Opera in quattro atti su testo di Antoni Ghislanzoni. Aris Argiris (Atahualpa), Arianna Ballotta (Cora), Ivan Magrì (Hernando de Soto), Vassily Ladyuk (Francisco Pizzaro), Carlo Cigni (Vicente de Valverde), Xavier Fernández (Ferrando Pizzaro), Juan Pablo Marcos (Esploratore), Rosa Parodi (Schiava). Orquestra sinfónica Nacional del Perù, Manuel López-Gómez (Direttore), Coro Nacional del Perù, Javier Súnico (Maestro del coro). Registrazione: Gran Teatro Nacional de Lima, 23-25 marzo 2013. 2 CD Universal 4811771
Il mondo dei compositori italiani attivi intorno a Verdi costituisce una realtà ancora poco esplorata e, se possibile, ancor meno nota è la vita musicale negli stati latino-americani del XIX secolo dove pure la passione per l’opera era una realtà ben presente anche in virtù degli stretti legami che questi mantenevano con quanto avveniva negli stessi anni in Europa. All’incrocio di queste due realtà si colloca l’opera del milanese Carlo Enrico Pasta (1817-1898) formatosi fra Milano e Parigi, dove godette della protezione di Rossini e Adam, patriota della Repubblica Romana, per cui nel 1849 compose “La rondine” che in breve divenne uno degli inni dei combattenti; trasferitosi nel 1855 in Perù, vi sarebbe rimasto fino alla fine dei suoi giorni salvo rari ritorni in Italia. Nella sua nuova terra si integrò rapidamente affermandosi come compositore di zarzuela, prima, su libretti importati dalla Spagna, e, poi, collaborando con poeti locali come Juan Cossio; il loro “Rafael Sanzio” del 1867 viene considerato la prima zarzuela autenticamente peruviana mentre “La fronda” del 1871 è la prima opera italiana composta appositamente per il Perù (pur riutilizzando materiale risalente al 1855 ma rimasto inedito).
In occasione di un rientro in Italia nel 1875 fece rappresentare a Genova “Atahualpa”, su libretto di Antonio Ghislanzoni; l’opera, che fu ripresa in seguito anche a Lima e Milano, rappresentò forse il suo maggiore successo. Considerata perduta, l’opera è stata recentemente recuperata anche se solo nella stesura per canto e pianoforte mentre nulla resta dell’orchestrazione. Per realizzare il desiderio di riportarla in scena in occasione del Festival Internazionale d’Opera Alajandro Granda è stato affidato l’incarico di riorchestrare lo spartito al compositore Matteo Angeloni, autore di un lavoro encomiabile per aderenza stilistica e forza espressiva con cui l’opera è tornata alla luce.
La musica di Pasta adotta un linguaggio magari non aggiornatissimo ma non privo di efficacia; dominante l’influenza di Meeyerber evidentemente assorbita negli anni francesi così come significativi sono gli echi verdiani anche se più quelli degli anni giovanili e delle opere parigine che non quelli della produzione contemporanea del maestro di Busseto – si notino le assonanze fra il coro dei soldati spagnoli che apre l’opera e la scena per molti versi simile all’inizio de “I vespri siciliani”. L’opera è poi percorsa da un forte impeto morale che tutta l’attraversa e l’innerva in un fortissimo slancio ideale contro il colonialismo e il fanatismo che accende la fantasia del compositore.
Merito anche del libretto di Ghislanzoni che, partendo da un impianto apparentemente banale come la storia d’amore fra la principessa indigena e il nobile cavaliere nemico, lo svolge con originalità contrapponendo con forza il fanatismo dei conquistatori – incarnato dal monaco Valverde – alla nobile tolleranza degli indigeni fra i quali si pone un Pizarro particolarmente problematico nel suo ondeggiare fra la nera influenza del monaco e quella positiva del luogotenente Soto, innamorato dalla principessa inca Cora e propugnatore della pace con i nativi. Contrapposizione che raggiunge il culmine nell’ultimo atto quando Cora, fattasi cristiana per amore scopre gli inganni di Valverde che racconta al popolo la finta conversione del Re per costringerlo a piegarsi; a quel punto, sconvolta dalla perfidia del frate, la fanciulla svela l’inganno e, rinnegato il battesimo, accetta il martirio diventando eroina di un popolo vinto ma non domato mentre il coro riprende il tema dell’inno peruviano con l’augurio di un futuro glorioso di riscatto. Interessante anche l’immagine dei soldati spagnoli visti sì come nemici ma sostanzialment,e nobili e umani, vittime anch’essi di una guerra che ormai non comprendono più e soprattutto manovrati con lucido cinismo dall’inquisizione vero demone che tutto regge. Nell’ottica peruviana di Pasta invasori e nativi sono le due parti da cui sarebbe nato il nuovo popolo peruviano mentre il cristianesimo è la forza diabolica che ha portato alla distruzione della cultura nativa e ha impedito un’integrazione autentica e pacifica.
La musica di Pasta aderisce al libretto con convinzione e notevole ispirazione melodica. La struttura guarda al Grand-Opéra, pur scremandolo degli eccessi spettacolari di contorno; le arie tendono, infatti, ad inserirsi in blocchi strutturalmente più ampi che raggiungono il massimo effetto nei grandi finali d’atto. La vocalità affonda ancora nel gusto della prima metà del secolo e ricorda soprattutto quella delle opere giovanili di Verdi. Notevole maestria è dimostrata nel trattamento delle masse corali. Non conosciamo quale fosse l’orchestrazione originale di Pasta che però sappiamo molto apprezzato al riguardo dalla critica dell’epoca; quella di Angeloni è brillante e vitale, di grande freschezza timbrica e lascia l’ascoltatore decisamente soddisfatto.
Registrata dal vivo in occasione della sua ripresa a Lima, questa produzione si fa subito ammirare per l’alta qualità tecnica della registrazione che non soffre dei difetti tipici delle registrazioni live e presenta una pulizia di suono all’altezza di un prodotto in studio. Sul piano musicale gran merito della riuscita spetta alla convinzione e all’entusiasmo dell’Orquestra sinfónica Nacional del Perù e del Coro Nacional del Perù diretti rispettivamente da Manuel López-Gómez e Javier Súnico, autori di una lettura musicalmente impeccabile, di grande rigore formale e stilistico e con una qualità musicale complessiva degna di ben più blasonati complessi europei, specie l’impegnatissimo coro cui sono destinate alcune delle pagine più riuscite dell’opera.
Nella compagnia di canto spiccano le voci gravi. L’elemento migliore risulta il Pizzaro di Vassily Ladyuk, baritono nobile dal bel timbro e dalla notevole solidità e interprete sensibile che riesce a ben delineare questa figura contradditoria; la grande aria “O fratel! Se al suolo ispano” è momento di nobile abbandono lirico e trova in Ladyuk interprete di notevole convinzione ed eleganza. Aris Argiris è un Atahualpa non raffinatissimo come linea vocale e limitato da una pronuncia italiana spesso fin troppo artificiosa ma la voce è solida e il fraseggio non manca di autorità tanto nel duetto con Cora – in cui palese è il ricordo di quello fra Amonasro e Aida – tanto nei declamati degli scontri con Valverde, un Carlo Cigni, quest’ultimo, solido e granitico, non privo di qualche guizzo mefistofelico non improprio per questo gesuita spietato e fanatico, più basso diabolico e sacerdotale.
Entusiasma meno la coppia dei giovani innamorati. Ivan Magrì avrebbe la giusta voce luminosamente lirica di Hernando de Soto, forse solo un po’ leggera. Il problema è la quadratura tecnica: problematica unità ad una musicalità carente con tendenza a forzare e ad allargare inutilmente i suoni compromettendo l’intonazione e la correttezza della linea di canto. Quasi speculare la situazione di Arianna Ballotta, musicale, espressiva, tecnicamente solida; il suo problema è che la parte di Cora è chiaramente di soprano lirico pieno capace di emergere su una base orchestrale spesso densa e caratterizzata da scatti improvvisi – per certi aspetti può ricordare quella di Maria Boccanegra – al contrario la Ballotta possiede una voce leggera e delicata che gestisce con intelligenza e gusto ma ovviamente è spesso al limite. Buone le parti di fianco e assolutamente positiva l’impressione sull’opera meritevole di un attento ascolto e che non dispiacerebbe veder allestita sui nostri palcoscenici.