prender congedo da Mustafà con un Andantino in sol maggiore che pare un minuetto, e che porta ad una transizione di intensità emotiva mozartiana, l’attimo del riconoscimento fra Isabella e Lindoro, in cui Rossini ci cala piano piano e senza farsene accorgere nella tonalità minore e in una serie di modulazioni di ipnotica semplicità. L’italiana in Algeri è sorprendentemente, ed ancor più se si pensa che è stata scritta in ventisette giorni come opera di ripiego dopo che La pietra del paragone, enorme successo pochi mesi prima a Milano, non aveva incontrato invece il favore del pubblico veneziano, un’opera completamente priva di autoimprestiti; certo, ci sono brani delegati ad altri compositori (“Le femmine d’Italia” di Haly e molto probabilmente la cavatina di Lindoro del secondo atto “Oh come il cor di giubilo”, quest’ultima poi sostituita da Rossini stesso con un’aria di sua paternità “Concedi, amor pietoso”). E a questo punto è difficile comprendere come mai si continui, come in quest’allestimento dell’Opera di Firenze, a utilizzare la partitura Kalmus, e non quella Ricordi con l’edizione filologica a cura di Azio Corghi: a parte la questione dell’aria del secondo atto del tenore (come mai al contrario in La Cenerentola la spuria “Vasto teatro è il mondo” è stata definitivamente soppiantata da “Là del ciel nell’arcano profondo”, che è un caso del tutto simile di aria scritta da altri alla prima e poi sostituita da Rossini con una di propria mano in recite successive?), ci vuol poco per rendersi conto che il violoncello che accompagna “Per lui che adoro” è ben più adatto alla sensualità dell’aria rispetto al flauto di tradizione (variante sempre rossiniana, è doveroso sottolinearlo). In ogni caso, questi sono dettagli che, eccezion fatta per alcuni pedanti come il sottoscritto, non toccano minimamente il grande pubblico, accorso numerosissimo per godersi il capolavoro rossiniano. Alla guida di una favolosa Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino (e al sempre eccellente coro guidato da Lorenzo Fratini) era chiamato Bruno Campanella, da vari decenni uno dei massimi specialisti di Rossini e dintorni. Ho ascoltato Campanella alle prese con quest’opera in molte occasioni, e il suo approccio è rimasto fondamentalmente lo stesso, basato sulla ricerca del bel suono a tutti i costi, della levigatezza, del nitore. Il suono di Campanella non è affatto evanescente; ha una sua densità e peso specifico ma sembra galleggiare nello spazio con ineffabile dolcezza; se dovessi riassumerlo lo definirei di eterea plasticità. Il finale del primo atto è meravigliosamente “orchestrato”: ad ogni sillaba si conferisce un colore vocale distinto e il tutto è equilibrato alla perfezione, mentre l’intonazione precisa degli staccati è semplicemente una delizia senza fine. Persino nelle numerose pagine di accompagnamento Campanella riesce a calibrare i suoni conferendo a ciascuno colore e peso legandoli a quelli vocali. Alcuni momenti sono rimasti impressi nella memoria, come lo sbuffo di passione sensuale che riesce a trarre nella suddetta scena del riconoscimento degli amanti, elemento notoriamente del tutto assente in quest’opera, dovuto senz’altro in parte anche alla ben nota scarsa simpatia del compositore nei confronti dei canonici duetti d’amore fra voce maschile e femminile; oppure i portamenti nel terzetto “Pria di dividerci”, che, per quanto non scritti, rendevano il senso di stanchezza psicologica dei tre personaggi in quel dato momento. Alla direzione di Campanella può forse difettare una certa spavalderia e baldanza soprattutto per coloro che sono abituati ad associare il Rossini buffo a qualcosa di più sanguigno e materiale (letture altrettanto legittime, per carità, purché non sfocino nella risata grassa e volgare); per quanto mi riguarda ritengo che la lettura di Campanella privilegi la nobiltà della scrittura rossiniana sacrificando solo in minima parte la ricerca del caricato a tutti i costi. Non è arduo comprendere come Marianna Pizzolato sia una delle Isabelle più in voga del momento: bel timbro che a me, che indulgo spesso nella pratica della cromestesia, fa venire in mente il colore di un vino rosso borgogna; emissione di ottima scuola che ha come ultimo scopo la ricerca dell’omogeneità lungo tutta l’estensione, agilità forse non spericolate al pari di altre virtuose ma senz’altro accurate e precise, ottimo trillo e un bel si naturale come ciliegina sulla torta del rondò. Detto questo, non si può affermare che il mezzosoprano possieda una personalità esuberante, e non è facile cogliere nella sua interpretazione tutti gli aggettivi usati nel libretto per descrivere un personaggio a dir poco debordante. Ultima osservazione: la Pizzolato tende a favorire un un tipo di canto fiorito dolce, di grazia, mentre varie pagine dell’opera, e soprattutto il rondò del secondo atto, richiedono un’agilità di forza per sottolineare l’assertività e determinazione del personaggio. La parola chiave dell’aria è in fondo “coraggiosa” e tale dovrebbe esser anche il piglio con cui si affronta la coloratura. Eccellente sotto ogni punto di vista il Mustafà di Pietro Spagnoli; a fare i pignoli forse si sarebbe desiderata maggior sonorità nell’estremo registro grave, ma questa lieve mancanza si eclissa ove si consideri l’emissione uniforme, il perfetto appoggio sul fiato e relativo immascheramento con il registro acuto raccolto e compatto, i lunghi fiati, la coloratura sgranata, la dizione cristallina e per finire la disinvoltura scenica con un tempismo comico da attore di gran classe. Boyd Owen è un giovanissimo tenore australiano di origine neozelandese, di formazione artistica in parte italiana, che da due o tre anni ha cominciato ad apparire nei cartelloni di alcuni teatri della penisola in ruoli per lo più belcantistici. Tenorino leggero dal timbro chiarissimo, indubbiamente ha alcune doti che fanno bene sperare, soprattutto una notevole estensione in acuto, al momento però non accompagnata da un’emissione tecnicamente del tutto affidabile, per cui gli acuti spesso vengono lanciati in maniera un po’ brada e non sempre controllata. Se “Languir per una bella” è stato tutto sommato discreta, i nodi al pettini si sono fatti subito sentire nel duetto con Mustafà, con le prime avvisaglie di un’agilità poco precisa nei gruppetti, dizione arruffata nei sillabati e con quei si naturali acuti in cui quasi veniva vanificato l’effetto sincope in quanto era costretto a prender fiato in momenti inopportuni. Ancor più palesi si sono fatti nel secondo atto i segni di stanchezza. Niente da eccepire sul Taddeo di Omar Montanari; il timbro ricorda vagamente quello di Bruscantini, l’estensione è notevole per un buffo, e anche il sillabato, quantunque non vorticoso e rapidissimo è più che efficace; inoltre riesce ad esprimere comicità senza indulgere in istrionismi di cattivo gusto. Buono l’Haly di Sergio Vitale; Damiana Mizzi ha fornito quello che il ruolo di Elvira richiede, ovvero un registro acuto sufficientemente penetrante in grado di dominare i concertati, e Lamia Beque, nell’ingratissimo ruolo di Zulma, si è fatta comunque notare per un’indubbia presenza scenica. L’allestimento era quello rodatissimo con la regia di Joan Font e con le scene e i costumi di Joan Guillén; nato a Madrid nel 2009, poi approdato a Firenze l’anno dopo, a Bordeaux nel 2011 e infine a Houston nel 2012 e su cui, per forza di cose, si sono già versati fiumi d’inchiostro. È una produzione che gioca le proprie carte quasi esclusivamente sul lato fiabesco, ed anzi caricaturale della vicenda, affidandosi a un’orgia di colori intensi e elettrici che potrebbero esser parto della mente di un Arlecchino impazzito. Si potrà osservare come molte trovate in realtà si ritrovino in precedenti allestimenti ben più blasonati, e che alcune “gag”, come quella degli eunuchi effeminati, saranno forse divertenti una prima volta, ma diventano irritanti e di dubbio gusto se riprese costantemente. Non si può negare che l’occhio della spettatore possa esser sorpreso e accattivato da tanta sgargiante brillantezza, ma ci si rende poi presto conto non è tutto oro quel che luccica. Lo spettacolo è stato comunque ricevuto con molto calore dal pubblico che a quanto pare sta fortunatamente tornando a riempire il teatro di Firenze, riservando qualche dissenso isolato al tenore. Foto © Simone Donati – TerraProject – Contrasto