Madrid, Auditorio Nacional de Música – Fundación Ibermúsica, Temporada 2015-2016
Münchner Philharmoniker
Direttore Valery Gergiev
Violino Janine Jansen
Claude Debussy : Prélude à l’après-midi d’un faune
Dmitrij Šostakovič : Concerto per violino e orchestra n. 2 op. 129
Hector Berlioz : Symphonie fantastique op. 14
Madrid, 15 gennaio 2016
Richard Wagner : Lohengrin (preludio al I atto)
Aleksandr Skriabin : Le poème de l’extase
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Sinfonia n. 6 in si minore op. 74 “Patetica”
Madrid, 16 gennaio 2016
Il gesto è sempre lo stesso: quello di riavviarsi nervosamente i capelli sulla fronte, anche nei momenti più intensi dell’interpretazione. Ma anche il gesto direttoriale è rimasto lo stesso, veemente e serissimo. Valery Gergiev giunge a Madrid per la prima volta in qualità di nuovo direttore titolare dei Münchner Philharmoniker, che guida a partire da questa stessa stagione, e propone due concerti all’interno della rassegna sinfonica più prestigiosa di tutta la Spagna, la Fundación Ibermúsica. Da alcuni decenni il pubblico iberico è del resto abituato ad ascoltare i Münchner, almeno dal marzo 1982, quando toccarono Madrid e Barcelona diretti da Sergiu Celibidache, che all’epoca era il loro direttore stabile. E con Celibidache tornarono in Spagna decine di volte, per quaranta concerti, fino al febbraio 1995; poi si succedettero a capo del complesso James Levine, Christian Thielemann, Lorin Maazel, tutte personalità musicali diversissime tra loro, capaci di apportare nuovo repertorio e di costruire nuove prospettive di esecuzione. La sonorità di fondo dei Münchner, però, si è mantenuta fedele a se stessa: un colore corrusco, eppure luminoso anche nei momenti più solenni, domina sempre il suono complessivo, che è di una compattezza e di un fascino mirabili. Qual è l’esito della recente unione tra un direttore dirompente e un’orchestra dalla storia ultracentenaria? Anzi tutto una tournée con sei brani musicali di sei differenti autori, distribuiti in due concerti a distanza di un giorno l’uno dall’altro (sold out entrambe le serate), per un duplice programma che non potrebbe risultare più classico (con un’ouverture mozartiana sarebbe stato addirittura un programma “di maniera”). Ma sarebbe vano cercare un filo conduttore, sul piano storico-musicale o interpretativo, delle scelte e dell’esecuzione, anche perché la collaborazione tra direttore e orchestra è troppo recente per potersi essere già stabilizzata in un intento riconoscibile, o almeno programmato come tale. Per questa ragione ogni brano è una piccola sorpresa in sé, e quasi sempre molto positiva.
Il Debussy della prima serata, per esempio, spicca per sonorità pulitissime, culminanti con il gioco di xilofono e arpe, così garbati e perfetti da far quasi dimenticare il celebre motivo d’avvio del flauto; quanto quest’ultimo risuona esile e vibrante, tanto l’orchestra deborda di ondate sonore massicce: Gergiev ama i contrasti volumetrici e quantitativi. La stessa dinamica riguarda anche, all’interno del secondo concerto, il poema sinfonico dell’estasi di Skriabin, ma in modo opposto, perché ora il suono più imponente è quello delle trombe soliste, che instancabilmente enunciano lo stesso tema ascendente. Il risultato di tutti questi contrasti è stupendamente wagneriano (con i Münchner si poteva già immaginare), anche se privo di dramma; il Prélude, per esempio, non ha nulla di inquietante, perché sembra aspirare alle sonorità di una fiaba musicale, dall’esito scontato e felice (il preclaro mistero debussyano è sostituito dalla ricerca di bellezza del suono). Analogamente, non è proprio estatico l’effetto del poema di Skriabin, perché le sonorità sono così tonitruanti da sostituire lo slancio mistico con la magniloquenza (cui il pubblico si abbandona volentieri, dato che trombe, tromboni e corni creano nel finale una fantasmagoria di colori davvero magistrale, fino all’ultimo accordo, tenuto a lungo, omogeneo e ricchissimo). Ancora una scelta ‘strutturale’ anche per il preludio al I atto di Lohengrin, che Gergiev modella come un perfetto crescendo seguito da diminuendo, nella cifra costante di una solennità che deriva come per naturalezza dal colore sempre dominante degli ottoni. Anche nelle parti d’insieme del concerto di Šostakovič il dramma è attenuato, come se gli strumentisti gli anteponessero la ricerca del bello, mentre il violino di Janine Jansen si sbizzarrisce in nervosismi e sfoghi di incertezza; lo Stradivari ‘Baron Deurbroucq’ del 1727 (messo a disposizione dalla Beare’s International Violin Society) rende con il suo suono freddo e nettissimo tutta l’irrisolta spigolosità di questa opera sperimentale di Šostakovič: anche nel finale, quando l’orchestra sembra risvegliarsi dalla precedente acquiescenza, la voce dello strumento conserva la propria autonomia e resta perfettamente identificabile nel virtuosismo d’insieme. A dispetto delle prolungate acclamazioni la Jansen non concede alcun brano fuori programma (al pari di Gergiev, che forse deve ancora entrare in familiarità con l’orchestra prima di organizzare momenti esecutivi più rilassati; per ora vige quella serietà che si associa abitualmente ai complessi germanici più antichi; e del resto, ars severa summum gaudium).
I monumenti sinfonici a suggello dei due concerti erano rispettivamente la Fantastica di Berlioz e la Patetica di Čajkovskij; per fortuna il direttore non si concentra sull’espressione della sola fantasia (che rischia di diventare disordine) o del solo pathos (che rischia di diventare patetismo, secondo il suggerimento dell’improprio sottotitolo). In Berlioz lo studio principale di Gergiev è invece nell’agogica, di modo che il pubblico possa apprezzare il complesso funzionamento interno dei vari blocchi della sinfonia, al di là delle esigenze narrative che il testo musicale sollecita. Quando il compositore sovrappone o intreccia disegni differenti, per esempio, Gergiev sceglie di esaltare quello dai caratteri melodici più marcati; l’altro resta ben percepibile come sorta di eco orchestrale (molto riuscito, a questo proposito, l’effetto delle trombe nell’attacco del II movimento, Un bal, solitamente trascurate, o quello dell’oboe all’inizio del III, Scène aux champs). Nella seconda parte della sinfonia al grande gusto per il legato è coniugata una resa accuratissima di tutti gli aspetti ritmici: i timpani si trasformano in congegno a orologeria, e con le altre famiglie orchestrali lavorano alla mimesi dei contenuti narrativi, fino all’acuto sghignazzare dei clarinetti prima del celebre rintocco delle campane, in Songe d’une nuit de sabbat. È il momento più impressionante di tutta l’esecuzione, in cui si apprezza come il virtuosismo degli strumentisti si trasformi in espressione e comunicazione degli stati d’animo. Tutt’un altro mondo, ovviamente, la VI Sinfonia di Čajkovskij, che nell’esecuzione dei Münchner sembra recare congenitamente alcune scelte ritmiche di Celibidache (clamorose, e inaspettate con Gergiev, le pause tra le varie sezioni del I movimento, Adagio. Allegro non troppo). Anche nel ballettistico Allegro con grazia del II movimento fiati e ottoni costituiscono la presenza che vela di oscuro l’apparente gaiezza degli archi, e già traguarda al finale struggente. Prima però lo scherzo (Allegro molto vivace) sembra disposto per ingannare un pubblico troppo appassionato, capace di scambiare la trascinante clausola per il finale effettivo della sinfonia (e infatti molti applaudono incautamente …). Il celebre ultimo movimento in ritmo lento (Adagio lamentoso) dimostra come il Čajkovskij di Gergiev non abbia nulla di incantato o di favoloso, ma sia soprattutto percorso da quella mestizia dignitosa che tanto bene corrisponde al suono wagneriano degli ottoni di München. Una dignità che elimina qualunque dramma dagli effetti banali: ognuno se ne rende conto quando, dopo l’ultimo accordo, intercorrono dieci secondi di perfetto silenzio e concentrazione, prima che l’applauso esploda frenetico e si protragga molto a lungo.