“El amor brujo” e “Goyescas” all’Opera di Firenze

Opera di Firenze – Stagione d’opera e balletto 2015/2016
“EL AMOR BRUJO”
Gitaneria in un atto e due scene
Musica di Manuel de Falla
Libretto di Gregorio Martinez Sierra
Cantaora e bailaora MARIA TOLEDO
Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Guillermo Garcia Calvo
“GOYESCAS o LOS MAJOS ENAMORADOS”
Opera in un atto e tre tavole
Musica di Enric Granados
Libretto di Fernando Periquet Zuaznabar
Rosario GIUSEPPINA PIUNTI
Fernando ANDEKA GORROTXATEGI
Paquiro CESAR SAN MARTIN
Pepa ANNA MARIA CHIURI
Una voce PAOLO ANTOGNETTI
Orchestra e coro del Maggio Musicale Fiorentino
Direttore Guillermo Garcia Calvo
Maestro del coro Lorenzo Fratini
Regia e scene Andrea De Rosa
Costumi Alessandro Ciammarughi
Luci Pasquale Mari
Nuovo allestimento in coproduzione con il Teatro Regio di Torino e il Teatro San Carlo di Napoli
Firenze, 26 gennaio 2016

La programmazione del Teatro dell’Opera di Firenze offre tra gennaio e febbraio un doppio dittico, due serate con due lavori brevi, accoppiati in modo piuttosto originale e inedito. Se l’affinità che lega la Suor Angelica di Puccini all’altro atto unico, La voix humaine di Poulenc – primo dittico andato in scena, per il quale vi rimando all’articolo di Nicola Lischi – va probabilmente ricercata nella condizione di due donne abbandonate, respinte e diversamente sole, ma ugualmente disperate, il fil rouge che lega i due titoli in scena stasera è molto meno sottile, anzi chiassosamente evidente ed è la Spagna; una Spagna arcaica e misteriosa, scintillante di colori e al tempo stesso sinistra, una terra di riti pagani e di passioni amorose smisurate, cantata dai compositori della scuola nazionale di fine Ottocento in una musica dalle influenze armoniche arabe e gitane con le strutture ritmiche di mille danze popolari. Di desiderio ardente e di magia parla El amor brujo, l’amore stregone di Manuel De Falla che ha aperto la serata. Opera dalla genesi complessa, si sviluppa a partire da un primo nucleo, consistente in una canzone e una danza, nato per arricchire lo spettacolo di una famosa ballerina e cantante di flamenco. Presto il lavoro si espande in un atto unico per piccola formazione orchestrale con pianoforte e voce femminile, con brani cantati e danze, una gitaneria, ovvero uno spettacolo di spirito gitano; successivamente, nel 1925, De Falla ne trae un balletto, che è la versione più comunemente eseguita. In questa occasione si rappresenta invece la gitaneria del 1915, con un’orchestra dall’organico ridotto in buca e una sola persona in scena. La trama è semplice: una gitana soffre perché abbandonata dal suo uomo, decide quindi di ricorrere alle arti magiche per legarlo nuovamente a se; all’alba la gitana esulta perché l’incantesimo ha avuto effetto. L’interprete vocale, Maria Toledo, una giovane ma già affermatissima cantante di flamenco, pianista e studiosa delle forme musicali spagnole tradizionali, ha impersonato la gitana imponendo una presenza carismatica e affascinante che ha suscitato l’entusiasmo del pubblico. Maria Toledo, per repertorio e formazione, ha una voce non educata classicamente, o, come si dice in gergo, disimpostata. Un tale tipo di voce non possiede la capacità di viaggiare nei grandi spazi teatrali data dalla tecnica di emissione del canto lirico, per cui deve essere amplificata artificialmente; inoltre la voce di Maria Toledo ha caratteristiche timbriche – suoni rauchi o soffiati, note afone, effetti di parlato – sicuramente espressive e personali, ma decisamente insolite in un teatro d’opera; il risultato è stato comunque interessante, quando non guastato da improvvisi abbassamenti del volume dell’amplificazione. Il direttore Guillermo Garcia Calvo ha offerto una lettura raffinata e di grande equilibrio, giocata sulla trasparenza degli impasti timbrici, senza asperità e senza violenza, con sonorità tenui e un profondo senso di mistero. Gli elementi dell’Orchestra del Maggio impegnati hanno dato una prova eccellente, con una precisione, una compattezza e una luminosità di suono ideali. Al termine il pubblico, non numeroso, ha dimostrato deciso apprezzamento.
Dopo un breve intervallo è stata eseguita l’opera lirica in un atto Goyescas, offerta in forma scenica in una coproduzione con il Teatro Regio di Torino e con il Teatro di San Carlo di Napoli. Goyescas è il titolo più importante della produzione di Enric Granados, esponente di spicco del nazionalismo musicale spagnolo, compositore particolarmente fecondo in campo pianistico. Proprio come suite per pianoforte nasce Goyescas: una raccolta di sette scene musicali ispirate alle atmosfere dei quadri di Francisco Goya. Granados, buon pittore dilettante, aveva per Goya una predilezione particolare, era affascinato dalla sua psicologia, dal suo mondo, dal suo modo di rappresentare la realtà, dai personaggi che abitavano i suoi quadri; da questa passione nasce nel 1911 la suite, che Granados decide poi di sviluppare in opera lirica, incoraggiato dall’accoglienza ricevuta in Europa e negli Stati Uniti dal lavoro pianistico. L’opera, articolata in tre quadri o tavole, racconta una storia d’amore semplicissima: Rosario e Fernando si amano, ma Fernando è tormentato dalla gelosia, anche se la sua donna gli è fedele; spinto dall’inquietudine arriva a provocare Paquiro, anch’egli innamorato di Rosario, e muore nell’ormai inevitabile duello. Ma oltre a parlare dell’amore di una donna, un amore maledetto da un destino crudelmente segnato, Goyescas è un’opera dall’intento e dall’ispirazione pittorica, una pittura di ambiente e di personaggi, un’opera corale sul mondo dei majos. I majos, anche detti manolos, sono i giovani spagnoli delle classi subalterne che, a cavallo tra Sette e Ottocento, vestono in maniera elegante e vistosa, con colori sgargianti e ornamenti appariscenti ed esibiscono una particolare grazia nei movimenti e nelle pose, ma frequentano anche ambienti in cui può con facilità balenare la lama dei coltelli; sono i protagonisti di tanti quadri di Goya, appunto, che li ritrae in scene musicali, di danza, di corteggiamento. Negli ultimi anni di vita Goya, ormai ricco e famoso, ma indebolito nel fisico, sordo, deluso dalle vicende politiche, approda a una pittura antitetica a quella delle luminose scene dei majos, sono le famose pitture nere, i meravigliosi incubi con i quali decora la villa in cui pensa di trascorrere la vecchiaia, scene spaventose di violenza, di stregoneria, di miseria fisica e alienazione mentale, realizzate con una tavolozza poverissima, di bianchi sporchi su sfondi neri. La messa in scena alla quale abbiamo assistito, molto ricca di riferimenti iconografici, sembra aver voluto intrecciare le scene dei majos, colorate e chiassose, con l’atmosfera delle pitture nere, ad annunciare il destino di morte che aleggia fin dall’inizio nella musica. Essenziali nel segnare il passaggio dall’uno all’altro stile sono le sapienti luci di Pasquale Mari. La scena fissa, opera di Andrea De Rosa come la regia, è costituita da un pendio, al centro del quale c’è una grande fossa, che è molto facile percepire come una tomba o fossa comune. Tutto intorno il coro, in abiti moderni, entra in scena nel buio fitto con delle torce elettriche accese, probabilmente a riprodurre l’effetto innaturale dei soggetti delle pinturas negras, che erompono, come se fossero autoilluminati, da uno sfondo privo di fonti di luce. Poi entrano in scena i majos, i solisti e i ballerini, nei loro tipici abiti settecenteschi, i coloratissimi costumi di Alessandro Ciammarughi che citano con precisione i quadri di Goya, le luci si alzano e iniziano le scene galanti. Veniamo ora alla compagnia di canto. I due protagonisti Rosario, il soprano Giuseppina Piunti e Fernando, il tenore Andeka Gorrotxategi sono entrambi in possesso di strumenti vocali belli e importanti, che, vista la giovane età di entrambi, potrebbero condurli verso ottime carriere, con qualche piccolo aggiustamento. Giuseppina Piunti, nata soprano lirico spinto, si sta attualmente indirizzando verso ruoli di soprano falcon e mezzosoprano; il ruolo di Rosario è sopranile, ma di scrittura non particolarmente elevata, dal momento che di rado porta la voce sopra al pentagramma (pochi la acuti, un isolato si naturale). La cantante marchigiana lo affronta con slancio e senza risparmio di mezzi, mettendo in luce un timbro ricco e un buon volume, ma la ricerca di colori e potenza nel registro di mezzosoprano, ovvero la spinta e l’affondo nel settore medio-basso, rendono laboriosa la salita agli acuti che suonano a volte malfermi. L’affondo e lo scurimento del timbro non aiutano nemmeno il tenore basco, che, dotato di voce naturalmente corposa e incline ai titoli di vocalità gagliarda, riesce ad emergere nei momenti in cui la tessitura si alza, offrendo un ottimo duetto nell’ultimo quadro, imperioso e squillante, come si addice alla fierezza del personaggio, mentre un po’ appannato e anonimo risulta nelle altre scene. Sono entrambi bravi attori, lei dotata anche di una avvenenza fisica che le consente di incarnare, mediante la perfetta riproduzione della posa e dei costumi, uno dei più noti personaggi della pittura di Goya, facendo il suo ingresso nel primo quadro come Maja vestida e, liberatasi degli indumenti, figurando per un istante come Maja desnuda nell’ultimo. Anna Maria Chiuri presta un timbro scuro e rotondo al personaggio di Pepa, dando ottimo rilievo ad un ruolo non grande ma pieno di carattere. Il Paquiro di Cesar San Martin ha autorità scenica ma non vocale a causa di una voce piccola e che non corre. Sonora e di bel timbro è la voce del tenore Paolo Antognetti nei panni di un majo che intona una canzone. Ulteriore “personaggio”, importante quanto un protagonista assoluto, è il coro che rappresenta il popolo dei majos, la voce che segue e commenta l’intera azione. Il Coro del Maggio, diretto da Lorenzo Fratini offre, come di consueto, una prestazione di altissimo livello. Il direttore Guillermo Garcia Calvo si riconferma capace di coniugare la capacità di creare atmosfere e suggerire inquietudini sottili con la precisione di concertazione e la perfetta leggibilità delle parti, ove fondamentale è l’apporto dell’ottima Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. L’intermezzo, così, presenta una grande pulizia, ma anche una grande energia e sembra percorso da un alito gelido che gli conferisce il carattere di una corsa vigorosa verso un destino malevolo. L’interludio tra il secondo e il terzo quadro, dopo un’introduzione minacciosa, si distende, diventa lirico, affettuoso, ma in trasparenza lascia percepire, grazie al perfetto dosaggio dei piani sonori, qualcosa di vagamente ostile, che tinge la tenerezza di riflessi preziosi, affascinanti, ma foschi. Al termine tutti raccolgono applausi calorosi, in particolare il direttore e il maestro del Coro. Foto © Pietro Paolini – TerraProject – Contrasto