Milano, Teatro alla Scala: “Rigoletto”

Milano, Teatro alla Scala – Stagione d’opera e balletto 2015/16
“RIGOLETTO”
Melodramma in tre atti su libretto di Francesco Maria Piave, dal dramma “Le roi s’amuse” di Victor Hugo.
Musica di Giuseppe Verdi  
Il duca di Mantova VITTORIO GRIGOLO
Rigoletto LEO NUCCI
Gilda NADINE SIERRA
Sparafucile CARLO COLOMBARA
Maddalena ANNALISA STROPPA
Giovanna CHIARA ISOTTON
Il conte di Monterone GIOVANNI FURLANETTO
Il cavaliere Marullo DAVIDE PELISSERO
Matteo Borsa AZER RZA-ZADA
Il conte di Ceprano GIANLUCA BREDA
La contessa di Ceprano FEDERICA LOMBARDI
Un usciere OLIVER PÜRCKHAUER
Un paggio KRISTÍN SVEINSDÓTTIR
Orchestra e Coro del Teatro alla Scala di Milano
Direttore Nicola Luisotti 
Maestro del coro Bruno Casoni 
Regia Gilbert Deflo (ripresa da Lorenza Cantini)
Scene Ezio Frigerio 
Costumi Franca Squarciapino   
Luci Marco Filibeck   
Produzione del Teatro alla Scala di Milano
Milano, 17 gennaio 2016   
Ancora un titolo verdiano, dopo l’apertura con “Giovanna d’Arco”, per il cartellone lirico del Piermarini, che riprende l’affermata produzione di “Rigoletto” del 1994, ormai alla sua decima riproposizione. Sontuose come allora, le scene d’insieme di Ezio Frigerio competono quasi con la lenticolarità della pittura fiamminga, tanto gli ambienti sono particolareggiati e resi vividi dai bagliori aurei che le variopinte vetrate di sfondo proiettano sui fastosi elementi ornamentali. Uno sfarzo così magnificente da risultare sospetto, sottendendo la falsità della corte di Mantova. Le ampie volte a botte sono però dominate dalle oscure lesene che le sostengono; per di più, seppur la scena cambi, sono sempre le tenebre ad avvolgere il cortile del primo duetto tra Gilda e Rigoletto. E questo è molto apprezzabile, perché ricorda che sarà proprio quell’affetto paterno a muovere verso l’epilogo, in continuità col precedente incontro col sicario nel vicolo cieco ed, ancora, con la buia sponda del Mincio davanti alle polverose rovine della lugubre osteria. Sorprendente, in tal senso, come la dicotomia tra la presenza delle soluzioni illuminotecniche di Marco Filibeck, che tra l’altro focalizzano il candore della veste di Gilda, ed i funesti presagi della loro assenza, converga nelle sovrimpressioni dei tagli di luce con cui, nel temporale, si consuma il delitto. Centrali, per effetti cromatici, finezza di fattura ed eleganza dei dettagli, sono poi i costumi baroccheggianti previsti da Franca Squarciapino, nella loro coesione con l’impianto scenico. Guardando a questo scopo, del resto, ci si convince che anche la regia di Gilbert Deflo, benché vi si possa imputare una scarsa inventiva, offra il suo calibrato contributo all’autentica atmosfera del dramma. Un clima che, a dispetto dell’insistente tendenza verso reinterpretazioni in chiave moderna dell’opera, rende quest’allestimento imperituro alle intemperie del tempo.
Subentrato solo da qualche settimana all’atteso Mikko Franck, Nicola Luisotti recupera una partitura completa di riprese e cadenze. La direzione è ponderata nell’agogica ed equilibrata nelle intensità, a dimostrazione di come sia possibile restituire la complessità dello spartito senza dover necessariamente cedere a sonorità prevaricanti. In questo, l’osmosi con la musica di scena diviene la facciata per figurare il lato triviale della corte, mentre la ricerca della purezza strumentale connota le sinistre sfumature dei parlanti, prima dei bagliori eterei del finale. Nondimeno coinvolgenti sono anche i subitanei pianissimo dal forte con successivo crescendo od i contrasti dissonanti, che coronano temi resi più volte cullanti dal risalto delle legature. Sotto la sua bacchetta, il quartetto ed il temporale costituiscono due grandi esempi di trasporto drammatico e bilanciamento musicale, al pari della pertinente scelta dei tempi, nonostante qualche lieve scollamento col palco. Tangibile, inoltre, l’afflato con la produzione da parte del coro preparato da Bruno Casoni, in grado di produrre sottili climax dinamici, all’interno d’una narrazione vivacizzata dall’agile scansione degli staccati e dalla marcata fonazione delle puntature.
Astro nascente tra debutti al MET ed alla Fenice, Nadine Sierra è Gilda anche alla Scala. L’incantevole omogeneità del timbro, vellutato ed al contempo pieno, ben si confà al canto fiorito, candido e palpitante, della giovane ragazza. È poi così graziosa in scena che la natura moderata del volume (senza rinforzo sui sovracuti) e la predisposizione al vibrato stretto passano quasi in secondo piano. Malgrado filati affranti e sostenuti da una buona respirazione, non è però esperta vocalista; lo conferma un canto troppo avaro di dinamiche rispetto a quanto l’evoluzione del ruolo richiederebbe, che peraltro conduce ad un’aria assai bamboleggiante e dai trilli poco torniti, oltre a piccole imprecisioni nell’incalzare ritmico orchestrale. D’altro canto, il fraseggio è deliziosamente schietto e vario (eccezionale il tono straziante con cui s’abbandona al tragico destino): il maggior punto di forza d’un dramma che il soprano vive con determinazione, ma affronta ingenuamente.
Come volevasi dimostrare, la prova di Vittorio Grigolo nelle vesti del duca lascia tutt’altro che indifferenti. Non tanto per il suadente timbro brunito o l’indiscusso physique du rôle, quanto per la sorprendente coincidenza tra interprete e ruolo, che gli consente di sfogarsi in acuti svettanti (almeno fino al si), o di crogiolarsi sulla proiezione dei la della cabaletta, senza apparire eccessivo. Omogeneo anche nelle impervie salite del duetto d’amore, che risolve a piena voce, il tenore non attende l’estrosa resa della canzone finale (ripresa con singolari toni sonnecchianti) per scolpire un fraseggio interiorizzato, atto ai persuasivi piani di seduzione ed aderente allo stacco ritmico. È comunque nel canto d’amore che l’esecuzione tocca le sue vette più raffinate, quando l’elegante linea vocale si fa languente sui legati, con code modulate a fior di labbra in virtù di un’emissione sempre a fuoco, a suggello dell’ammirevole sinuosità cromatica dimostrata nella parte.  Giunto alla sua 516-esima recita ufficiale nel ruolo, il Rigoletto di Leo Nucci domina ancora la rappresentazione. Le lunghe tenute dei suoni nell’irreprensibile regolarità emissiva del vibrato, insieme alla limpida proiezione in tutta la gamma ed al sottile controllo delle gradazioni dinamiche, consentono sempre di saggiare la nobiltà timbrica del grande baritono verdiano, stentoreo nei sovracuti, il cui strenuo esercizio da anni si nota giusto in qualche nota acuta presa dal basso. “Si canta con la testa e si recita col cuore”, dichiara lo stesso Nucci; così, non si può fare a meno di notare come la migliore esemplificazione di questo risieda nella domanda a Sparafucile: “E dove? All’occasione?” che, per densità di scavo psicologico, contiene nel sospeso smorzamento finale la chiave interpretativa di gran parte dell’esecuzione. La carismatica recitazione è infatti ricca di sfumature gestuali e mimiche, tanto consolidate da apparire spontanee, per un fraseggio che è un caleidoscopio di profonde soluzioni vocali, ora tese a repentini cambi d’umore, ora ad inflessioni sarcastiche su un’unica parola, dove anche i trilli canzonatori rivolti a Monterone sono messi al servizio delle intenzioni drammatiche. A confronto con altri interpreti, la travolgente folgore ritmica del baritono quando si tratta di muovere a vendetta costituisce pressoché un unicum. Magistrale è infine il taglio esecutivo dell’aria, già preannunciato dai semitoni discendenti che dissimulano indifferenza. Qui, la tensione si scarica sulla bruciante stoccata ai cortigiani, per passare da una transizione toccante ma contratta nella sua più commovente mimesi col pianto, prima, dell’elegiaca linea di canto col dispiegarsi cromatico delle frasi liriche, dove si ammirano i delicati movimenti ascensionali che da sempre contraddistinguono i suoi duetti con la figlia. Insieme ai tre protagonisti, interagiscono con competenza lo Sparafucile di Carlo Colombara, nitido nel fraseggio al pari della sicurezza sulle note basse, e la matura Maddalena di Annalisa Stroppa, dal timbro caldo che diviene più chiaro salendo di registro. Tralasciando un attacco nasale sul misovracuto, per il primo, e qualche affondo più debole, per la seconda, i due capeggiano la costellazione dei ruoli secondari, a fronte delle ovattate frasi di Chiara Isotton (Giovanna) e del poco tonante Monterone di Giovanni Furlanetto, che pure mostra assoluta omogeneità. Oltre a Gianluca Breda (fosco conte di Ceprano) e Davide Pelissero (non proprio gagliardo come Marullo), completano il cast alcuni allievi dell’accademia del teatro, tra cui troviamo: Federica Lombardi (rotonda nel ruolo della contessa), Azer Rza-Zada (partecipativo Borsa), Kristín Sveinsdóttir (fanciullesco paggio) ed Oliver Pürckhauer (corretto usciere). “Super! Magnifique!” replicano i francesi all’entusiasmo del pubblico italiano dopo la cabaletta “della vendetta”, quando la sala tributa un’ovazione a scena aperta. Ed è bis alla Scala, interrompendo un tabù che resisteva da nove anni.