Bologna, Teatro Comunale, Stagione d’opera 2016
“ATTILA”
Dramma lirico in un prologo e tre atti. Libretto di Temistocle Solera, completato da Francesco Maria Piave.
Musica di Giuseppe Verdi
Attila ILDEBRANDO D’ARCANGELO/RICCARDO ZANELLATO
Ezio SIMONE PIAZZOLA
Odabella MARIA JOSÉ SIRI
Foresto FABIO SARTORI
Uldino GIANLUCA FLORIS
Leone ANTONIO DI MATTEO
Orchestra e Coro del Teatro Comunale di Bologna
Direttore Michele Mariotti
Maestro del Coro Andrea Faidutti
Regia Daniele Abbado
Scene e luci Gianni Carluccio
Costumi Gianni Carluccio e Daniela Cernigliaro
Nuova produzione del Teatro Comunale di Bologna con il Teatro Massimo di Palermo e il Teatro La Fenice di Venezia
Bologna, 31 gennaio 2016
“A tutti poca parte” raccomandava nel 1845 Verdi a Piave (il libretto andrà poi al Solera, per essere completato infine dal fedele Francesco Maria) a proposito della distribuzione dei personaggi di quello che sarà il futuro Attila. Qui a Bologna (siamo all’ultima recita dello spettacolo inaugurale di stagione) al primo basso Ildebrando D’Arcangelo, per colpa di un repentino calo di voce, è andata pochissima parte. Peccato, perché la curiosità per il suo Attila c’era, e il duetto con Ezio, cantato con voce non torrenziale ma smalto intatto, dizione tornita, accento protervo e mai cavernoso, lasciava pregustare un ritratto, se non memorabile, quantomeno maiuscolo. Ma alla grande aria del primo atto subentra Riccardo Zanellato. Poco male: il timbro sarà forse meno prezioso e il personaggio prende altra piega, ma è un re degli Unni autorevole, dignitoso e composto, quello di Zanellato, di bella pasta e gravi sonori. Verdianissimo accanto a lui l’Ezio di Simone Piazzola (che sempre per la cronaca aveva lasciato la seconda recita per indisposizione), impressionante nella salita al sol avanti “Dagl’immortali vertici” ma mai sfacciato, musicale sempre, nobile nel dipingere il romano doppiogiochista. Acuti grandi così li ha pure Fabio Sartori, ma il tenore, non nuovo al ruolo di Foresto, ha poco dell’amoroso verdiano se, come in questo caso, predilige il canto di forza. Risultato: tanto suono e scarsa eleganza. Al poker delle prime parti manca Odabella. Se l’ascolto si fermasse alla diabolica cavatina, si rimarrebbe forse freddi di fronte alla prova di Maria José Siri, che lassù in alto suona troppo tagliente e in espressività non abbonda. Ma bisogna aspettare “Oh! nel fuggente nuvolo” per capire il valore dell’artista, tanto fine è il fraseggio, tanto curato il legato, tanto omogeneo è il timbro. Nelle parti di fianco, si fanno apprezzare Gianluca Floris (Uldino) e Antonio Di Matteo un Leone tonitruante. Insomma, varietà d’ugole sul palco, ben tenute insieme (ma ormai non ce ne stupiamo più) da Michele Mariotti, che arriva a questo giovane Verdi dritto da Rossini e Bellini. Ecco allora che anche il tanto deprecato cabalettismo si fa interessante: a ogni da capo c’è un colore che cambia, complice un’Orchestra del Comunale di Bologna sempre in sintonia col suo direttore musicale. La cura del particolare è sovrana, il concertato del terz’atto funziona a meraviglia. Intendiamoci, nella tavolozza di Mariotti ci stanno anche il forte e il fortissimo (il Coro preparato da Andrea Faidutti reagisce con gran bel suono) ma il risultato è sempre di vigorosa pienezza. Resta da chiedersi che lingua parli la messinscena di Daniele Abbado. Pur evocata nel libretto e tratteggiata nella musica, non vi ha posto la natura: solo astratti pali e busti umani di creta. Né vi ha posto la storia, che sia quella delle invasioni barbariche o quella del Risorgimento: abiti civili, stivaloni militari, cappottoni come tanti se ne vedono, mentre sul fondo appare un’abside da basilica paleocristiana, a far da cornice a muta campana. Eppure la scena pensata da Gianni Carluccio affascina nel suo essere ferro e ruggine, e ben venga anche la stravista nebbia da palcoscenico. In fin dei conti un allestimento non brutto da vedere, attento alla recitazione non molto, illuminante poco. D’altronde quanto è complicato imbrigliare in una logica registica serrata e coerente quest’opera così curiosamente squilibrata del giovane Verdi. Foto Rocco Casaluci