“T’avviso che di già sono obbligato di scrivere l’opera per questo carnevale e questa mattina confirmeremo la scrittura con l’impresa, la quale m’accorda un mese e mezzo di tempo per scriverla e porla in scena: vedi che strozzamento, e ben tu penserai, dicendomi che ho fatto male; ma le dimostrazioni del Governatore e di quasi tutta Venezia mi spinsero a questo pericoloso impegno; frattanto tutta Venezia gioisce di questa combinazione, ed io spero di non far tanto male… Il Pirata cresce in piacere. Il libro, Romani che già jeri è qui giunto, mi scriverà da nuovo Giulietta e Romeo, ma lo titolerà diversamente, e con diverse situazioni”
Con questa lettera del 20 gennaio 1830 Bellini informava l’amico Francesco Florimo della commissione di una nuova opera per la Fenice di Venezia. Impresario dell’importante teatro veneziano era allora Alessandro Lanari che aveva più volte manifestato la sua stima al giovane compositore catanese tanto che nella stagione 1829-1830 aveva allestito una ripresa della Straniera a Senigallia dopo la prima scaligera. Sembra che Bellini, però, non abbia accettato subito questa commissione per il poco tempo che avrebbe avuto a disposizione, come testimoniato da Emilia Branca che raccontò in modo dettagliato la genesi di quest’opera:
“Bellini verso la fine dell’anno 1829 fu chiamato a Venezia per porre in iscena il Pirata che ai 16 del successivo gennaio fu eseguito nel teatro la Fenice con innumerevoli plausi. Quand’ecco cominciò a spargersi la voce che il maestro Pacini, il quale era stato scelto a scrivere la nuova Opera d’obbligo su quel teatro, per sopravvenuta malattia aveva rinunziato all’incarico. La stagione era già di troppo inoltrata, perché apparisse una qual si fosse speranza di supplirlo onorevolmente. V’era si il Bellini disoccupato, e tutti gli animi si rivolsero a lui, ma nessuno ardiva fargliene la proposta. Infine l’Impresario vedendosi seriamente compromesso rimpetto al pubblico, e forzato a mancare agli impegni assunti colle Autorità locali, corse dritto dal Bellini, ad esporgli i gravissimi imbarazzi in cui si trovava, e lo pregò e supplicò di dargli soccorso collo scrivere lui un’opera in luogo di quella di Pacini.
Ricusò il giovane Maestro, come temevasi, adducendo per iscusa la brevità del tempo, non che altre considerazioni di circostanza che sembravano plausibili.
Ma tanto gli furono intorno i suoi amici, tanto seppero far risaltare il pubblico desiderio, che non poté più rimanersi dal consentire alla gentile ed onorevole richiesta; accettava si di scrivere l’opera, ma però alla condizione espressa di avere il Romani per collaboratore-poeta e a lui vicino. Nuovo incaglio da superare, poiché Romani era a Milano, né si sapeva se avrebbe potuto allontanarsene.
Intanto il tempo stringeva sempre più…
I Reggitori del teatro scrivono a Romani invitandolo; moltissime persone influenti ed amici fanno altrettanto, e Bellini, che sapeva toccare la corda sensibile del cuore del suo amico, lo prega sì fervorosamente che questo, accondiscendendo, vola a Venezia. Per buona ventura aveva appunto terminato Bianca di Belmonte, dramma serio rappresentato alla Scala nel medesimo carnevale, con la musica del maestro Riesck.
I due artisti si consultarono tra loro sul da farsi, dovendo, per così dire, improvvisare un’opera da produrre in un gran teatro d’importanza, quale era la Fenice in quel tempo!
L’assunto parve arduo, massime che il Prospetto della Compagnia che loro venne sottomesso, era imperfetto, monco, non essendo i cantanti principali, di eguale forza e valore.
Ma pure l’impegno era preso, non si poteva indietreggiare, e, buono o malgrado, bisognava fare uno sforzo artistico-intellettuale, e andare avanti.
Si cercò l’argomento. La Giuditta Grisi, intima del maestro, suggerisce I Capuleti ed I Montecchi, insistendo nella sua proposta. Essa ambiva di interpretare la parte di Romeo, e che fosse scritta espressamente per lei, tanto più avendo una brava Giulietta nella Rosalbina Carradori. Al Bellini parve soggetto di passioni tenerissime che dovessero dar vita e calore al suo ingegno, desideroso altresì di compiacere la simpatica e leggiadra Giuditta, sua nuova amica. D’altronde detto argomento si prestava a poter dare una parte secondaria al Basso-cantante, ch’era mediocrissimo, ed una piccola al Tenore, che era debole assai, ed a valersi delle due Prime donne, protagoniste, – una delle quali Romeo – per appoggiarsi ad esse colla musica. Romani fu costretto ad assentire. Detto e fatto si misero al lavoro, che in circa sei settimane fu compito. Bellini si valse, come s’è detto, della musica della Zaira, spartito che disfece, e Romani, il compiacente Romani, che si sarebbe disfatto lui stesso per il suo Bellini, s’accinse a scrivergli la poesia, maggior parte della quale, sulla musica. Fatica doppia codesta, e diremo anche tripla, per dover egli trattare una seconda volta un argomento, già scritto per il maestro Vaccai nel 1825, e tor di mezzo tutto ciò che avrebbe potuto dar luogo a confronti fra la vecchia e la recente musica; confronti a cui certamente avrebbe ripugnato la modestia del giovane compositore. Chi sa quanto costi camminare su traccie di già segnate, e sostituire nuovi concetti ai già scritti, che sempre più ricorrono al pensiero, apprezzerà vie meglio il lavoro del poeta [… L’opera fu rappresentata con lode universale. Tanto i versi quanto la musica piacquero sì in Venezia e sì altrove”.
Nel racconto di Emilia Branca c’è un fondo di verità, anche se esso tace del fatto che Bellini già il 5 gennaio aveva firmato una lettera-contratto con la Fenice, con la quale si impegnava a scrivere una nuova opera per la conclusione della stagione di carnevale solo nel caso in cui Pacini non si fosse fatto vivo entro il 14 gennaio, termine che poi era stato prorogato al 20. Pacini non si fece vivo, non tanto per una malattia come affermato da Emilia Branca, quanto per un’avventura galante con la sua nuova amante, la contessa Samoiloff, e la commissione toccò a Bellini che, come accennato sempre da Emilia Branca, era stato già raggiunto da Romani per lavorare insieme all’opera, come si evince anche da un’altra lettera indirizzata a Giuditta Turina sempre il 20 gennaio 1814:
“Mia cara amica,
Jeri finalmente ho ricevuto vostre notizie per mezzo del Dottor maggiore, e mi spiace sentire il vostro incomodo che spero a quest’ora sparito…. Di già si è risoluto iersera, con la venuta di Romani, che io devo scrivere l’opera per andare in scena almeno il 5 marzo: vedete che strozzamento, ed avete avuto ragione di farmi sgridare dal Dottore; ma adesso che lo devo senza rimedio, ho bisogno d’incoraggiamento e quindi vi prego di non abbandonarmi coi vostri consigli e spesso: ciò pel poco tempo; ma le circostanze unite, che voi da lontano non potete capire, mi strinsero e vi assicuro che non ho tutto quel torto che voi credete. I miei pensieri sono i medesimi sempre, e nei miei calcoli se sbaglio non è per volontà.
Due pezzi dell’opera sono finiti e strumentati: fattigo dalla mattina alla sera e sarà un miracolo se me la sorto senza qualche malanno: dico ciò perché con questi tremendi freddi ho preso un raffreddore di petto che non vuole abbandonarmi”.
Da parte sua Giuditta Turina, forse risentita per alcuni pettegolezzi su un presunto nuovo legame di Bellini con Giuditta Grisi di cui vi sono non troppo velati accenni anche nel lungo racconto di Emilia Branca, non lo incoraggiò né rispose direttamente né a questa né ad altre lettere nelle quali il compositore si lamentava sempre dei tempi strettissimi a cui era costretto dalle scadenze. Una lettera dell’8 febbraio sempre indirizzata alla Turina è piuttosto indicativa sui tempi di composizione e della possibile messa in scena, ma anche sui cantanti forse non del tutto graditi a Bellini:
“Mia cara amica, Vi scrivo senza aver avuto vostre notizie, da quanto ricevei l’ultima di Ceriali […] la mia salute non va male, sebbene si conosce nel mio viso la fattiga. Il raffreddore è quasi andato via. Pare che l’opera mia nuova non vada prima del 9 di Marzo, perché come ne deve andare un’altra d’un certo Guillon, e nol può che il 20 di questo, così le mie prove potranno incominciare appena il 21, quindi vedete che almeno 15 giorni bisognano per provare la mia. Io sono a buon punto colla mia composizione, e non scontento, basta che questi mezzi-cani di cantanti sapranno eseguire i miei pensieri”.
Le prove iniziarono il 23 febbraio, come si evince da un biglietto del 24, sempre indirizzato alla Turina, nel quale si legge: Jersera ho cominciate le pruove, mentre del difficile rapporto con i cantanti e, soprattutto, con il tenore Bonfigli si legge una testimonianza nella biografia scritta da Florimo:
“Il solo tenore Bonfigli, che eseguiva la parte di Tebaldo, era scontentissimo della sua cavatina, e con modi arroganti gli permise d’insultare il maestro. Bellini, nonostante la sua indole tranquilla, perdette l’abituale dolcezza, e pieno di dignità, e con un certo orgoglio, disse all’insolente cantore: – Sappiate signore, che la mano di mio padre che mi ha insegnato a tenere una penna in mano, mi ha insegnato parimenti a tenere una spada. Quegli sel tenne per detto. La cavatina fece furore, e dopo la rappresentazione, il Bonfigli non esitò punto a fare le più umili scuse al maestro, che cortesemente gli strinse la mano senz’altro più”.
La prima, inizialmente prevista per il 9 marzo ma rinviata all’11 a causa di un’indisposizione della Grisi, fu un trionfo che ebbe una vasta eco nei giornali dell’epoca. L’estensore della «Gazzetta privilegiata di Venezia» scrisse:
“Non vogliamo troppo a lungo indugiarci il piacere di dare buona novella. L’opera del maestro Bellini, che andò in scena ieri sera ebbe l’esito più strepitoso e felice. Acclamazioni ed applausi senza fine al principio, al mezzo ed al termine di ogni atto.
L’entusiasmo destato dalla introduzione andò in mano a mano crescendo e scoppiò – non sapremmo dire con quale forza – alla cavatina del tenore ed al finale delle due parti che formano l’atto primo e che sono piene di ogni bellezza e novità di pensieri, di canto e di armonie. Il duetto della terza parte fra Tebaldo (il Bonfigli) e Romeo (la Grisi) piacque specialmente per un coro funerale, da cui è frammezzato e per una bellissima stretta, benché non abbia fatto per altro quell’immensa impressione dei due luoghi sopra citati.
Ma la scena e la grand’aria delle Tombe, sostenuta con quel magico potere della Grisi, e il duetto tra lei e la Carradori, che segue subito dopo, rinnovarono il primiero entusiasmo e sì il pubblico non fu contento finché al termine dello spettacolo, maestro e cantanti non si presentarono per ben cinque o sei volte in sul palcoscenico, giacché un altro pregio di tal musica è pur questo: d’aver collocato ogni attore a suo posto e d’aver tratto da lui tutto il possibile profitto.
Lo spettacolo è inoltre posto in iscena con tale magnificenza che mai non vedemmo l’eguale; il pittore si fece molto onore nella scena delle Tombe”.
Il soggetto che, suggerito probabilmente dalla Grisi, traeva ispirazione da un libretto scritto da Romani cinque anni prima per Nicola Vaccaj, della cui opera abbiamo già trattato, fu ampiamente rielaborato dal librettista non solo per venire incontro alle esigenze dettate dal cast di cantanti scelto dal teatro nel quale figuravano, oltre alla Grisi (Romeo), a Rosalbina Carradori Allan (Giulietta) e a Lorenzo Bonfigli (Tebaldo), Ranieri Pocchini (Lorenzo) e Gaetano Antoldi (Cappelio), ma anche a quelle di Bellini, che dovendo scrivere l’opera in breve tempo, fece ricorso alle musiche della Zaira le cui parti di Zaira e Nerestano si prestarono ad essere rielaborate per quelle di Giulietta e Romeo. Nella versione approntata da Romani per Bellini il libretto appare più snello grazie anche all’eliminazione del personaggio di Adele, madre di Giulietta, e soprattutto drammaturgicamente più efficace nonostante la sequenza delle cavatine dei personaggi principali nel primo atto dia l’impressione di leggere un testo dalla struttura vecchia. La scelta di rendere più snello il libretto è evidente già nella seconda scena del primo atto dove è tagliata tutta la prolissa parte iniziale ed è riscritta interamente la parte di Tebaldo che assume la forma della cavatina il cui cantabile È serbato a questo acciaro inizia con un verso che è la rielaborazione di Serbata a questo braccio dell’opera di Vaccaj. Tra le modifiche più importanti del primo atto vanno citate: la sostituzione della cabaletta di Romeo La guerra bramata con La tremenda ultrice spada; l’aggiunta della cavatina di Giulietta, la bellissima Oh quante volte, oh quante; l’intera riscrittura del duetto tra Romeo e Giulietta del primo atto che non viene interrotto dall’ingresso di Lorenzo, prima, e di Capellio, dopo, essendo state tagliate le scene dall’ottava alla dodicesima; un piccolo taglio nella scena quattordicesima e l’intera riscrittura del Finale dall’intervento dei Montecchi alla fine dell’atto. Nel secondo atto Romani, oltre a riscrivere interamente la prolissa scena iniziale, in cui nel libretto di Vaccaj si faceva cenno alla volontà di Capellio di chiudere in un chiostro la figlia, con una più snella scena ed aria di Giulietta, nella quale Lorenzo le propone di bere il filtro che le avrebbe procurato una morte apparente, aggiunse il duetto tra Romeo e Tebaldo che nel libretto di Vaccaj era già morto alla fine del primo atto. Infine parte del Finale fu riscritta e accorciata.
L’opera e il libretto
L’ouverture
L’opera si apre con una concisa sinfonia che, dal punto di vista formale, può essere ricondotta ad una rielaborazione piuttosto libera di una forma-sonata ridotta all’esposizione e alla coda. Aperta da un rullo di timpani che introduce degli squilli di carattere militare, la sinfonia si snoda su tre temi diversi dei quali il primo (Es. 1) è una cellula tematica estremamente incisiva affidata ai corni, il secondo (Es. 2) è un tema marziale intonato dai legni che sembra anticipare Già mi pasco nei tuoi sguardi della Norma e il terzo (Es. 3), che dà l’avvio al crescendo, è una cellula motivica breve ed orecchiabile che Bellini utilizzerà come accompagnamento nel coro iniziale di introduzione.
Atto primo
La scena si apre su una sala del palazzo di Capellio dove i partigiani della famiglia sono stati convocati all’alba per apprendere alcune novità. Il loro coro, Aggiorna appena, è una pagina leggera nella quale si assiste alle tipiche spezzature vocali belliniane ottenute con le pause e capaci di dare l’impressione di un mormorare quasi sommesso che esplode nei momenti più drammatici.
Un tema solenne e marziale introduce la Scena e cavatina di Tebaldo, nella quale l’uomo, promesso sposo a Giulietta, figlia di Capellio, informa i partigiani dell’alleanza tra Ezelino e i Montecchi. Nel recitativo Capellio aggiunge che Romeo, l’uccisore di suo figlio, verrà come ambasciatore di una pace che è risoluto a rifiutare. Tebaldo giura di combattere contro Romeo nel cantabile della cavatina (È serbato a questo acciaro) (Es. 4) la cui musica è una libera rielaborazione del Larghetto di Corasmino della Zaira (Perché mai, perché pugnasti) (Es. 5), in quanto Bellini non ricopiava la sua musica già scritta, ma rielaborava per adattarla al personaggio come si può notare dal raffronto delle linee melodiche dei due cantabili; in questo caso adottò una scrittura piana, scevra dagli abbellimenti e per questo più adatta a un personaggio superbo e altero come Tebaldo. Nel tempo di mezzo Sì m’abbraccia Capellio esprime la sua gioia a concedere la mano della propria figlia a Tebaldo, mentre Lorenzo cerca di intercedere a favore di Giulietta ostile a questo matrimonio. Tebaldo, felice per la promessa di nozze, esprime tutta la sua gioia nella cabaletta dai caratteristici ritmi puntati L’amo tanto, e m’è sì cara.
Nel successivo recitativo Capellio ordina a Lorenzo di disporre l’animo di Giulietta al matrimonio, mentre degli squilli di tromba introducono l’ingresso di Romeo sotto mentite spoglie che, sulle note di un bell’arioso (Lieto del pari), si presenta come ambasciatore di pace; al netto rifiuto dei Capuleti risponde affermando che l’uccisione del figlio di Capellio da parte di Romeo è avvenuta in una regolare battaglia. Anche il cantabile della cavatina (Se Romeo t’uccise un figlio) è una rielaborazione estremamente raffinata di un Larghetto di Nerestano della Zaira, come del resto la cabaletta La tremenda ultrice spada con la quale Romeo risponde con fierezza al netto rifiuto di ogni forma di pace espresso da Capellio nel tempo di mezzo Riedi al campo.
Una splendida introduzione orchestrale, all’interno della quale emerge la voce del corno che intona una melodia tipicamente belliniana piena di pathos, conduce il pubblico negli appartamenti di Giulietta che, nel raffinato recitativo (Eccomi in lieta veste) caratterizzato da eterei interventi dell’arpa, mostra tutto il suo tormento per un matrimonio che le è imposto. Introdotta dal suono soave dell’arpa e dei legni, la sua cavatina Oh! quante volte oh quante volte (Es. 6), nella quale Giulietta esprime in un tono elegiaco tutto il suo amore per Romeo, pur traendo il materiale melodico dalla giovanile cavatina di Nelly (Dopo l’oscuro nembo) dell’Adelson e Salvini, è una delle pagine più struggenti della partitura che sembra anticipare Ah non credea mirarti della Sonnambula.
Nel successivo recitativo (Propizia è l’ora) Lorenzo prepara il cuore di Giulietta all’inaspettata gioia di vedere il suo amato Romeo che non si fa attendere più a lungo dando vita con l’amata a un duetto il cui materiale è anch’esso una rielaborazione di un passo della Zaira. Romeo, nel tempo d’attacco Sì fuggire, propone la fuga alla fanciulla amata con un cipiglio che alle parole Miglior patria avrem sembra anticipare il duetto di Adalgisa e Pollione della Norna, Vieni in Roma, ah! Vieni o cara. Giulietta oppone, però, qualche resistenza che Romeo cerca di vincere nel soave cantabile Ah! Crudel, d’onor ragioni che nel finale grazie ad un passo in cui le due voci si muovono per terze sembra delineare l’unione più profonda di due anime. Il suono di una fanfara festiva (tempo di mezzo: Odi tu?) riporta alle realtà i due amanti, mentre Romeo insiste nel proporre la fuga a Giulietta nella cabaletta Vieni, ah! Vieni.
Nell’atrio interno del palazzo dei Capuleti accorrono Dame e Cavalieri che intonano un festante coro di giubilo, costruito con le solite spezzature vocali, per le imminenti nozze di Giulietta e Tebaldo. Entra in scena Romeo che, nonostante sia in abiti guelfi, è immediatamente riconosciuto da Lorenzo al quale, nel recitativo Deh! Per pietà t’arresta, confida che mille ghibellini armati, suoi partigiani, sono pronti a combattere contro i Capuleti. I due sono interrotti dagli squilli delle trombe che introducono un vero e proprio tumulto materializzatosi sulle note di uno dei temi della sinfonia. Nella scena rimasta vuota fa il suo ingresso, scendendo da una galleria, Giulietta la cui ansia per Romeo è resa dall’ansante sincopato dell’orchestra; la fanciulla invoca il Cielo e Amore in soccorso del suo amato che non si fa attendere e, sempre sul tema sincopato, le propone ancora una volta la fuga. Romeo cerca di trascinare con sé Giulietta, ma viene fermato da Capellio e Tebaldo in tono di sfida. Nel concertato (Soccorso, sostegno), aperto dalle sole voci che cantano a cappella, se da una parte Giulietta e Romeo reciprocamente invocano il soccorso del cielo sulla persona amata, Tebaldo e Capellio vorrebbero che la notte possa coprire il loro rossore. Infine nella stretta Se ogni speme, tratta anche questa dalla Zaira, i due amanti si augurano di vedersi in cielo, mentre Romeo si salva grazie all’intervento dei Montecchi.
Atto secondo
Un breve preludio strumentale, caratterizzato da un tema del violoncello che anticipa quello posto ad apertura del secondo atto di Norma, conduce il pubblico nell’atrio interno del palazzo dove Giulietta sola appare tormentata per i recenti fatti (recitativo: Né alcun ritorna). Raggiunta da Lorenzo il quale, oltre a comunicarle che Romeo è salvo, le consiglia di bere un filtro capace di produrre una morte apparente per sfuggire alle aborrite nozze con Tebaldo, la fanciulla manifesta qualche tentennamento nel cantabile dell’aria Morte non temo, il sai, anch’esso desunto dalla Zaira (Che non tentai per vincere), ma alla fine beve dalla fiala portale da Lorenzo. Subito dopo giunge Capellio che impone alla figlia di prepararsi a seguire lo sposo la mattina seguente, ma Giulietta, sempre più affranta, nella cabaletta in tempo moderato Ah! Non poss’io partire, afferma di essere vicina alla morte e nel frattempo chiede perdono al padre.
Nei giardini del palazzo Romeo, introdotto dalla languida voce del clarinetto che, come notato da Tintori nella sua importante monografia su Bellini, non solo sembra rappresentare efficacemente la solitudine del personaggio, ma anche anticipa l’introduzione della scena ed aria di Don Alavaro (O tu che in seno agli angeli) della Forza del destino, si aggira senza pace alla ricerca di Lorenzo; ivi è sorpreso da Tebaldo il quale nel marziale tempo d’attacco del duetto Stolto, un sol mio grido, lo sfida a duello. I due sono interrotti da un coro funebre che, in sostituzione del tradizionale cantabile, annuncia la morte di Giulietta e che, secondo Pastura, ricorderebbe canti funebri popolari catanesi. Affranti dal dolore, i due contendenti danno vita alla cabaletta Svena, Ah! Svena.
Accompagnato da un mesto coro dei Montecchi, Romeo, disceso nelle tombe dei Capuleti, si produce nel drammatico recitativo Ecco la tomba e chiede ai suoi uomini di aprire il sepolcro della fanciulla amata di fronte alla quale intona lo splendido arioso, il cui testo era già presente nel Finale di Vaccaj, Sorgi, mio ben, nel quale sembra dialogare con la donna amata che non gli appare morta, ma dormiente. Dopo aver congedato i Montecchi, Romeo rimane solo con la fanciulla alla quale rivolge, nel cantabile Deh, tu bell’anima, una forma di preghiera prima di bere un veleno; subito dopo si sveglia Giulietta che, ignara di quanto avvenuto e soprattutto credendo che Romeo fosse stato avvertito da Lorenzo, dopo aver invitato l’amato a fuggire, capisce la triste verità; i due si producono nello straziante cantabile Vivi, ah! Viivi, al termine del quale Romeo muore, seguito subito dopo da Giulietta che non regge al dolore. Nella stretta Lorenzo, sopraggiunto, accusa Cappelio di essere la causa di questa tragedia, mentre i Montecchi e i Capuleti piangono il triste fato che ha accomunato i due giovani.