Teatro Verdi, 49^ Stagione dei Concerti della Normale
“CATONE”
Opera-pasticcio di Georg Friedrich Händel
con arie di Hasse, Leo, Porpora, Vinci e Vivaldi
Libretto di Pietro Metastasio
Edizione critica di Carlo Ipata
Trascrizione a cura di Gioele Gusberti e Alessio Bacci
Catone FILIPPO MINECCIA
Cesare RICCARDO NOVARO
Marzia LUCIA CIRILLO
Arbace KRISTINA HAMMARSTRÖM
Emilia ROBERTA INVERNIZZI
Orchestra Auser Musici
Maestro direttore e concertatore Carlo Ipata
Mise en espace I Sacchi di Sabbia
Scene Francesca Pieretti
Costumi Lucia Castellana
Luci Federico Polacci e Stefania De Cristofaro
Coproduzione Opera Barga e Teatro di Pisa in collaborazione con Händel Festspiel di Halle
Pisa, 20 dicembre 2015
“I am just come from a long, dull, and consequently tiresome Opera of Handel’s whose genius seems quite exhausted…” (“Sono appena tornato da una lunga, noiosa, e pertanto affaticante opera di Händel, il cui genio pare proprio esaurito”): così si lamentava John Hervey, Conte di Bristol, in una missiva del 4 novembre 1732 all’amico Stephen Fox di ritorno dal teatro King’s Haymarket di Londra con la convinzione di aver assistito a una vera composizione di Händel, ignorando invece che l’opera che lo aveva annoiato a morte, Catone, era stato invece un pasticcio, genere musicale oggi vituperato, anche se la mania barocca degli ultimissimi decenni, nella foga di recuperare tutto quello anche minimamente associato a Händel ed a altri grandi compositori, lo ha timidamente riportato alla ribalta (basti pensare a The Tempest andato in scena di recente alla Metropolitan Opera). Si può pensare al pasticcio come ad un antesignano di una “playlist” in cui si presentavano arie di diversi compositore accomunate dal fatto che provenivano da uno stesso libretto, per lo più metastasiano, adattato alla bisogna. Il pasticcio poteva servire quindi per offrire un florilegio di brani già amati dal pubblico, o per presentare compositori ancora non troppo conosciuti. Catone appartiene a quest’ultima categoria: Händel, al suo secondo pasticcio dopo l’Elpidia (e altri ne seguiranno: non dobbiamo dimenticare per l’assemblaggio di un pasticcio il Caro Sassone veniva pagato come se si trattasse di un’opera nuova) scelse un dramma di Metastasio musicato originariamente da Leonardo Vinci nel 1728; ma fu la versione di Leonardo Leo dell’anno successivo, che Händel ebbe modo di ascoltare a Venezia, a fornirgli la maggior parte del materiale. Oltre a quella di Leo, fu presa in prestito musica di altri compositori, e in particolare sono queste le arie che più mi hanno colpito: “Quando piomba” di Arbace e “È ver che all’amo infermo” (con fagotto concertante) da Poro di Porpora,, “Non paventa del mare” da Siface del medesimo compositore, “Vede il nocchiero” da Euristeo di Hasse, ”So che nascondi” basata sula melodia di danza di “Benché nasconda” dall’Orlando vivaldiano, e soprattutto l’impressionante sfoggio pirotecnico finale, il celebre “Vò solcando” dall’Artaserse di Vinci. La conclusione dell’opera è tra le parti che maggiormente differiscono dalle versioni precedenti: Metastasio originariamente aveva previsto un finale tutto sommato semplice e secco, in cui Catone intonava un lungo recitativo prima di suicidarsi, fuori scena come era d’obbligo; tale finale, già modificato l’anno dopo nella versione di Leo venne ulteriormente stravolto da un Händel pressato dalle richieste della primadonna interprete di Marzia, Anna Maria Strada del Po’, che volle chiudere l’opera con uno strabiliante ma drammaticamente più incongruo pezzo di bravura. Anche le altre modifiche, maggiori o minori, vennero apportate a causa dei nuovi interpreti e dal numero di arie che le convenzioni richiedevano: la Strada del Po’ (creatrice di quasi ogni ruolo da protagonista femminile nelle opere händeliane dal Lotario in poi, quindi per circa otto anni) ebbe cinque arie, così come il Senesino nel ruolo del titolo; benché fosse probabilmente il basso più importante dei suoi tempi, Antonio Montagnana, un altro cantante amato dal compositore per cui interpretò anche un paio di oratori in inglese) dovette sempre per forza maggiore di cose rimanere nell’ombra dei castrati e delle dive, ricevendo anche in questo caso tre arie (le più belle, secondo il mio parere). Le altre due interpreti, il soprano la Celestina (al secolo Celeste Gismondi) nel ruolo di Emilia volle cantare solo arie in cui aveva già brillato in precedenza, e il ruolo di Arbace, tanto importante nell’opera di Leo da esser stato affidato nientemeno che al Farinelli, diminuì drasticamente d’ importanza allorché passò nella mani meno esperte del contralto Francesca Bertolli. Carlo Ipata aveva già presentato il Catone al Festival Opera Barga dell’estate scorsa, avvalendosi di un cast scelto fra candidati provenienti da tutta Europa con un limite di età di trentacinque anni; per l’esecuzione pisana (che viaggerà l’anno prossimo allo Händel Festspiel di Halle) la compagnia di canto era completamente diversa e formata da artisti di provata esperienza: un quintetto nel complesso piuttosto forte, omogeneo e privo di squilibri qualitativi, in cui comunque a mio avviso spiccava il Cesare di Roberto Novaro, baritono che da quasi due decenni si è distinto nel repertorio del primo ottocento e soprattutto in quello barocco, cui porta un timbro di medio volume ma ben timbrato, ricco di armonici e quindi squillante, di notevole estensione (il ruolo era stato concepito o adattato per un basso in fin dei conti) e soprattutto, qualità affatto scontata per le voci gravi, molto ben versato nel canto di coloratura, con agilità nitide e sgranate, come ampiamente dimostrato nell’aria di tempesta “Agitato da più venti”(da notare che l’aria di Metastasio è posteriore a quella di Apostolo Zeno in cui sono solo due i venti che agitano la protagonista), o in quella di furore “ So che ascondi livore in seno”; altrettanto efficace è il canto più legato dell’aria “È ver che all’amo infermo”, certamente non uno dei momenti più felici della poesia metastasiana. Anche da un punto di vista strettamente interpretativo Novaro si è messo in luce con un Cesare carismatico, che emanava affabilità e al contempo autorità, non senza un lieve sarcasmo. Ottima vocalista si è dimostrata anche Lucia Cirillo: il ruolo di Marzia è abbastanza incolore e non ben sviluppato, ma la cantante ha avuto modo di brillare nella lunga e ostica aria finale, affrontata con bravura e bei trilli; l’unico piccolo appunto è che il timbro, quantunque piacevolissimo, è piuttosto chiaro, direi sopranile, anche se le discese in basso presenti in quest’aria erano facili e naturali. Vero timbro mezzosopranile, con ombreggiature da contralto, è invece quello della svedese Kristina Hammarström, e anche nel suo caso non posso far a meno di sottolineare la naturalezza e scioltezza del canto fiorito. Roberta Invernizzi, probabilmente il nome più celebre del cast, ha ampiamente dimostrato il perché, forte di uno straordinario dominio delle agilità e soprattutto di un’impeccabile musicalità, sia da molto tempo considerata una delle migliori specialiste di questo repertorio, anche se mi è parso che la tessitura di Emilia fosse un po’ troppo grave per lei. Inoltre, ed è uno dei suoi maggiori meriti, è instancabile propugnatrice di uno stile espressivo con uso differenziato del vibrato nel canto barocco, in un campo in cui spesso e volentieri si tendono ancora (anche se non come un tempo) a preferire voci tendenzialmente fisse e sbiancate. Emilia, che è il nome con cui – pare per ragioni eufoniche – Metastasio ribattezzò la vedova di Pompeo, ossia Cornelia, è in quest’opera un personaggio alquanto sgradevole, con un’unica idea fissa in testa, quella in fin dei conti legittima della vendetta, che persegue però con tanta petulanza e stridore da indirizzare verso Cesare le simpatie del pubblico: la Invernizzi non ha avuto timore di gettarsi a capofitto in un’interpretazione mordace, un po’ “camp” e sopra le righe, in altre parole perfettamente riuscita. Avevo recensito Filippo Mineccia alcuni mesi fa in un’incisione commerciale del Bajazet di Gasparini sempre diretto da Ipata, e in tale occasione trovai il suo timbro asprigno e non particolarmente ricco di armonici. Come prova ulteriore, se mai ce ne fosse bisogno, che una vera idea del suono di un cantante possiamo farcela solo a teatro, e che molti falsettisti non sono per nulla fonogenici, sono qui lieto di “smentire” me stesso in quanto dal vivo il controtenore fiorentino ha evidenziato un timbro di considerevole calore e morbidezza atte a esprimere la liricità del ruolo eponimo; la coloratura, benché non vorticosa come i suoi colleghi, è di tutto rispetto. Dopo una Sinfonia non del tutto calibrata in cui i legni hanno talora avuto qualche occasionale problemino di intonazione non insolito quando si ha a che fare con strumenti antichi, gli Auser Musici, acclamato ensemble pisanissimo fin nel nome (Auser era il nome di un antico fiume della piana pisana), hanno offerto un’altra prova magistrale sotto la bacchetta del loro direttore stabile, Carlo Ipata, uno dei più stimati specialisti del repertorio barocco, che ha come al solito staccato tempi vivaci, ritmicamente vigili, producendo un suono, sopratutto nelle molte arie di furore e di tempesta, decisamente energico e roboante, termine usato in senso assolutamente positivo: la vigoria strumentale in pratica pareva riprodurre da sola i tuoni e i fulmini all’epoca prodotti da apposite macchine teatrali. Tanta visceralità orchestrale non si propagava purtroppo sul palcoscenico, ove regnava un ristagno totale. A loro parziale discolpa c’è da dire che I Sacchi di Sabbia non definiscono il loro lavoro una “regia” bensì una “mise en espace”; fatto sta che nello spazio non c’era proprio niente e di azione drammatica neanche l’ombra. Nel vuoto assoluto i cantanti riproducevano pochi gesti, il più comune dei quali era quello, dopo la prima parte dell’aria, di dirigersi verso una porta, portare la testa al braccio appoggiato sulla parete in prossimità della porta come per riflettere sul da fare, e poi tornare al centro della scena per il daccapo; l’idea di una tempesta era un lampadario che ondeggiava spengendosi e accendendosi. Nel secondo atto facevano la loro comparsa due sedie e una colonna che reggeva un vaso di pesci rossi, che Arbace cercava di colpire affondando un pugnale nell’acqua. Mi dispiace dover scrivere in questi termini di una compagnia pisana che in questi ultimi vent’anni si è contraddistinta in altre forme di spettacolo, ma l’opera non pare proprio nelle loro corde, per non parlare di quest’opera barocca che altro non è se una sfilza di arie una dietro l’altra: a questo punto un’esecuzione in forma concertante sarebbe stata forse preferibile. Foto Massimo D’Amato, Firenze