Teatro La Fenice, Stagione sinfonica 2015-2016, Concerto inaugurale
Orchestra del Teatro La Fenice
Direttore Jeffrey Tate
Franz Schubert: Sinfonia n. 6 in do maggiore D 589
Anton Bruckner: Sinfonia n. 2 in do minore WAB 102 (versione 1872)
Venezia, 4 dicembre 2015
Ancora Jeffrey Tate sul podio dell’Orchestra del Teatro La Fenice nella serata inaugurale della nuova Stagione sinfonica della Fenice, a pochi giorni dal successo riportato dallo stesso Maestro di Salisbury con l’Idomeneo di Mozart, con cui si è aperta la Stagione lirica 2015-2016 del teatro veneziano. L’attuale ciclo di concerti è assolutamente imperdibile, in quanto vi sarà proposta l’esecuzione integrale delle sinfonie di Anton Bruckner, un compositore non proprio popolare in Italia, probabilmente anche per le proporzioni monumentali delle opere, appartenenti a questa sua produzione, che solo da qualche decennio sta entrando in repertorio. La direzione musicale sarà affidata alle più prestigiose bacchette. Dopo Tate, si succederanno: Eliahu Inbal (Ottava: 27 e 28 febbraio), Omer Meir Wellber (Sesta: 4 e 5 marzo), Michel Tabachnik (Settima: 1 e 2 aprile), Yuri Temirkanov (Quarta: 15 e 16 aprile), ancora Tate, che riceverà, in quest’occasione, il Premio “Una vita nella musica” (Quinta: 21 e 23 aprile), Jonathan Webb (Prima: 10 e 11 giugno), John Axelrod (Terza: 17 e 18 giugno) e Juraj Valčuha (Nona: 8 e 10 luglio). In questo concerto inaugurale, il titolo bruckneriano – la Seconda sinfonia, presentata nella sua prima versione (1872) – era preceduto dalla Sesta di Schubert, l’ultima delle sinfonie giovanili – una serie di lavori che furono concepiti, più che altro, come esercitazioni di scrittura orchestrale, non destinati ad una pubblica esecuzione –, composta a Vienna nell’inverno 1817-18 all’età di vent’anni e denominata La piccola, per distinguerla dalla Sinfonia D 944, nella medesima tonalità di do maggiore, nota come La grande.
La Sinfonia n. 6, la più matura del gruppo, risente dell’influsso del giovane Beethoven, ma in alcune parti, soprattutto nel movimento finale, è chiara l’influenza di Gioacchino Rossini, beniamino del pubblico viennese in quegli anni. La partitura, articolata in quattro movimenti, è scritta per un organico tardo-classico, quindi con clarinetti, trombe e timpani, senza i tromboni, presenti invece nell’orchestrazione della Grande.
Equilibrata, ma anche diffusamente vigorosa l’interpretazione di Jeffrey Tate, che puntava sulla brillantezza del suono come si è sentito nell’Allegro in forma sonata – dopo la solenne introduzione con le sue iniziali strappate orchestrali –, in cui si sono messi in luce il flauto, l’oboe e il clarinetto, eseguendo il vivace primo tema, poi ripreso da tutta l’orchestra; ancora i legni in primo piano nel secondo tema, agile e scattante, con l’accompagnamento ribattuto degli archi, per arrivare – dopo lo sviluppo in cui si coglie un continuo susseguirsi di “sorprese” di stampo haydniano – alla coda finale, in cui si avvertono echi della prima sinfonia di Beethoven. Nel secondo movimento, Andante, si è apprezzata la grazia dell’accento e il suono rotondo e vellutato degli archi, cui è affidato, nella prima sezione, un tema pacato, cui segue una parte centrale fortemente contrastante, secondo l’esempio rossiniano. Grandi contrasti dinamici, tra leggerezza e perentorie esclamazioni dell’orchestra, hanno percorso il terzo movimento, Scherzo, in cui sono evidenti i riferimenti allo Scherzo della Settima sinfonia di Beethoven; nel trio si è particolarmente apprezzato il dialogo serrato dei flauti e degli archi.
Spavalda leggerezza di violini e legni – impegnati in scale ascendenti e discendenti sopra i ritmi puntati dell’accompagnamento –, tempi veloci, arte del legato hanno dominato nel finale di chiara ascendenza rossiniana, in cui si susseguono più temi come in un perenne Rondò.
La Seconda sinfonia di Bruckner – per certi aspetti il più profetico dei suoi primi lavori sinfonici – fu iniziata nell’autunno del 1871, qualche tempo dopo il ritorno del musicista da Londra, dove aveva trascorso il mese di agosto, esibendosi all’organo della nuova Royal Albert Hall. Come gran parte delle sinfonie di Bruckner, anche questa Seconda (che in realtà è la Quarta considerando anche la Studiensymphonie in fa minore e la cosiddetta Annullierte in re minore, rispettivamente del 1863 e del 1869), ha conosciuto diverse versioni: la prima fu realizzata fra l’ottobre 1871 e il settembre 1872, per essere sottoposta, qualche anno dopo, ad una profonda revisione con la collaborazione di Johann von Herbeck, mentre una terza versione risale al 1877. La prima versione, quella che è stata proposta nel concerto di cui ci occupiamo, venne eseguita per la prima volta a Vienna, il 26 ottobre 1873 in occasione dei festeggiamenti conclusivi dell’Esposizione Universale, con lo stesso Bruckner a capo dei Wiener Philharmoniker. Per certi aspetti questa Seconda sinfonia segna un ritorno indietro nel percorso evolutivo dell’autore, intenzionato ad assecondare le istanze piuttosto conservatrici dell’ambiente viennese (sub Hanslick Imperatore), nonché a ridurre le difficoltà tecniche, che avevano reso tanto ardua l’esecuzione della Prima. In questa prospettiva, tra l’altro, si inquadra il ricorso ad ampie pause (di derivazione schubertiana), ad isolare i singoli episodi, semplificando il discorso musicale (di qui la denominazione di Pausen-symphonie attribuita al lavoro, altrimenti definito “Sinfonia dell’Alta Austria”, per una certa vena bucolica che lo attraversa). Ciò non toglie, comunque, che di primo acchito, i Wiener Philarmoniker bollassero la partitura come “ineseguibile”: le aquile volano sempre da sole…
Profondamente analitica l’interpretazione di Jeffrey Tate, che adotta, in particolare nel secondo movimento (il più riuscito e pregnante di significati), dei tempi decisamente dilatati.
Ricco di sfumature dinamiche e agogiche l’iniziale Moderato (letteralmente Piuttosto veloce), che esordisce con un tremolo di violini e viole – una delle cifre distintive del Maestro di Ansfelden – su cui i violoncelli espongono l’inquieto primo tema, che procede per semitoni, sostenuto dal ritmo pulsante delle trombe, spegnendosi poi in un pianissimo. Dopo una lunga pausa appare il secondo tema, sempre ai violoncelli, di carattere pastorale, seguito dal terzo, affidato a flauti, clarinetti e oboi, di natura affine. Ancora una pausa prima dello sviluppo introdotto da corno. Grandiosa la coda sul ritmo insistente delle trombe. Indimenticabile l’Adagio, dal carattere profondamente meditativo, religioso, testimoniato dall’autocitazione dal “Benedictus” della Messa in fa minore (1868): qui è emerso davvero ogni particolare, anche grazie alla dilatazione dei tempi fino quasi alla dissoluzione della forma, con straordinari effetti espressivi, che hanno messo in luce – al di là della “vulgata” serenità che aleggerebbe all’interno di questo brano – intime lacerazioni, espresse dalle armonie dissonanti degli ottoni. Una prova di grande professionalità da parte di tutta l’orchestra, quanto ad attacchi, coesione, intonazione, cui ha corrisposto l’intensa concentrazione del pubblico: dal primo tema severo ai violini, poi ripreso dagli altri archi, al secondo tema, a mo’ di corale, proposto dal corno (tra i protagonisti del movimento) sopra il pizzicato degli archi, al cromatico intervento del fagotto, che fa da ponte fra i due temi, al sommesso finale con cui il movimento gradualmente si spegne tra le sonorità delicate di flauto, violino e corno. Reiterate esplosioni di energia hanno caratterizzato lo Scherzo, aperto da un tema vorticoso seguito da un altro più cantabile; un movimento in cui aleggia Haydn – nonostante la densa orchestrazione –, fondato su un discorso frammentario, in cui le trombe fanno da trait-d’-union, con l’intermezzo del classicoTrio, una sorta di Länder, che crea un’atmosfera pastorale. Una svolazzante leggerezza ha aperto il Finale, che reintroduce la tonalità di do minore del primo movimento, alternandola a quella di do maggiore, nella quale si conclude. Tate ha messo mirabilmente in valore questo capolavoro di contrasti timbrici e dinamici, che in più punti rivela una concezione organistica, com’è naturale in un autore che per anni ricoprì la carica prestigiosa di organista presso l’Abbazia di Sankt Florian. Ancora tre temi – di cui il primo deriva chiaramente dal corrispondente tema del movimento iniziale, mentre il terzo è una citazione dal “Kyrie” della già ricordata Messa in fa minore –, sono presenti in questo movimento, percorso da vari climax ascendenti, culminanti in un formidabile motivo martellante, irrobustito da timpani ed ottoni (cui è affidato un ruolo fondamentale in tutto il movimento), costituito da poderosi accordi ribattuti, fino all’apoteosi finale, che – in poche battute, costituite da brevi motivi ostinati – risolve tensioni e contrasti, in un fervente abbandono all’“amor che move il sole e l’altre stelle”. Successo pieno con punte d’entusiasmo.