Teatro del Giglio – Stagione lirica 2015/16,Laboratorio Lirico per la Lirica 2015
“LA VEDOVA ALLEGRA”
Operetta in tre atti su libretto di Viktor Léon e Leo Stein
dalla commedia L’Attaché d’ambassade di Henri Meilhac
versione italiana di Ferdinando Fontana.
Musica di Franz Lehár
Mirko Zeta CARMINE MONACO
Valencienne MARIKA COLASANTO
Danilo Danilowitsch GIUSEPPE RAIMONDO
Hanna Glawari MARIA RADOEVA
Camille de Rossillon CHRISTIAN COLLIA
Cascada STEFANO MARCHISIO
Raoul de St-Brioche VASYL SOLODKYY
Bogdanowitsch FRANCESCO NAPOLEONI
Sylviane DOMITILLA LAI
Kromow TOMMASO QUANILLI
Olga TERESA GARGANO
Pritschitsch ALFONSO FRANCO
Prakowia ALESSANDRA MASINI
Njegus MARIO BRANCACCIO
Ensemble vocale del Progetto LTL Opera Studio
OGI Orchestra Giovanile Italiana
Direttore Nicola Paszkowski
Regia Fabio Sparvoli
Scene Giuliano Spinelli
Costumi Irene Monti
Coreografie Alessandra Panzavolta
Light Designer Vinicio Cheli
Nuovo allestimento del Teatro del Giglio di Lucca
Coproduzione Teatro del Giglio di Lucca, Teatro Goldoni di Livorno, Teatro di Pisa, Teatro Coccia di Novara.
Lucca, 6 febbraio 2016
Lucca, 6 febbraio 2016
Nel campo dell’operetta La vedova allegra (Die lustige Witve) rimane un capolavoro assoluto. Può attingere ad un pozzo infinito di magnifiche melodie che rimangono sorprendentemente fresche, piene di inventiva e di grazia a distanza di più di centodieci anni dalla sua composizione. Mettendo a confronto La vedova allegra con qualsiasi operetta viennese precedente, anche dei più grandi come Suppé, Johann Strauss, Zeller o Heurberger, rimaniamo sempre stupiti dalle virate, dalle svolte che la partitura prende quasi in ogni punto, e ciò si nota sin da subito nei passaggi trascinanti iniziali che preparano la scena di opulenza e trambusto dell’ambasciata pontevedrina a Parigi con colorazioni orchestrali che mostrano consapevolezza delle innovazioni di Puccini, Debussy e Richard Strauss. Nell’entrata di Hanna sono palpabili le trepidazioni dei corteggiatori e il fascino della sua personalità, mentre in quella di Danilo le tonalità sempre cambianti del verso singolo ritraggono all’istante la sua inaffidabilità, con la radiosa orchestrazione che rende stupendamente l’idea del piacere che lo scapolo incallito trova da Maxim’s. Nella scena del secondo atto in cui la relazione fra Camille e Valencienne raggiunge cime tempestose, la scrittura acquista una magnificenza, un grandeur quasi wagneriano. In moltissimi altri momenti si trovano tocchi orchestrali deliziosi, come ad esempio nel kolo balcanico alla festa di Hanna e nel ritornello della “Vilja” in cui Lehár evita la banalità accompagnando la linea vocale con un violino sostenuto dall’ondeggiante pizzicato degli archi arricchiti dalle tamburizze. Infine, la scrittura di Lehár contiene un erotismo senza precedenti nell’operetta, come nel celebre valzer del terzo atto in cui il violino e il violoncello si intrecciano simbolicamente. Scelta dal Laboratorio Lirico della Toscana 2015, questa produzione della Vedova allegra si è contraddistinta soprattutto per la direzione di Nicola Paszkowski, che dopo l’eccellente Barbiere di Siviglia dello scorso anno (in cui – e gliene sarò grato in eterno – non tagliò neanche una battuta), si avvicina a questo piccolo grande capolavoro intuendone e portandone alla luce le due anime: quella di commedia, se non addirittura farsa, carica di ogni cliché del genere (fraintendimenti, ripicche amorose, battute dai doppi sensi) e quella di malinconico, evanescente ritratto di un mondo al collasso, che infatti sparirà definitivamente una decina d’anni più tardi con la prima guerra mondiale. Non è facile mantenere un equilibrio fra questi due spiriti: ho assistito a numerose produzioni su entrambi i lati dell’Atlantico, ed è innegabile che, mentre gli Americani tendono a enfatizzare la “screwball comedy”, la commedia svitata, gli Europei, e soprattutto i germanofoni preferiscono sdilinquirsi nella dolce-amara nostalgia del bel tempo che fu. Paszkowsi riesce ad ottenere (da un’orchestra giovanile ben più che competente) atmosfere di charme sensuale e di ritmo vivace, unendole in un corpo unico e non in una schizofrenica dualità come mi è toccato di ascoltare in altre occasioni, quando il passaggio dai momenti sognanti a quelli di danza sfrenata avveniva in modo tanto brusco da far saltar sulla sedia. Quando si parla d’operetta si incorre sempre nell’annosa questione se sia preferibile assegnare i ruoli a attori/cantanti o a cantanti/attori. La natura stessa del genere, un misto di parti cantate, recitate, ballate, ove la predominanza spesso viene determinata dai tagli impartiti a ogni singolo allestimento, richiederebbe che ogni cantante fosse anche navigato attore comico, cosa impossibile soprattutto ai nostri giorni in cui il genere dell’operetta, tranne alcuni titoli, è stato praticamente emarginato. Con una compagnia di canto giovanissima come questa il problema si fa ancor più spinoso. In quasi tutte le operette vi sono comunque ruoli che vengono meglio resi da ottimi attori che conoscano per lo meno i rudimenti del canto impostato ed altri in cui, al contrario è imperativo avere dei bravi cantanti che sappiano anche recitare passabilmente; fra quest’ultimi nella Vedova Allegra includerei il ruolo della protagonista ma soprattutto quello di Camille de Rossillon, a Lucca interpretato da Christian Collia, tenorino piuttosto acerbo, in difficoltà soprattutto nelle espansioni liriche e nell’ascesa piuttosto avventurata e poco riuscita verso il do acuto della stupenda romanza “Wie eine Rosenknospe” del secondo atto, il brano più “operistico” dell’operetta. Se non si è sfiorato il disastro come nel Barbiere di Siviglia della scorsa stagione, nessuno a dir la verità fra le quattro parti principali (le due coppie di amorosi) pareva vocalmente maturo, con la parziale eccezione della Valencienne di Marika Colasanto, dal grazioso timbro leggero da soubrette priva comunque di quelle acidità spesso tipiche di questa tipologia vocale. Lehár scrisse il ruolo di Danilo per un tenore buffo, con caratteristiche quindi diverse da quello schiettamente lirico di Camille, anche se la partitura presenta linee vocali alternative per baritono (anzi, in realtà sarebbero i passi più acuti quelli opzionali), che spiegano come mai la pratica più diffusa sia divenuta quella di assegnarlo appunto alla corda media maschile. LTL ha scelto un cantante, Giuseppe Raimondo, che pur essendo nominalmente un tenore, a me – considerando le difficoltà in acuto (se di acuti si può parlare) a me pareva un baritono brillante neanche troppo a proprio agio in basso. Il timbro abbastanza spigoloso, caratterizzato da un vibrato un po’ troppo stretto e durezze in acuto non faceva di Maria Radoeva l’interprete ideale di un ruolo di donna fascinosa, misteriosa, trasudante “glamor”, e non era esattamente prodiga di quel canto sul fiato, di quel gioco di legati, della dolcezza necessaria per la canzone della Vilja, conclusa con un si naturale di tradizione alquanto stridente. Molto convincente il Baron Zeta di Carmine Monaco, dall’ottima dizione in un ruolo più che altro parlato e privo di assoli cantati, e ottimo il Niegus (più partenopeo che pontevedrino) calibrato e divertente dell’attore Mario Brancaccio. Concludevano più che dignitosamente il numeroso cast Stefano Marchisio (Cascada), Vasyl Solodkyy (Raoul de St-Brioche), Francesco Napoleoni (Bogdanowitsch), Domitilla Lai (Sylviane), Teresa Gargano (Olga), Alfonso Franco (Pritschitsch), Alessandra Masini (Praskowia) e Tommaso Quanilli (Kromow) , che è riuscito ad emergere grazie alle battute riservate al suo personaggio. Molto gradevole l’allestimento di Fabio Sparvoli: ambientato negli anni ’20, prevedeva una scena unica di Giuliano Spinelli dominata da una scala circolare che poteva esser girata e quindi creare spazi diversi per i singoli atti: il problema è che molto spesso, non rimaneva molto spazio per i movimenti e soprattutto per le coreografie di Alessandra Panzavolta, soprattutto se si prendono in considerazione i quattro scalini che dal proscenio arrivavano alla pedana principale. In un contesto di sostanziale fedeltà al testo e alla tradizione, francamente dissonanti erano alcune scelte registiche quali quella di far muovere tutti gli interpreti come dei manichini meccanici alla Klaus Nomi, soprattutto per estraniarli, a quanto almeno mi è parso di capire, dai momenti di intimità fra due personaggi. Un antico adagio teatrale dice che quando i mezzi scarseggiano, investire in bellissimi costumi paga sempre, e così è avvenuto anche in questa occasione, in cui l’elemento visivamente più attraente erano appunto i ricchi e dettagliati costumi di Irene Monti. L’operetta è stata presentata nella versione italiana popolare di Ferdinando Fontana, con i dialoghi che pur ridotti all’osso, riuscivano comunque a mantenere comprensibile la vicenda. Il teatro, tutto esaurito, ha decretato un caloroso successo all’intero allestimento, con particolare enfasi alle parti comiche. Foto Lorenzo Breschi