Torino, Teatro Regio, Stagione Lirica 2015/2016
“TOSCA”
Melodramma in tre atti su libretto di Luigi Illica e Giuseppe Giacosa dal dramma La Tosca di Victorien Sardou.
Musica di Giacomo Puccini
Floria Tosca MARÍA JOSÉ SIRI (11) / ELENA ROSSI (10)
Mario Cavaradossi ROBERTO ARONICA (11) / CARLO VENTRE (10)
Scarpia CARLOS ÁLVAREZ (11) / CLAUDIO SGURA (10)
Il sagrestano ROBERTO ABBONDANZA
Spoletta LUCA CASALIN
Angelotti GABRIELE SAGONA
Sciarrone NICOLÒ CERIANI
Un carceriere LORENZO BATTAGION (11) / GIUSEPPE CAPOFERRI (10)
Un pastorello FIAMMETTA PIOVANO (11) / SARA JAHANBAKHSH (10)
Orchestra e Coro del Teatro Regio
Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio «G. Verdi»
Direttore Renato Palumbo
Maestro del Coro Claudio Fenoglio
Regia Daniele Abbado
Scene e costumi Luigi Perego
Luci Valerio Alfieri
Video Luca Scarzella
Allestimento Teatro Regio in coproduzione con Teatro Comunale di Bologna. Produzione originale: Hyogo Performing Arts Center (Nishinomiya, Giappone)
Torino, 10 e 11 febbraio 2016
L’attuale stagione del Regio prevede, accanto a un piccolo numero di nuove produzioni, un numero cospicuo di allestimenti stranieri che giungono per la prima volta in Italia o in Europa. E come “novità per l’Europa” è presentata la nuova regia di Tosca, nata in Giappone e curata da Daniele Abbado. Sennonché lo stesso Abbado, affiancato dallo stesso scenografo-costumista Luigi Perego, aveva messo in scena l’opera più di vent’anni fa proprio al Teatro Regio di Torino, e di quella produzione, ripresa più volte a cavallo del millennio, la nuova Tosca eredita non pochi tratti; ma, a ben vedere, tutte le regie di Tosca si assomigliano, ed è in fondo un bene che così sia, per cui è inevitabile che si debbano cercare nei dettagli i tratti peculiari di ciascuna. Questa si distingue per essere ambientata in epoca fascista – forse l’unico periodo della storia italiana che permetta di posticipare la vicenda senza privarla d’attendibilità drammaturgica, per quanto lasci perplessi la scelta di mutare epoca a un dramma ambientato in una precisa data storica –, e per gli efficaci quadri scenografici, nei quali un numero relativamente limitato di elementi scenici consente di evocare gli ambienti, pur senza volerli descrivere con fedeltà. Nulla aggiungono le proiezioni in bianco e nero sul sipario di sfondo, mentre le luci, plastiche e taglienti, delineano scene di grande impatto drammatico: ne sono esempio il finale II, di gusto caravaggesco, e il monumentale finale I (per quanto non sia liturgicamente appropriato associare il Te Deum a una processione eucaristica). Nel finale ultimo, invece, ha lasciato stupefatti la soluzione adottata per la morte di Tosca, che non si getta nel vuoto, ma cade tramortita accanto all’amante mentre una sua ombra si staglia sullo sfondo. L’azione è curata con attenzione al dettaglio, e spesso affidata al gusto dei cantanti, che la personalizzano dando coerenza ai tratti caratteriali dei personaggi che più sono messi in luce dalle differenti interpretazioni vocali.
È esempio probante di questa riuscita interazione tra voce e scena lo Scarpia tratteggiato da Carlos Álvarez, figura dal nobile contegno la cui perversione si affaccia poco alla volta, come una forma di schizofrenia, che diviene via via incontrollabile a partire dal momento in cui, con grande serietà, il capo della polizia espone, all’inizio del II atto, la propria visione sadica dei piaceri. La lettura offerta da Álvarez poggia su una voce sicura dalla bella linea cantabile, di scuola belcantistica, e su una recitazione espressiva ma mai esagerata. Nettamente diversa, ma non per questo meno pertinente, è la lettura che del personaggio propone Claudio Sgura, interprete del cosiddetto secondo cast, il quale delinea una figura esplicitamente viscida e beffarda, sostenuta da una voce marcatamente timbrata e portata a interpretare ruoli di carattere, e da una presenza scenica violenta. Lo stesso personaggio, in due interpretazioni, è così messo in luce da punti di vista differenti, entrambi leciti e realizzati con talento e intelligenza teatrale. Il tenore Roberto Aronica trova in Cavaradossi uno dei ruoli più appropriati all’attuale situazione del suo strumento, dallo squillo nitido e luminoso – tanto che è stato l’unico interprete a non farsi mai coprire da un’orchestrazione piuttosto pesante, di cui si preciserà oltre –, facile all’acuto vigoroso, come ha dimostrato nella breve ma ardua sortita del II atto (il celebre «Vittoria, vittoria!»). Egli evita sapientemente di forzare l’interpretazione in senso drammatico e di scurire i colori, mantenendo un bell’afflato lirico che si manifesta dall’aria iniziale a «E lucevan le stelle». María José Siri è una Tosca anomala, che si presenta con le movenze bambinesche di chi vuole recitare la parte della ragazza ingenua, infantile, alla quale si addicono alcune spigolosità che la voce assume nel registro più acuto. Si tratta di scelte interpretative che tendono a raffigurare una protagonista calata nel proprio ruolo di attrice fino a quando lo scontro coi drammi della vita non la costringe a mostrare la sua interiorità, che emerge con prepotenza nella seconda metà dell’atto centrale. La tecnica è certamente solida, come dimostra la messa di voce seguita da smorzatura sulla parola «Signore», nel «Vissi d’arte»; anche se resta il dubbio che, in questo momento, altri ruoli siano più adatti alle caratteristiche vocali dell’interprete.
Protagonista del cast alternativo è il soprano Elena Rossi, che di Tosca valorizza i dettagli caratteriali più che la sontuosità del canto: emergono così i momenti spiritosi del suo primo duetto con l’amante, il progressivo insinuarsi del sospetto nel finale I, il dramma del secondo atto, nel quale il ricorso al parlato è più marcato del consueto e l’aria è penetrante più che lirica. Il tenore Carlo Ventre è subentrato a un forfait, e probabilmente a questa ragione è dovuta la sua presenza scenica imbarazzata, basata sulla ripetizione di gesti anonimi e convenzionali che contrastano con la regia curata messa in scena dai suoi colleghi di entrambi i cast. La sua voce tende ad arrochire nel registro grave, mentre in quello acuto subisce una graduale evoluzione che le permette di acquisire lucentezza; il momento più convincente rimane comunque lo stentoreo prorompere del grido di vittoria alla notizia della vera sorte di Napoleone a Marengo. Tra le seconde parti, si è distinto il baritono Roberto Abbondanza, quale sagrestano efficace e simpatico nella sua umanità di figura del quotidiano costretta a confrontarsi con trame più grandi dei suoi orizzonti. Il Coro si è prestigiosamente disimpegnato nei pochi passi riservatigli da Puccini. Detto tutto questo, non si può negare che, pur in presenza di una regia efficace e di interpretazioni vocali corrette e a tratti pregevoli, non si sia avuta la sensazione di assistere a una Tosca veramente compiuta: mancava un impulso, un collante che facesse amalgamare gli ingredienti; mancava, come diversi spettatori notavano, la percezione della passione che dovrebbe attraversare il dramma dall’inizio alla fine. La ragione va forse cercata nel golfo mistico. Questa partitura, a differenza di altre, fatica a entrare nelle vene dell’Orchestra del Regio, non aiutata dalla direzione di Renato Palumbo, che accosta ad alcuni dettagli curati (come il postludio del II atto) una maggioranza di momenti di pura routine, che indulgono al facile mélo soffocando le voci in conglomerati sinfonici indistinti, o le incalzano in passi che dovrebbero essere di stasi lirica. Soltanto nell’ultimo atto è stata finalmente individuata la dimensione pucciniana della vocalità.