Venezia, Teatro La Fenice, Stagione 2015 / 2016
Orchestra Filarmonica della Fenice
Direttore Omer Meir Wellber
Violino Midori
Pëtr Il’ič Čajkovskij: Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 35
Johannes Brahms: Sinfonia n. 2 in re maggiore, op. 73
Venezia, 8 dicembre 2016
Primo concerto del nuovo anno per l’Orchestra Filarmonica della Fenice: in programma due composizioni, che ebbero entrambe il battesimo a Vienna con i Philarmoniker diretti da Hans Richter, seppur facendo registrare esiti diversi, soprattutto a livello di critica. Il Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij, presentato il 4 dicembre 1881, fu bollato da Eduard Hanslick con l’espressione a dir poco offensiva di “musica puzzolente” (nel Finale l’arcigno critico sentiva “il puzzo di pessima acquavite di un’orgia russa”). Immediato successo ottenne, invece, la Seconda sinfonia di Brahms, che ebbe la sua grande prima nella capitale asburgica il 17 dicembre 1876, convincendo pienamente sia il “brahmsiano” Hanslick che il “wagneriano” Hans von Bülow, il quale la qualificò come “la decima sinfonia di Beethoven”. Sul podio della Filarmonica della Fenice il giovane Maestro Omer Meir Wellber, da tempo uno degli ospiti più frequenti del Teatro veneziano, affiancato, in quest’occasione, dalla violinista Midori Gotō, spesso chiamata semplicemente Midori.
Traboccante d’energia l’interpretazione del maestro israeliano, per quanto riguarda il primo titolo in programma, con una scelta di tempi diffusamente alquanto spediti, assecondando, con ogni probabilità, la lettura della solista, che ha affrontato con disinvolta, instancabile precisione le asperità della sua parte, sorretta da un’assoluta padronanza tecnica. Ne è risultata un’interpretazione in certi momenti davvero travolgente, nel corso della quale la violinista ha sempre mantenuto un alto livello stilistico e un’eccellente qualità del suono, anche in quelle parti, in cui parve all’inflessibile Hanslick che lo strumento si riducesse a “gracchiare” e nelle quali in realtà – ci riferiamo soprattutto al primo e all’ultimo movimento – il solista deve affrontare difficoltà veramente trascendentali, dato l’estremo virtuosismo della scrittura del compositore russo (basti ricordare che il famoso violinista Leopold Auer, cui inizialmente fu dedicato il concerto, lo ritenne – almeno in un primo momento – ineseguibile); virtuosismo, peraltro, che – come in tutte le grandi composizioni – non è mai fine a se stesso, ma fa parte di un’opera organica in cui “tutto si tiene”. Oltre a ciò la violinista giapponese ha sfoggiato una perfetta scuola del legato, riducendo al minimo necessario i portamenti, che avrebbero appesantito l’esecuzione e allentato la sua coerente tensione interpretativa; tensione che si è opportunamente sciolta in un morbido lirismo – senza sdolcinature – nella Canzonetta del movimento centrale, in cui l’interprete ha distillato dal suo Guarnieri del Gesù un suono di perlaceo nitore. Indimenticabile, per il piglio travolgente imposto dalla violinista, il movimento conclusivo, Finale. Allegro vivacissimo. Altrettanto travolgenti gli applausi che hanno accolto festosamente questa brillantissima esecuzione, placatisi soltanto allorché la portentosa “giapponesina” ha nuovamente imbracciato il suo prezioso strumento per concedere un bis: la Partita n.3, BWV1006, di Johann Sebastian Bach, un brano, anche questo, di estremo virtuosismo, la cui esecuzione è stata seguita dagli stessi orchestrali e dal Maestro Wellber, quasi annichiliti dalla bravura di questa interprete. E poi, di nuovo, delirio …
Tesa e coesa l’interpretazione della Seconda sinfonia di Brahms, che peraltro ci è parsa in parte penalizzata da un’agogica un po’ troppo serrata, la quale – al pari di una certa (conseguente) secchezza nel suono – ha, per così dire, sacrificato il lirismo che percorre questa partitura, considerata, fin dalla sua prima apparizione, come l’antitesi lirica, schubertiana, rispetto al carattere affermativo, beethoveniano, della Prima. Comunque, vale la pena di sottolineare il fatto che questo capolavoro di Brahms sfugge ad una catalogazione troppo precisa, se l’autore stesso ebbe a definirlo in vari modi anche contraddittori: “una suite di valzer”, “una sinfonia gaia e innocente”, una composizione dal tono “del tutto elegiaco”, ma anche una partitura impregnata di tristezza, che avrebbe dovuto “uscire listata a lutto”. A questo proposito, ci è sembrato che l’interpretazione di Wellber ne abbia eccessivamente sottolineato l’aspetto festoso, quando non era addirittura percorsa da inflessioni titaniche di stampo beethoveniano. Così, ad esempio, non si è colto appieno il caldo lirismo che dovrebbe caratterizzare il secondo tema del primo movimento, affidato agli archi gravi, richiamando la celeberrima Ninna nanna dello stesso Brahms. Analogamente l’Adagio ma non troppo non è risultato sufficientemente “tenero, malinconico, sottilmente doloroso”, secondo l’espressione di Edmond Rostand, così come nel movimento finale, più che l’ascendenza mozartiana che vi coglieva Hanslick, si è sentita un’energia, una concitazione un po’ sopra le righe. Notevole, in ogni caso, la prestazione della Filarmonica, al cui interno si sono segnalate le varie sezioni: quella dei corni, che hanno sfoggiato bel suono e perfetta intonazione fin dal primo tema del movimento iniziale, come quella dei legni – ricordiamo l’oboe nel terzo movimento – o delle trombe e dei tromboni, che ci hanno regalato in vari momenti – spesso uniti ai corni – accordi di assoluto nitore, per non parlare degli archi che hanno offerto una prestazione impeccabile in tutti i sensi. Caloroso successo con un secondo bis: la Danza ungherese n. 5 di Brahms, eseguita con grande sensibilità e gusto dei contrasti.