Gesualdo da Venosa (1566-1613). Prologo: “Se la mia morte brami” (libro VI); Innamoramento: “All’apparir di quelle luci ardenti” (Libro II); “Mentre gira costei” (libro IV); “Non mirar, non mirare” (libro I); “S’io non miro non moro””, Ardita zanzaretta (libro VI); Amore vissuto: Quel no crudel che la mia speme ancise (libro VI); Già piansi nel dolore (libro VI); Sospirava il mio core (libro III); O mal nati messaggi (libro III); Distacco: “Beltà, poi che t’assenti”; “Moro, lasso, al mio duolo” (Libro VI); Gelosia: “Chiaro risplender suole” (Libro VI); “O voi, troppo felici” (Libro V); Rabbia: “Tu m’uccidi, o crudele” (Libro V); “Io tacerò, ma nel silenzio mio” (prima parte – Libro IV); “Invan, dunque, o crudele” (seconda parte); Lutto: “Io pur respiro (Libro VI); “Mercé, grido piangendo” (Libro V); Epilogo: “Resta di darmi noia” (Libro VI). Ensemble vocale “La Dolce Maniera”: Cécile Lohmuller, Ellen Giacone (soprani), Silvana Torto (mezzosoprano), Damien Roquetty (tenore), Erwan Picquet (basso) Luigi Gaggero (direzione). Registrazione: Chapelle Notre-Dame-du-Chêne in Égligny, ottobre 2014. T.Time: 54.25 1 CD Stradivarius 37010.
‘Dolcissimo veleno’, sul piano retorico, non è propriamente un’antitesi, perché i due termini non sono propriamente contrari; ma siccome un veleno dà morte, e per lo più è molto amaro (le scene del melodramma insegnano) non lo si può definire dolcissimo se non con un intento paradossale, opposto al sentire comune. Questo ‘dolcissimo veleno’ è ovviamente il trasporto amoroso, protagonista del madrigale rinascimentale, e quindi della musica di chi – come Gesualdo da Venosa – elegge tale tipologia poetica a testo per eccellenza da intonare. Il madrigale però non è per lo più soggetto alla concatenazione, come il sonetto, e quindi rappresenta un piccolo mondo a sé, chiuso a sviluppi narrativi. La Dolce Maniera diretta da Luigi Gaggero ha tentato un’operazione “teatrale” con una ventina di madrigali musicati da Gesualdo, collegati in una successione ben precisa, proprio per creare una storia, addirittura un’opera immaginaria. Al di là della credibilità narrativa, l’esito è senza dubbio molto suggestivo, grazie alla capacità espressiva, alla perfetta intonazione e all’impostazione molto moderna dei solisti che compongono il gruppo vocale. Nell’interlocuzione alla seconda persona verbale con cui è strutturato, l’ascoltatore ha spesso l’impressione che le domande di un madrigale suscitino le risposte del successivo, in un continuo dialogo tra i personaggi pastorali tanto cari all’Italia del Cinquecento.
Se la mia morte brami è il componimento che La Dolce Maniera sceglie per inaugurare la serie; e non c’è nulla di più ‘melodrammatico’ (sia detto nell’accezione più alta del termine) che aprire una vicenda con la congiunzione della parola ‘morte’ a un’esperienza amorosa. Ma in Gesualdo è protagonista l’arte del contrasto; e così il secondo madrigale è tutt’un susseguirsi di maliziosi sorrisi e di voci che si rincorrono amenamente, come in un gioco tra spensierati amanti. L’alternanza di elegia e di spensieratezza (o meglio, di illusione di spensieratezza; sarebbe troppo semplice voler parlare di gioia) è un tratto caratteristico dei brani scelti, forse perché l’ensemble è alla ricerca di una dialettica ben precisa, come quella tra incontro e separazione (degli amanti, dei loro corpi, dei loro sentimenti): lo lascia intendere il sottotitolo elaborato per la raccolta, «A lyric journey of love, from meeting to separation». Con Ardita zanzaretta, morde colei (n. 6) raggiunge il culmine un duplice procedimento musicale, tipico di Gesualdo; scale ascendenti e improvvisi intervalli discendenti attraversano infatti tutte le composizioni per enfatizzare la parola poetica del madrigale. Si tratta dell’ideogramma musicale, applicato alla voce sola, che La Dolce Maniera enfatizza con molta cura; il principale fine esecutivo del gruppo non sembra tanto la realizzazione di un suono organico, pieno, omogeneo, da cui i solisti si distaccano talvolta; al contrario, le singole voci restano sempre aderenti ai propri caratteri specifici, quasi senza fondersi tra loro, ma giustapponendo timbri e intenzioni affettive differenti, a seconda del relativo registro. L’arditezza degli intervalli tra le varie sillabe della stessa parola si apprezza anche meglio grazie alla totale assenza di portamenti (e qui consiste uno dei pregi maggiori dell’esecuzione) con effetto straordinario, perché riesce a veicolare un messaggio realistico e inesorabile: se anche le diverse voci cantano un unico testo poetico, il loro intreccio non si risolve mai in una sovrapposizione. In altre parole, ogni singola voce declina in modo unico e irripetibile il dramma o la passione di un istante; si ascoltino per esempio il finale del n. 11, con l’evoluzione delle voci sulla parola «dolore», o la seconda metà del n. 13, con il ripetersi dell’interiezione «ohimé», condotta in alto dai diversi timbri, e con espressività sempre nuova.
La qualità tecnica della registrazione è ottima: tutte le voci sono proiettate in uno spazio sonoro omogeneo (questo sì) e come privo di profondità; assolutamente puro, liberato da qualsiasi altro elemento che non sia il suono vocale. E così il madrigale venosiano a più voci nell’interpretazione della Dolce Maniera porge un concetto tragico dell’esistenza, intesa appunto come impossibilità di conciliare alcunché. Soltanto l’arte musicale (quella del canto in particolare) riesce paradossalmente a unire l’esternazione degli affetti, e al tempo stesso a esasperare le differenze in cui ciascuna voce (cioè ciascun essere umano) percepisce la realtà e le passioni. Una concezione disperata e sofferta, «onde sperar non lice d’esser mai più felice», come recita la conclusione del n. 20, ossia il finale della bellissima ‘opera immaginaria’.