Matthias Goerne canta Wagner con Christoph Eschenbach

Madrid, Auditorio Nacional de Música
Orquesta Nacional de España – Temporada 15/16 “Maldita obsesión”
Orquesta Nacional de España
Direttore Christoph Eschenbach
Baritono Matthias Goerne
Richard Wagner : “Tristan und Isolde” (Vorspiel mit Konzertabschluß – «Tatest du’s wirklich?», monologo di re Marke dall’atto II), “Die Walküre” (Wotans Abschied und Feuerzauber)
Igor Stravinsky : “Le Sacre du printemps”
Madrid, 5 dicembre 2015

L’ultima volta che ascoltammo Matthias Goerne dal vivo fu nell’aprile 2013, al Teatro alla Scala, per una straordinaria esecuzione della Winterreise schubertiana. Risentirlo a distanza di più di due anni e mezzo in un concerto wagneriano in cui interpreta Marke e Wotan è prima di tutto una sorpresa piacevole ed emozionante. Avviandosi a compiere cinquant’anni, da qualche tempo Goerne affianca allo studio della musica liederistica, che lo ha reso molto famoso in tutto il mondo, anche la prova di ruoli teatrali, soprattutto di opere del Novecento. Wagner deve però costituire il suo autore d’elezione, perché ha già avvicinato le parti di Wolfram, Amfortas, Kurwenal; ora il cimento è sicuramente più impegnativo, soprattutto per il Wotan del finale di Die Walküre. Il contesto, del resto, è ottimale perché a guidare la Orquesta Nacional de España è un direttore esperto, vigoroso, inesorabile come Christoph Eschenbach. La serata è strutturata in modo da giungere alle pagine vocali con adeguata introduzione strumentale, e sarà bene seguire l’intenso approccio direttoriale alla partitura di Tristan und Isolde. Eschenbach stacca infatti un tempo lentissimo, di grande suggestione, grazie al quale tutti gli accordi del preludio si offrono bene sgranati, quasi scoccati separatamente l’uno dall’altro. Nelle frasi discendenti, poi, oltre a smorzare il suono il direttore lo rallenta vieppiù, con effetto incantevole, che solo chi frequenta Wagner da molti anni può ottenere in modo così convincente. Nell’ossessiva ripetizione delle strutture, che caratterizza il momento della morte di Isolde, Eschenbach fa cantare a turno tutte le sezioni dell’orchestra, estraendo ogni possibile colore a partire dagli stessi temi, in un bouquet costituito dalle peculiarità di violini, viole, violini secondi, violoncelli, e in parallelo al progressivo irrobustirsi della compagine orchestrale. Finalmente la voce di Goerne dà corpo al canto disperato, ferito ma nobilissimo di re Marke, e si rivela perfetta nel porgere e nel volume, robusta e dignitosa al tempo stesso. Il fraseggio è naturalmente molto accurato (e questo potrebbe essere il primo requisito che si attende da un liederista), ma è ottima anche la capacità di alleggerire il suono, ove opportuno. Con la domanda finale (‘Chi mai al mondo potrà sondare questo abisso imperscrutabile?’), che resta priva di risposta e che conclude il monologo di Marke, il primo ad accusare gli effetti dell’atmosfera allucinata è lo stesso Goerne, a indicazione dell’affinità tipologica tra la lunga pagina tristaniana e un Lied di Schumann o di Schubert. In altre parole, il baritono si sente molto a suo agio con una parte così riflessiva e indagatrice, la cui vocalità non eccede né in sonorità né in note acute. Con l’addio di Wotan, ovviamente, il quadro musicale cambia del tutto e nascono alcuni problemi; in primo luogo Goerne non riesce sempre a sostenere il volume orchestrale di Eschenbach, che non gli concede alcuna facilitazione rispetto a un’impostazione rutilante, grandiosa, forse anche fragorosa. Con l’emissione sforzata alcune salite agli acuti risultano inevitabilmente fuori dalla maschera e non perfettamente timbrate; le note sono corrette, beninteso, però si percepiscono la tensione allo spasimo e la spinta del diaframma (meno corpose, invece, le note basse, che a volte sfuggono del tutto all’ascolto). In secondo luogo la pagina di Wotan è decisamente teatrale, di un declamato stentoreo e imperioso; se richiede accenti di dolore e di rimpianto, essa non è però il luogo della riflessione o del ripiegamento intellettuale, in cui Goerne eccelle; per questo il suo Wotan è certamente suggestivo, molto elegante e signorile, ma non convince completamente (soprattutto nel momento dell’invocazione di Loge). L’eccessiva pienezza dell’onda sonora orchestrale penalizza la voce del baritono: sarebbe interessante ascoltarlo al di sopra del golfo mistico bayreuthiano, con un supporto strumentale più temperato nei volumi; senza dubbio il risultato sarebbe più equilibrato. Anche Eschenbach riesce più persuasivo nel Tristan, perché al termine dell’incantesimo del fuoco l’orchestra resta piuttosto pesante. Il pubblico dell’Auditorio Nacional de Música tributa comunque grande onore al cantante, come per approvare la sua scelta di affrontare prossimamente tutta la parte di Wotan nella prima giornata del Ring des Nibelungen (in versione da concerto) con l’Orchestra Filarmonica di Hong Kong diretta da Jaap van Zweden.
Nella seconda parte del programma resta protagonista la Orquesta Nacional de España, impegnata nel Sacre du printemps di Stravinsky, una partitura frequentata molto spesso da questo complesso sin dai tempi in cui ne era direttore Rafael Frühbeck de Burgos. Anche in Stravinsky il direttore applica uno studio analitico finalizzato a estrarre un colore diverso per ciascun gruppo strumentale; ma l’obbiettivo principale sembra essere la nettezza del suono. Non ci sono sensibili variazioni ritmiche, come nell’inarrivabile Vorspiel del Tristan, ma solo lievi mutamenti, estremamente graduali, cui il tempo musicale è sottoposto. L’orchestra risponde assai bene alle richieste del direttore: gli ottoni squillano così forte da risultare anche molesti all’udito (trombe e tromboni in forma smagliante), mentre i legni sembrano essere un po’ meno affidabili. Nella seconda parte (Il sacrificio) si moltiplicano nella versione di Eschenbach gli effetti mimetici più selvaggi: come barriti di animali, grida di disperazione e di orrore, appena temperati da qualche concessione ironica (in alcuni glissando e in qualche intervento del basso tuba, quasi si volesse respirare un po’ dell’atmosfera di Petrushka). Il direttore, che compie settantacinque anni, si serve di un gesto scattante e abbastanza ampio, coinvolgendo nel movimento tutta la propria persona; con le sue indicazioni è attentissimo a ricostruire sequenze e progressioni, che nel Sacre abbondano, e a presentare così un edificio musicale dalle vibrazioni nervosissime, in cui tutto è sfogo di tessuti in tensione, ma in cui i contorni, le strutture portanti, le proporzioni e l’alternanza di spazi pieni e vuoti restano sempre molto chiari. Stravinsky, per ricorrere alla sua parola preferita, avrebbe certamente molto apprezzato questa attenzione all’architettura della musica. Si può pensare che con tale accorgimento il direttore voglia anche ricondurre il Sacre al suo reale significato, di rappresentazione cruenta e brutale – ma sistematica – del paganesimo russo, anziché di pirotecnica evocazione di un generico mondo tribale e primitivo (alla cui tentazione molte esecuzioni peraltro cedono). Eschenbach, in altre parole, tratta la partitura di Stravinsky come richiedono alcune opere di Strauss, in cui l’età antica cessa di essere modello di perfetta armonia e mostra invece la sua realtà più torbida, perturbante, violenta (il Sacre come un corrispondente russo di Elektra, dunque; del resto, dopo i ‘quadri della Russia pagana’, anche Stravinsky avrebbe affrescato l’inquietante polittico tragico dell’Oedipus rex). Il successo è davvero clamoroso, e gli applausi del pubblico di Madrid si prolungano nel rendere onore al direttore, all’orchestra, alle varie prime parti.