Pisa, Teatro Verdi – Stagione Lirica 2015/2016
“MEFISTOFELE”
Opera in un prologo, quattro atti e un epilogo su libretto di Arrigo Boito da Goethe
Musica di Arrigo Boito
Mefistofele GIACOMO PRESTIA
Faust ANTONELLO PALOMBI
Margherita VALERIA SEPE
Marta SANDRA BUONGRAZIO
Wagner SERGIO DOS SANTOS
Elena ELISABETTA FARRIS
Pantalis MOON JIN KIM
Nerèo SERGIO DOS SANTOS
Orchestra della Toscana
CLT Coro Lirico Toscano, Coro dell’Università di Pisa, Laboratorio Lirico San Nicola
Pueri Cantores di San Nicola e Santa Lucia
CLT Coro Lirico Toscano, Coro dell’Università di Pisa, Laboratorio Lirico San Nicola
Pueri Cantores di San Nicola e Santa Lucia
Direttore Francesco Pasqualetti
Direttori di Coroo Marco Bargagna, Stefano Barandoni, Emma Zanesi
Regia Enrico Stinchelli
Scene Biagio Fersini su ideazione di Enrico Stinchelli
Videomaker MAV Mad About Video di Malta
Disegno Luci Michele Della Mea
Nuovo allestimento del Teatro di Pisa
Coproduzione Teatro di Pisa, Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Sociale di Rovigo
Pisa, 18 marzo 2016.
Tutto si può dire di Marcello Lippi, direttore artistico delle attività musicali del Teatro di Pisa, tranne che manchi di coraggio e visione artistica. In questi anni infatti, oltre al solito grande repertorio essenziale alla sopravvivenza di qualsiasi teatro di tradizione, ha inserito opere desuete, spesso in prima assoluta o italiana, e adesso, dopo aver concluso il riuscitissimo ciclo sul personaggio di Don Giovanni in musica, dà il via ad un’operazione analoga con l’esplorazione di un altro enorme mito, quello di Faust, con la messinscena del Mefistofele di Arrigo Boito, opera difficilissima da allestire per l’enorme quantità di forze corali, orchestrali, i costanti cambi di scene; è un’opera “kolossal” un tempo molto più presente nei cartelloni dei teatri, e che adesso al contrario quasi sempre si propone solo ove via sia un basso superstar che la esiga (ed infatti ha avuto una specie di rinascita internazionale più o meno negli anni ’90 quando era Samuel Ramey ad imporla). In poche parole è un’opera da far tremare i polsi anche agli amministratori dei grandi teatri, per cui tanto di cappello a un teatro di tradizione che affronti quest’impresa. La prima assoluta del Mefistofele, avvenuta al Teatro alla Scala nel 1868, fu uno dei fiaschi più umilianti della storia del melodramma. Torelli Vollieri, critico della Gazzetta di Milano scrisse che lo strepito del pubblico fu tale che “se un’ala del Teatro alla Scala fosse crollata, la sua rovina non avrebbe prodotto una sensazione più profonda”. Ebbe soltanto una replica, suddivisa in due serate, che ricevettero la stessa ostile accoglienza, imputata solitamente a diversi fattori: l’eccessiva lunghezza dell’opera, l’inesperienza di Boito, figura già controversa e polarizzante, pari solo alla sua “hubris”, la controproducente esasperata promozione da parte dei suoi sostenitori, i giovani Scapigliati, che la sbandieravano come l’opera in grado di risollevare le sorti dell’opera italiana, atteggiamento che mal predispose e alienò il pubblico conservatore del Teatro alla Scala. Quel che i milanesi udirono (se ci mai ci riuscirono fra il rumore dei fischi) è in ogni caso un’opera profondamente diversa da quella che conosciamo adesso. Negli anni successivi, mentre si leccava le ferite, Boito comprese di dover venire incontro in qualche misura alle esigenze del grande pubblico, e iniziò una revisione estesissima che comprese il taglio di intere scene (quella alla corte dell’Imperatore e la Sinfonia della Battaglia), l’eliminazione dei dialoghi di prosa, e il cambio di registro vocale di Faust, che da baritono divenne un più convenzionale tenore. Trasformò il coro “La luna immobile” in un duetto fra soprano e contralto, accorciò il dialogo fra Faust e Wagner nel primo atto, inserì il duetto “Lontano, lontano lontano” prendendolo in prestito da Ero e Leandro, un’opera abortita, apportò revisioni alle arie di Faust e Margherita, e aggiustò l’orchestrazione: insomma non vi fu pagina che non venne in qualche modo modificata, e in questa guisa l’opera venne riproposta, con successo, nel 1875 a Bologna (covo wagneriano per antonomasia) con un ottimo cast, fra cui spiccavano il tenore Italo Campanini e il soprano Erminia Borghi-Mamo, per la quale, l’anno dopo scrisse “Spunta l’aurora pallida”, in occasione di una produzione veneziana che divenne la versione definitiva. Da notare che in questi allestimenti, nonché nelle esecuzioni che ben presto seguirono anche all’estero, un unico soprano rivestiva i due ruoli, Margherita e Elena, in quanto Boito desiderava così enfatizzare il concetto di “das ewige- Weibliche”, l’eterno femminino goethiano.
Il Teatro di Pisa è arrivato preparato a questo fatidico appuntamento, reclutando, oltre alla ottima Orchestra della Toscana, ben tre cori: innanzitutto il CLT Coro Lirico della Toscana, diretto da Marco Bargagna, Il Coro dell’Università di Pisa e il Laboratorio Lirico San Nicola sotto la guida di Stefano Barandoni, e i Pueri Cantores di San Nicola e Santa Lucia diretti da Emma Zanesi, per un totale di 250 voci che hanno contribuito a creare un vero e proprio parossismo musicale nel Prologo e nell’Epilogo. Sul podio, in controllo di tante e tali forze corali e orchestrali, Francesco Pasqualetti, un giovane direttore alle prese con una partitura che ha sconfitto molti dei più grandi direttori del passato, ha offerto una lettura convincente ed equilibrata, circondando i cantanti con maestosa sensitività e potenza, producendo un suono pieno, ricco e compatto. Buona era la differenziazione fra i cori, quello celestiale misterioso nella sua spiritualità, quello terrestre divertente e privo di goffaggine, quello infernale venato da sfumature sinistre che a volte rasentavano un’appropriata comicità. Pasqualetti ha saputo dosare grandeur e patetismo e anche divertita ironia come nella difficile scena del giardino, un momento di pura opera buffa di difficile esecuzione a causa di quel complicato marchingegno di sincopi. Che fosse un direttore tecnicamente preparato lo si era avvertito anche nel Don Giovanni della stagione scorsa, in cui, come già scrissi, latitava quella personalità che al contrario è qui venuta alla luce. La partitura è stata eseguita integralmente, eccezion fatta per un taglio – nel Prologo – nel coro dei cherubini da “Un giorno nel fango mortale” a “ Fratelli teniamci per mano”.
Giacomo Prestia, al debutto nel ruolo eponimo dopo ben venticinque anni di onorata carriera, è uscito a testa alta dal confronto con una parte considerata punto d’arrivo per la corda di basso, una parte “mostruosa” per estensione, tessitura, e soprattutto di difficilissima interpretazione scenico-musicale, in bilico com’è fra il grottesco, il demonico, il cinico, il sarcastico. Pochissimi bassi, seguendo le proprie caratteristiche vocali, hanno saputo cogliere e dare il giusto dosaggio a tanti ingredienti: Prestia, basso cantante, ha forse più rilievo al lato “mondano” del personaggio, laddove un basso profondo spesso è più idoneo a sottolineare quello tenebroso e satanico. La musica composta da Boito per Mefistofele è stata spessissimo oggetto di critiche per la sua presunta trivialità, mentre dovrebbe esser chiaro a tutti che la scrittura vocale del protagonista drammatizza con curiosa arguzia non solo l’umorismo brutale del diavolo ma anche il suo senso eterno di irrilevanza di fronte a Dio: è la musica della frustrazione cosmica. Prestia affronta i lunghi recitativi con grande varietà di accenti, notevole senso ritmico, fraseggio arguto e sempre pertinente, con una vocalità sana e buona emissione. Sarebbe auspicabile una maggior autorità teatrale e un più forte senso di minaccia e pericolo, ma un ruolo come questo non si matura se non dopo numerose esecuzioni.
Antonello Palombi (Faust) è stato nel corso della recita causa di leggera frustrazione in quanto pareva non voler dar libero sfogo ai suoi notevoli mezzi vocali, e quindi non ha se non in parte fornito quell’estasi, quel rapimento eroico che dona al personaggio valore e significato filosofico; si è rilevato più efficace in quei momenti di intimità e tenerezza, risultato un poco paradossale per un tenore generalmente noto e apprezzato per timbro cristallino, ricchezza di armonici, volume e generosità vocale. Il ruolo è lungo, difficile, costantemente martellante sul passaggio di registro e a conti fatti, con le obiezioni appena esposte Palombi lo ha portato in fondo più che dignitosamente. Ottima Valeria Sepe, giovane soprano dal bel timbro da lirico puro in costante crescita artistica: nel plasmare la sua Margherita ha mostrato di saper usare un’ampia tavolozza di colori, di esser commovente e di modulare la musica senza indulgere in inopportuni accenti enfatici da magniloquente tragedienne: è in fin dei conti una povera contadina che muore, non una diva come Adriana Lecouvreur, e la sfinita, disillusa, rassegnata, dignitosa semplicità con cui ha sussurrato “Enrico, mi fai ribrezzo” è arrivata come un colpo al cuore. Vocalmente la Sepe, oltre che per la bellezza del timbro, si distingue per un registro acuto raccolto e compatto.
Nonostante preferisca lo stesso soprano nei due ruoli, devo ammettere che Elisabetta Ferris ha raffigurato un’Elena pressoché completa: dolce e languida nei duetti nonché altisonante tragedienne (sì, qui bisogna esser proprio tale) negli esametri del drammatico racconto della presa di Troia, in cui ha sfoggiato considerevole volume e potenza vocale, dei gravi da far invidia a un mezzosoprano (bello e ben controllato il la naturale grave), e nel concertato successivo un do acuto enorme, tagliente e sicurissimo. Completavano il cast con professionalità Sandra Buongrazio (Marta), Moon Jin Kim (una Pantalis con suggestive discese verso il sol grave) e Sergio Dos Santos (nei due ruoli di Wagner e Nerèo). L’allestimento di Enrico Stinchelli si basava principalmente sull’uso di proiezioni, validissima scelta artistica quando si è di fronte a un budget sicuramente non illimitato per un’opera, ripetiamolo, costosissima da mettere in scena, soprattutto poi se l’utilizzo delle proiezioni è fatto con eleganza e maestria su uno schermo semitrasparente posto a pochi metri dal proscenio e che ha creato un effetto tridimensionale. In tale contesto il magistrale gioco di luci di Michele Della Mea si è rivelato essenziale all’ottenimento dell’effetto. Come al solito, teatro esaurito e pubblico entusiasta. Il Teatro di Pisa ha raccolto una sfida al limite delle possibilità per un teatro di tradizione, e l’ha vinta. Foto Massimo D’Amato
Il Teatro di Pisa è arrivato preparato a questo fatidico appuntamento, reclutando, oltre alla ottima Orchestra della Toscana, ben tre cori: innanzitutto il CLT Coro Lirico della Toscana, diretto da Marco Bargagna, Il Coro dell’Università di Pisa e il Laboratorio Lirico San Nicola sotto la guida di Stefano Barandoni, e i Pueri Cantores di San Nicola e Santa Lucia diretti da Emma Zanesi, per un totale di 250 voci che hanno contribuito a creare un vero e proprio parossismo musicale nel Prologo e nell’Epilogo. Sul podio, in controllo di tante e tali forze corali e orchestrali, Francesco Pasqualetti, un giovane direttore alle prese con una partitura che ha sconfitto molti dei più grandi direttori del passato, ha offerto una lettura convincente ed equilibrata, circondando i cantanti con maestosa sensitività e potenza, producendo un suono pieno, ricco e compatto. Buona era la differenziazione fra i cori, quello celestiale misterioso nella sua spiritualità, quello terrestre divertente e privo di goffaggine, quello infernale venato da sfumature sinistre che a volte rasentavano un’appropriata comicità. Pasqualetti ha saputo dosare grandeur e patetismo e anche divertita ironia come nella difficile scena del giardino, un momento di pura opera buffa di difficile esecuzione a causa di quel complicato marchingegno di sincopi. Che fosse un direttore tecnicamente preparato lo si era avvertito anche nel Don Giovanni della stagione scorsa, in cui, come già scrissi, latitava quella personalità che al contrario è qui venuta alla luce. La partitura è stata eseguita integralmente, eccezion fatta per un taglio – nel Prologo – nel coro dei cherubini da “Un giorno nel fango mortale” a “ Fratelli teniamci per mano”.
Giacomo Prestia, al debutto nel ruolo eponimo dopo ben venticinque anni di onorata carriera, è uscito a testa alta dal confronto con una parte considerata punto d’arrivo per la corda di basso, una parte “mostruosa” per estensione, tessitura, e soprattutto di difficilissima interpretazione scenico-musicale, in bilico com’è fra il grottesco, il demonico, il cinico, il sarcastico. Pochissimi bassi, seguendo le proprie caratteristiche vocali, hanno saputo cogliere e dare il giusto dosaggio a tanti ingredienti: Prestia, basso cantante, ha forse più rilievo al lato “mondano” del personaggio, laddove un basso profondo spesso è più idoneo a sottolineare quello tenebroso e satanico. La musica composta da Boito per Mefistofele è stata spessissimo oggetto di critiche per la sua presunta trivialità, mentre dovrebbe esser chiaro a tutti che la scrittura vocale del protagonista drammatizza con curiosa arguzia non solo l’umorismo brutale del diavolo ma anche il suo senso eterno di irrilevanza di fronte a Dio: è la musica della frustrazione cosmica. Prestia affronta i lunghi recitativi con grande varietà di accenti, notevole senso ritmico, fraseggio arguto e sempre pertinente, con una vocalità sana e buona emissione. Sarebbe auspicabile una maggior autorità teatrale e un più forte senso di minaccia e pericolo, ma un ruolo come questo non si matura se non dopo numerose esecuzioni.
Antonello Palombi (Faust) è stato nel corso della recita causa di leggera frustrazione in quanto pareva non voler dar libero sfogo ai suoi notevoli mezzi vocali, e quindi non ha se non in parte fornito quell’estasi, quel rapimento eroico che dona al personaggio valore e significato filosofico; si è rilevato più efficace in quei momenti di intimità e tenerezza, risultato un poco paradossale per un tenore generalmente noto e apprezzato per timbro cristallino, ricchezza di armonici, volume e generosità vocale. Il ruolo è lungo, difficile, costantemente martellante sul passaggio di registro e a conti fatti, con le obiezioni appena esposte Palombi lo ha portato in fondo più che dignitosamente. Ottima Valeria Sepe, giovane soprano dal bel timbro da lirico puro in costante crescita artistica: nel plasmare la sua Margherita ha mostrato di saper usare un’ampia tavolozza di colori, di esser commovente e di modulare la musica senza indulgere in inopportuni accenti enfatici da magniloquente tragedienne: è in fin dei conti una povera contadina che muore, non una diva come Adriana Lecouvreur, e la sfinita, disillusa, rassegnata, dignitosa semplicità con cui ha sussurrato “Enrico, mi fai ribrezzo” è arrivata come un colpo al cuore. Vocalmente la Sepe, oltre che per la bellezza del timbro, si distingue per un registro acuto raccolto e compatto.
Nonostante preferisca lo stesso soprano nei due ruoli, devo ammettere che Elisabetta Ferris ha raffigurato un’Elena pressoché completa: dolce e languida nei duetti nonché altisonante tragedienne (sì, qui bisogna esser proprio tale) negli esametri del drammatico racconto della presa di Troia, in cui ha sfoggiato considerevole volume e potenza vocale, dei gravi da far invidia a un mezzosoprano (bello e ben controllato il la naturale grave), e nel concertato successivo un do acuto enorme, tagliente e sicurissimo. Completavano il cast con professionalità Sandra Buongrazio (Marta), Moon Jin Kim (una Pantalis con suggestive discese verso il sol grave) e Sergio Dos Santos (nei due ruoli di Wagner e Nerèo). L’allestimento di Enrico Stinchelli si basava principalmente sull’uso di proiezioni, validissima scelta artistica quando si è di fronte a un budget sicuramente non illimitato per un’opera, ripetiamolo, costosissima da mettere in scena, soprattutto poi se l’utilizzo delle proiezioni è fatto con eleganza e maestria su uno schermo semitrasparente posto a pochi metri dal proscenio e che ha creato un effetto tridimensionale. In tale contesto il magistrale gioco di luci di Michele Della Mea si è rivelato essenziale all’ottenimento dell’effetto. Come al solito, teatro esaurito e pubblico entusiasta. Il Teatro di Pisa ha raccolto una sfida al limite delle possibilità per un teatro di tradizione, e l’ha vinta. Foto Massimo D’Amato